sabato 16 ottobre 2004

Sándor Ferenczi vs Sigmund Freud
«una psicoanalisi calda»

La Stampa TuttoLibri 16.10.04
Medico e paziente uniti dalle lacrime:
una psicoanalisi calda
L’importanza terapeutica dello scambio affettivo:
un passaggio essenziale nella riscoperta di Sándor Ferenczi,
da stimato discepolo a eretico dissidente del suo maestro Freud
che sosteneva invece «la necessaria freddezza emozionale dell’analista»
di Augusto Romano

SÁNDOR Ferenczi, a suo tempo tra i più apprezzati seguaci di Freud, ma poi dal Maestro ostracizzato (nella corrispondenza con Jones viene definito un «paranoico», intellettualmente deteriorato), a lungo semidimenticato, torna all'onor del mondo con traduzioni, convegni e un rinnovato interesse per le sue teorie. Ritorno in qualche modo tempestivo, se si guarda allo stato delle cose nella società globalizzata. Solitudine, incomprensione, il moltiplicarsi di situazioni traumatiche, e un rituale omaggio alla razionalità, dietro cui passa una corrente di odio e di disperazione, una sofferenza che non ha parole, esposta all'interdetto della vergogna. Così va il mondo, e non sarà la psicoanalisi a cambiarlo. Ma pure, il lavoro analitico è forse impossibile senza un minimo di speranza, come luogo in cui si celebra la tensione, sempre irrisolta, tra realtà e utopia.
Come testimonia questo sostanzioso volume a più mani - curato da F. Borgogno, appassionato promotore della Ferenczi renaissance in Italia - Ferenczi è, nell'universo psicoanalitico, una figura estrema e per certi versi tragica; più vicino a una pratica dell'analisi come testimonianza che come mestiere (o routine), e perciò sempre pronto a mettersi in questione, sottraendosi ai facili ripari offerti dalle teorie e dalle metodiche codificate. Sostenitore di una psicoanalisi «calda», in cui l'esperienza emotiva svolge una funzione conoscitiva e terapeutica, si è dedicato prevalentemente a due temi essi stessi «caldi»: le conseguenze delle esperienze traumatiche e la natura della relazione terapeuta-paziente.
Come risulta da numerosi saggi, ed esemplificazioni cliniche, contenuti in questo volume - segnalo particolarmente quello di Nancy Smith, che trae spunto dall'esperienza di Primo Levi - il trauma (o anche il ripetersi di microtraumi) crea nella vittima una dissociazione profonda, una perdita di significato, uno smarrimento del senso di identità, associati a una paradossale «identificazione con l'aggressore», come estremo rimedio contro l'abbandono emozionale. L'impossibilità di confrontarsi con l'angoscia e di darle voce porta a uno sviluppo abnorme, in quanto difensivo, dell'atteggiamento intellettuale, a tutto svantaggio del libero fluire dell'affettività. Nei casi estremi, una psicoanalisi del trauma esita, nella prospettiva ferencziana, nel silenzio delle lacrime: «le lacrime del medico e del paziente, confondendosi, danno origine a una solidarietà, che trova forse la sua analogia soltanto nel rapporto madre-bambino. E' questo l'elemento che risana».
In evidente contrasto con l'insegnamento freudiano, che predicava «la necessaria freddezza emozionale dell'analista» (un alibi, potremmo dire, per gli analisti spaventati), Ferenczi riporta nel rapporto analitico la reciprocità dell'esperienza emotiva, con una riduzione dell'importanza dell'interpretazione rispetto allo scambio affettivo, all'atteggiamento empatico, all'accoglimento dell'altro, al riconoscimento dei propri errori e debolezze: in definitiva, a quella «sperimentazione viva che nasce dal cuore». Questa posizione, che ha il pregio inestimabile di restituire al terapeuta la sua umanità, è ovviamente esposta ai rischi di una mistica dell'accudimento o, più semplicemente, di un certo maternalismo. Dove c'è una madre, c'è sempre un povero bambino abbandonato (Ferenczi, sotto certi aspetti, lo fu). E non sempre giova all'analista, e all'analisi, incarnare sino in fondo questa figura.
Il nucleo mitico della posizione di Ferenczi è quello del «guaritore ferito» (quale era Chirone, il maestro di Esculapio); la sua verità profonda sta nella esigenza di «vivere tra le incertezze, i misteri, i dubbi, senza aspirare rabbiosamente a trovare una ragione nei fatti» (J. Keats). Questo comporta una apertura di credito sul futuro e una accettazione «religiosa» del caos che si rivela nel farsi dell'esperienza.
Una osservazione a margine sulla potenza degli anatemi. Ferenczi fu certamente un dissidente rispetto all'ortodossia freudiana. Anche Jung lo fu. Ma sembra che i dissidenti non si conoscano e non parlino tra di loro. C'è forse sempre un negro più nero degli altri? Eppure, malgrado le moltissime differenze, i promotori del recupero ferencziano potrebbero trovare in Jung argomenti interessanti. Dedico loro tre brevi citazioni junghiane. «La terapia… è un processo in cui il medico, come persona, è coinvolto quanto il paziente». «Ogni trattamento destinato a penetrare nel profondo consiste almeno per metà nell'autoesame del terapeuta… Non è un male se si sente colpito, colto in fallo dal paziente: può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso». «Ciò che il medico non sopporta, non lo sopporta neanche il paziente».