sabato 16 ottobre 2004

a proposito di un libro di Giulio Giorello
la Ragione ha bisogno del Mito

La Stampa TuttoLibri 16.10.04
Perché la ragione ha bisogno del mito
Ermanno Bencivenga

PROMETEO è incatenato a una roccia del Caucaso. Per aver troppo osato, è condannato a un supplizio orribile: un'aquila strazia continuamente il suo fegato, che continuamente ricresce. Ma la figura di questo suo umano, troppo umano ardire e del tormento che ne segue non si esaurisce con lui, su quella roccia lontana. Riappare nell'audacia di Giordano Bruno, che spalanca le frontiere del cosmo e viene così passato a fuoco lento in Campo dei Fiori, nell'anno di grazia (e anno santo) 1600. Balena minacciosa nella Creatura di Mary Shelley, esito maledetto della luciferina ambizione di Victor Frankenstein, che aveva voluto dare la vita e ha costruito una macchina di morte.
Odisseo è curioso e perspicace. Inventa il cavallo e visita gl'Inferi. Inganna Polifemo e ascolta le Sirene. È vittima dell'incantesimo di Circe. Redivivo, percorre i mari nel Nautilus, Capitan Nessuno come già nell'isola dei Ciclopi. Vaga per le taverne e i bordelli di Dublino, ritrova stanco il talamo di Molly, che non tesse la tela ma si accoppia serenamente con i Proci. Naufraga, forse, in vista del Purgatorio.
Gilgamesh, «il potente, il superbo, l'intelligente e l'esperto», «destinato alla gloria dalla nascita», lotta coraggioso e magnanimo contro chi assedia le sue mura, parte per spedizioni contro ignoti pericoli. Apprende infine di dover morire, «si fa allestire una tomba scavata in mezzo al letto del fiume Eufrate». Ma la «morte è mancanza di libertà»; la tomba è prigione. Come la prigione in cui è ingabbiato Ezra Pound, lungo la via Aurelia, a Nord di Pisa. Traditore infame, ospite di carceri e manicomi criminali, sepolto infine nell'isola di San Michele, «ma mai disposto ad assolvere la distruzione».
Per quanto rimossa e negata dal discorso razionale, che tenta insistentemente di esiliarla in un passato remoto e un po' infantile, l'era del mito non è certo arrivata al termine. Attraversa invece tutta la nostra esperienza; dà sostanza e fascino a letteratura e arte; ammicca dalle trovate degli speechwriters; traluce perfino nelle canaglierie televisive. Forse perché la nostra infanzia non è mai finita; forse perché dèi ed eroi sono ancora fra noi, dentro di noi; sono ancora il fondamento più saldo e più degno della nostra umanità.
Giulio Giorello ha colto, come molti prima di lui, queste ineffabili risonanze e ha deciso di seguire alcuni degli intricati percorsi che esse tracciano. Quelli, sostanzialmente, che ho indicato qui sopra, usando anche le sue parole. Al servizio del suo progetto ha messo un'innegabile passione e una pratica costante della lettura; una volontà di ascoltare le associazioni più peregrine tanto quanto i legami più ovvi. Ma non è bastato: quel che è venuto meno è stato proprio il mito, la capacità di suggerire e incantare, di liberare il pensiero dalle strettoie dell'abitudine, di aprirlo all'avventura e al sogno.
In Prometeo, Ulisse, Gilgamesh, Giorello affastella citazioni, riducendo il proprio intervento a qualche connettivo e impedendoci così di sentire una sua voce. Non contento, aggiunge a duecento pagine scarse di testo cinquanta pagine di note (445 note in tutto): immagina forse un lettore che interrompa il suo viaggio a ogni riga? che sia disposto a passare senza tregua dalla poesia ai riferimenti bibliografici? Dopo aver detto che «la parola mitica suona diversa dal verbo filosofico» e che «perciò quest'ultimo ha sempre cercato di liquidarla, consegnandola all'insignificanza oppure garantendone il significato», non sa rinunciare all'erudizione dell'accademico e ci snocciola implacabile i dati biografici dei suoi personaggi (Mary Wollestonecraft Godwin, nata il 30 agosto 1797 a Londra, signora Shelley dal 30 dicembre 1816, vedova dall'8 luglio 1822,...). Per far riemergere il sapore del mito, non trova di meglio che riassumere le opere di cui parla, sempre con abbondanti citazioni e con tutta la diligenza di una tesina studentesca. E, nel mezzo di tanto enciclopedico, scolastico sapere, è colto a tratti da sorprendenti amnesie: ricorda Boccaccio ma non Vico; sembra muoversi in un mondo in cui Nietzsche e Heidegger non sono mai comparsi.
Un passo falso, dunque, ma sulla strada giusta. La strada di una ricchezza di immagini, di parole alate e intuizioni profonde che investe, permea e trascende ogni tentativo di controllo e razionalizzazione - che fornisce un repertorio infinito di senso per tutti questi tentativi