sabato 16 ottobre 2004

psicoanalisi
«il piede è il fegato»

La Stampa TuttoLibri 16.10.04
L’odio è il desiderio di cambiare l’altro
Una brutale necessità, una passione umanissima,
purtroppo conferma, come sosteneva Lacan,
che «fare le cose in nome
del bene altrui conduce a ogni sorta di catastrofi»
di Alessandro Defilippi

IL saggio Sull'odio di Massimo Recalcati, grande nome italiano della clinica e della riflessione lacaniana, è un libro di grande e austero pessimismo, che ci ricorda come il punto centrale di ogni psiche, il suo «irriducibile», oltre il quale non è dato andare, sia un'essenza, Das Ding - la Cosa - che rappresenta la vita nelle sue assolute e brutali necessità ed autoreferenzialità, ciò che è ad un tempo totalmente nostro e totalmente estraneo, prescindente da ogni velo estetico ed etico. Eppure etica ed estetica sono filtri necessari perché l'uomo possa fissare - senza esserne annichilito, si direbbe - la pura sostanza della vita, la sua necessità. E questo abisso, che è anche quello dell'odio, «passione dell'essere», non sta nella regressione alla bestialità che spesso invochiamo in momenti bui come questo che andiamo attraversando, ma in una sempre maggiore umanizzazione del mondo. La guerra è un'invenzione umana, non animale. A questo proposito Recalcati compie una riflessione sul terrorismo, che conclude con una citazione di Lacan oggi profetica: «Fare le cose in nome del bene e ancor di più nel nome del bene dell'Altro» conduce a ogni sorta di «catastrofi interiori».
Bellissime, sul piano clinico ed umano sono poi le pagine sull'odio ossessivo e su quello isterico, in cui l'odio ossessivo è odio dell'Altro non (più) in grado di difenderci dalla nostra stessa fragilità, e che, abbandonandoci, ci costringe ad accettare ciò che per noi è meno accettabile, la realtà della mancanza, che è poi la base stessa del desiderio.
Non si può infatti dimenticare che il libro di Recalcati è anche una lunga esplorazione dell'amore, in relazione alla divaricazione tra desiderio, piacere e godimento, dove esso assume la caratteristica di riconoscimento da parte dell'altro. Come già diceva Hegel: «Nell'amato vediamo solo noi stessi». Si giunge così al desiderio di possedere e di cambiare l'Altro, un desiderio che non può mai essere soddisfatto. E qui non si può non ripensare a Spinoza quando afferma che il desiderio è «la tristezza che riguarda la mancanza della cosa che amiamo». Così è la nostra vita: un lungo desiderio mai placato.
Forse è vero che per parlare del libro d'un allievo di Jacques Lacan sarebbe necessario un recensore altrettanto lacaniano. Il fondatore dell'École Freudienne - che si riteneva l'unico vero erede della psicoanalisi freudiana - non è mai stato, nei suoi scritti, semplice - non facile! - e perspicuo come il suo ispiratore. Per leggere uno dei volumi dei Seminari, cui è affidata buona parte del suo pensiero, sono necessari un eccellente dominio della teoria freudiana e una conoscenza filosofica non di seconda mano. Con tutto ciò può accadere che il linguaggio di Lacan suoni comunque più oracolare e allusivo che non scientifico o chiarificatore. Di questo peraltro il pensatore francese era ben consapevole, lui che riconosceva nel linguaggio la cifra dell'inconscio e quindi anche le sue oscurità non illuminabili. Nel 1966 scriveva infatti: «L'inconscio è linguaggio»; poiché esso è «ciò che parla» (ça parle), non può non assumere la forma del discorso. D'altronde, potremmo aggiungere con Eraclito: «L'oracolo né dice né nasconde, ma solo accenna», e da questi cenni noi dobbiamo, se lo vogliamo, trarre partito e sapienza.
A questa potenziale impasse del lettore non si sottrae neanche il libro di Recalcati, che è autore, tra l'altro, di un un testo importante - L'ultima cena: anoressia e bulimia, del '97 -, su argomento difficile e scoraggiante quale i disturbi alimentari. Proprio dal linguaggio, spinoso ma luminoso, di Recalcati, nasce una prima riflessione. Pochi mesi fa, su queste pagine, m'è accaduto di recensire un libro che pare essere l'opposto assoluto di quello di Recalcati: La psicoterapia come un romanzo giallo, di Matteo Rampin, in cui il linguaggio e le implicazioni tecniche sembrano puntare ad una semplificazione opposta alla complessità lacaniana. Eppure, non ho dubbi che sia Rampin sia Recalcati siano eccellenti e colti terapeuti. Quindi, ancora una volta, più della teoria di riferimento, conta colui che la applica, ed ogni teoria non è che una delle tante possibili metafore d'un reale di per sé intraducibile. Questo pare valere ancora di più per un pensiero, come quello lacaniano, che si sforza talora all'indicibile.