martedì 16 novembre 2004

...ancora su Bad

un testo ricevuto

Dall'ultimo numero della rivista bimestrale "ItalianiEuropei" diretta da Giuliano Amato e Massimo D'Alema (disponibie anhe sul sito italianieuropei.it), viene rispolverato un vecchio libro di Helmut Schmidt per parlare di riformismo, di Popper e anche di Bad Godesberg


Socialismo e società aperta
A proposito di Helmut Schmidt e Karl Popper
di Paolo Borioni

Razionalismo critico e socialdemocrazia è un caso particolarmente fertile di convergenza fra intellettuali definibili della «sinistra popperiana» (come un tempo vi fu quella hegeliana) e un grande leader della socialdemocrazia. Il testo benedicente scritto da Helmut Schmidt come introduzione al volume è a sua volta un caso piuttosto straordinario di chiaroveggenza esercitata in quella regione della cultura in cui storia, prassi politica e teoria si congiungono con fruttuosità estrema. A questa regione accedono personalità rarefatte e selezionate, e vi accede con il presente testo anche Schmidt, sebbene, appunto, non tanto con elaborazioni proprie, quanto invece sancendo quasi «pontificalmente» l’entrata di una grande filosofia del Novecento – il razionalismo critico popperiano – tra gli strumenti principi del riformismo socialista. Vista da un lato l’ampia varietà di contributi del volume, e dall’altro la semplicità e secchezza del testo che invece li introduce e che qui presentiamo, sarà utile spiegare perché in quest’ultimo si debba individuare tanto valore strategico. A leggere i saggi del volume si scorge subito l’intento di rispondere ad una triplice esigenza storico-teorica: la prima, quella di replicare alle critiche del campo marxista di provenienza DDR alla cultura socialdemocratica/occidentale. La seconda, quella di confutare il revival massimalista post-sessantottino popolare in certi settori della SPD, fra cui gli JUSOS, soprattutto sulla scorta dell’Habermas del tempo. La terza, quella di modernizzare la cultura socialdemocratica allorché il keynesismo nazionale andava esaurendosi. Si avvertiva la necessità di far seguire a Bad Godesberg una nuova fase, e ciò proprio in un paese-simbolo del riformismo europeo, quello cioè in cui «la cattedra» e «il partito» avevano da sempre più fittamente e autorevolmente cooperato. Quanto alla prima esigenza possiamo tagliare corto, e constatare semplicemente come sia assai strano che oggi, ricostruendo il Novecento – lo ricordava Silvio Pons sull’ultimo numero di questa rivista – in materia di lotta fra società aperta e totalitarismi ci si dimentichi dell’eminente ruolo socialdemocratico, e si riduca tutto ad una competizione fra liberalismo/liberismo e comunismo. Quali interessi e quali culture politiche sorreggano oggi questo tipo di «memoria selettiva» è evidente. La realtà però è irriducibilmente un’altra. Ma l’osservazione oltrepassa la mera partecipazione dei migliori intellettuali socialdemocratici alla tenzone scientifica contro il marxismo ossificato dei regimi a partito unico: Schmidt e il volume da lui voluto dimostrano come rinnovando se stesso il socialismo europeo abbia a più riprese potenziato le capacità di riforma, e dunque autocorrezione, delle democrazie. Ad un certo punto del volume 2 si critica ad esempio apertamente il programma e la cultura riformista di Bad Godesberg. Non si ritiene più, popperianamente, che la socialdemocrazia possa fondare le proprie basi etico-politiche sulla dimostrabilità «scientifica» del fatto che «…gli ideali di giustizia e di libertà sono moralmente e giuridicamente vincolanti per la società umana.» Immoralismo? Rinuncia alla riforma socialista del capitalismo? No: l’abbandono di fissità storicistiche e normativistiche (implici-tamente, anche classiste) nel lavoro di critica e riforma della società aperta. Da cui la constatazione che il socialismo europeo, con la sua lotta per l’allargamento delle basi della democrazia, per il bilanciamento fra la sfera degli interessi del capitale e quella degli interessi del lavoro (Mitbestimmung), introduceva nuove classi e culture scientifiche (con il keynesismo, la concertazione, il Welfare ecc.) nell’arena della società aperta. E qui, in termini popperiani, l’aumento dei «cercatori di verità», dei loro titoli ad interagire e a confutare, potenziava l’evoluzione delle democrazie avanzate. Da ciò almeno tre conseguenze. La prima: che la dimensione etica del socialismo europeo, e i diritti sociali e politici in essa contenuti, non erano un’aggiunta esterna (antagonista o riformista che fosse) ma invece discendeva-no dalla medesima fonte della società aperta, e anzi rivendicavano di poterne diventare l’applicazione più coerente. Non si verificava più una contrapposizione liberalismosocialismo che produceva dialetticamente la democrazia sociale, ma una gara fra tendenze liberiste e tendenze socialiste a interpretare al meglio le necessità autocorrettive ed evolutive delle società aperte. Quanto ciò ci porti all’oggi occorre appena ricordarlo. La seconda: che ogni fissità andava abbandonata proprio perché il socialismo in primis, riquali-ficandosi come massimo contributore alla spinta evolutiva della società aperta, doveva trovare sempre nuovi cercatori di verità fino ad allora (o per il prodursi di sempre mutevoli condizioni) negletti. Ogni storicismo ed ogni fissità andava abbandonata proprio in quanto l’introduzione di sempre più potenzialità e variabili confutative/evolutive nell’arena della società aperta rendeva non prevedibile coi classici strumenti la prossima necessità di riforma. Paradossalmente, quindi, volendo mantenere e anzi rinnovare il proprio ruolo e funzione di critica del capitalismo, il socialismo doveva farsi «popperiano» necessariamente. La terza conseguenza discende in buona parte dalla seconda. Il razionalismo critico permetteva in modo nuovo di risolvere una vecchia e giustificata angoscia socialista, un problema di cui, come si vedrà, Schmidt si occupa nel testo: evitare la scissione teoriaprassi. Come? Se garantiva l’afflusso di nuovi soggetti dotati di diritti e di reali possibilità di esercitarli, anche la minima riforma, potenziando la società aperta qui e ora, era «socialista», in quanto l’azione socialista era pensata entro questo orizzonte. Logicamente si perdeva la distinzione fra «momenti alti» (cioè per esempio così definiti in base alla «rottura col capitalismo» o alla «centralità della classe») e «momenti bassi» della funzione di critica socialista. Venivano con ciò eliminate le premesse di quegli atteggiamenti ambivalenti e quietistici, come il cosiddetto molletismo francese, diffuso in forme diverse anche da noi, in cui ogni compromesso era giustificabile a patto che si mantenesse intatta la fede negli esiti finali e oggettivi. E conseguentemente la fine di questa fede, forma di immoralismo da noi diffusa fino a produrre la scomparsa di interi partiti socialisti e lo sbandamento di interi partiti ex comunisti, non poteva giustificare l’estinzione della tensione verso una politica della trasformazione. Ultime due notazioni. L’opera di contaminazione fra razionalismo critico e socialdemocrazia risolveva anche gli equivoci dovuti al permanere di certi massimalismi sopravvissuti nelle pieghe della pratica socialdemocratica, per esempio nel nesso fra statalismo ed estinzione graduale «a fette» del capitalismo. O nella concezione delle riforme di struttura come avvicinamento «lombardiano» alla rottura del sistema. O in quella del Welfare inteso come eccitazione di un conflitto distributivo, non come mera estensione della cittadinanza a nuovi soggetti. In quanto funzione della società aperta la socialdemocrazia ripudiava anche queste sopravvivenze finalistiche, poiché per essa ormai il riformismo, così come per Popper la ricerca, non aveva fine. Ma il testo di Schmidt pare anche voler mantenere delle continuità forti con l’eredità socialista, cioè con Bernstein e perfino in parte con Marx. Perché ancora socialismo? Verosimilmente perché rimane valido il fatto che, anche senza più classi fondamentali, anche senza più esiti finali e senza più riformismi keynesiani nazionali, si può ancora legittimamente scorgere nel mercato il massimo produttore di ricchezze e nell’ideologia liberista la principale produttrice di «strozzature» nella società aperta (nel frattempo peraltro mondializzatasi fortemente). Insomma, è ancora in questo la contraddizione da ricomporre affinché la società aperta funzioni al meglio: nel fatto che il capitalismo tende in essa a prendere troppo spazio, deprimendone le possibilità autocritiche ed evolutive. Può quindi essere ancora questa la ragione di esistere di una cultura socialista, coi suoi movimenti e le sue forme organizzative, per quanto aggiornate. E può ancora essere questa la funzione protagonista del socialismo liberale all’interno di una «sinistra plurale», in cui, sebbene spesso fecondamente elaborate, le altre culture progressiste non possono occupare per intero l’orizzonte.
HELMUT SCHMIDT
La razionalità in politica muove da questo giudizio di valore: che costruire il mondo sociale e politico secondo la propria volontà sia meglio che adattarsi alla situazione esistente o abbandonarsi al caso. È per questo che Razionalismo critico e socialdemocrazia è un tema di tutto interesse. Nella mia introduzione alla prima stesura di un progetto di orientamento di politica economica per gli anni 1973-1985, scrissi, riferendomi alla struttura e alla salvaguardia dell’ambiente: «Il testo di questo progetto potrà apparire a qualcuno molto tecnocratico; ma sia chiaro che non esiste la riforma perfetta, il progetto risolutore. Anche in altri sistemi sociali del tutto diversi, i problemi di strutturazione delle città e delle zone rurali, da commisurarsi alla qualità della vita, sono estremamente complessi. Lavorare a questo significa perciò: cambiare sistematicamente e gradualmente leggi e norme, aggredire i singoli problemi e risolverli, promuovere il cambiamento «passo dopo passo» con concreti interventi di riforma (piece-meal social engineering, come dice Karl Popper). Con ciò era anche implicitamente respinta la distinzione che a volte si è amato fare tra riforme «che stabilizzano il sistema» e riforme «che trasformano il sistema». Una società aperta, democratica, degenera troppo facilmente in uno stato chiuso, totalitario, quando, in nome di un astratto ideale, si rinunci alla pluralità degli obbiettivi politici. Se vogliamo salvaguardare da questo rischio le nostre istituzioni, noi politici dobbiamo rimanere fedeli all’idea di un mutamento graduale, che presupponga per ogni singolo passo un largo consenso (e questo significa: compromesso!). Il politico democratico deve tenere in massimo conto la mancanza inevitabile di un completo processo democratico di scelta elettorale: perciò deve anche sentirsi moralmente impegnato ad aiutare il cittadino di uno Stato democratico a riconoscere pienamente l’oggetto di una propria scelta. Anche per questo motivo una riforma graduale della società è il tipo di riforma adatto alla democrazia. Bernstein non era soltanto intellettualmente più onesto di Kautsky, (e – a questo riguardo – anche di Bebel) ma anche più democratico di Marx. Non è soltanto la tendenza fatale di alcuni marxisti (di ogni provenienza) alla categorizzazione amico-nemico, all’alternativa totale, che li induce al rigetto del «peacemeal social engineering», è, oltre a questo, il disprezzo per un’azione politica che non si orienti ad un’idea finale, ad un fine globale per un’unica società. Si arriva allora a denunciare come «pragmatismo» quella riforma graduale che misura i propri passi secondo ciò che è via via possibile («fattibile»). (…) Certo, per Kant il politico che agisce in modo pragmatico non deve ledere la legge morale, l’imperativo cate-gorico. Il politico «morale» è solo colui che si serve dei principi pragmatici del benessere universale in piena conformità con gli imperativi della morale. Egli ha dunque bisogno della legittimazione morale (di cui per i democratici la legittimazione costituzionale è solo una parte piccola anche se importante). Ho riassunto queste ed altre idee di Kant in questo modo: politica è l’uso di immutabili principi morali per situazioni mutabili. (…) Anche quando la politica concreta ha a che fare con la soluzione pratica di problemi concreti, teoria e prassi non sono disgiunte tra loro; esiste un legame di interdipendenza tra storia, esperienza, idea, programma e azione. L’unità tra teoria e prassi deve essere voluta per due ragioni: innanzitutto per amore della verità e in secondo luogo per il principio della razionalità dell’agire. Vorrei a questo punto controbattere la tesi secondo cui una teoria debba essere maggioritaria. Questa tesi significherebbe allora l’introduzione nella scienza del principio di un sostanziale opportunismo: una teoria non deve essere maggioritaria, bensì giusta. E quando le mie azioni, dedotte da riflessioni teoriche, o le mie teorie falliscono nella realtà, devo verificare se e fino a che punto le mie riflessioni teoriche erano corrette o errate. In questo consiste il criterio per stabilire una differenza tra dogmatismo e posizione critica. Con tutto il rispetto per la storia del nostro partito, non ci si deve stancare di sottolineare che per la socialdemocrazia tedesca e per le sue realizzazioni a favore della prima democrazia tedesca del tempo di Weimar, è stata fatalità «aver teorizzato con Kautsky e aver agito con Bernstein» per due decenni. Ciò che mi disturba di alcuni teorici, spesso autonominatisi tali, è il loro tentativo di imporre ad altri le proprie teorie invece di verificarle in modo critico alla luce della realtà.
Una teoria sociale, soprattutto economica, ha bisogno di una continua verifica empirica. Non abbiamo, nella politica sociale, delle situazioni sperimentali sufficientemente chiare e delimitate, come invece è stato il caso della diffrazione della luce da parte della massa del sole per la dimostrazione della teoria di Einstein. Ciò che rimane è dunque lo scontro degli argomenti e la supposizione che le soluzioni migliori vengano trovate ove gli argomenti possono circolare il più liberamente possibile. (…) Chi è seriamente animato dall’esigenza di avere dedotto in modo plausibile ciò che dovrebbe essere dalla sua interpretazione teorica di ciò che è, avrà vita difficile; anzi troverà forse impossibile, perché gli sarà proibito, di rivedere i suoi principi fonda-mentali. In questo consiste uno dei pericoli maggiori del marxismo. Con la consapevolezza di dover prevedere «scientificamente» il corso inevitabile dello sviluppo delle società in vista del socialismo e spinte dall’impegno di dover servire a questo sviluppo, sempre nuove generazioni di marxisti, in molti paesi, si assumono il compito, sempre più difficile, di mantenere in vita (con sempre nuove strutture ausiliarie) le profezie di Marx che non si sono avverate o che sono state smentite dalla storia compiutasi a partire dal loro annuncio. Mi domando se con questo essi siano veramente d’aiuto al grande Marx; perché, così facendo, viene al tempo stesso sminuita la credibilità di quelle importanti acquisizioni di cui Marx ha arricchito il nostro sapere filosofico, sociologico ed economico. (…)
Non sono marxista, tantomeno seguace del razionalismo critico. Però raccomando di leggere Marx, come Popper (senza lasciarsi troppo trascinare dalla sua polemica: anche lo spirito polemico di Marx era altrettanto pregnante) ed altri ancora – senza dimenticare Kant (e nem-meno il suo scritto Per la pace perpetua!). Poiché «una causa fondamentale di malattie filosofiche è una dieta unilaterale» (Wittgenstein). Tutto ciò che leggiamo sulla conoscenza teorica di altri, dobbiamo verificarlo; per un verso verificarlo sulla realtà (e sulla possibilità in essa esistenti per la realizzazione di programmi fondati teorica-mente) e per l’altro sul proprio giudizio di valore fondato moralmente, sempre nuovamente affinato. Le convinzioni del socialismo democratico non provengono da un’unica teoria; esse discendono dalla propria esperienza con la realtà, dalla loro interpretazione, in ultima analisi anche dal giudizio morale su ciò che deve essere all’interno del possibile. (…) Perciò a chi vuol fare politica è necessaria una fondamentale posizione critica. Atteggiamento critico e il desiderio di convincere gli altri sono due impulsi contrastanti. Ma gli uomini critici – e su questa si fonda la mia fiducia nella democrazia – troveranno, a lungo andare, convincente anche lo spirito critico. È per questo che uno spirito teoretico, cioè critico, è il presupposto necessario per una politica fruttuosa di trasformazione, cioè di progresso. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra responsabilità nei confronti dell’esistenza e del benessere dei nostri cittadini, per l’abolizione definitiva dei privilegi, in favore di una società aperta, libera, ove ognuno possa cogliere liberamente la propria occasione nella vita, ci proibisce di estraniarci per una reazione di delusione dal mondo della realtà, per rifugiarci nel mondo dell’astratto.

Da AA. VV., Razionalismo critico e socialdemocrazia, Vita e Pensiero, Milano 1981.
Chi è Helmut Schmidt? Nato il 23 dicembre 1918 ad Hamburg-Barmbek, dopo essere stato ministro dell ’Economia nel governo di Brandt, diviene cancelliere federale, carica che ricopre dal 1974 al 1982, a capo di una coalizione social-liberale. Partecipa attivamente al dibattito teorico con varie pubblicazioni, e si caratterizza per il suo europeismo e per una posizione fortemente innovatrice della cultura socialdemocratica. Raffinato musicologo, è oggi editore di «Die Zeit »e uno dei padri nobili della socialdemocrzia europea.