martedì 16 novembre 2004

Cina

Corriere della Sera 15.11.04
I cinesi studiano il latino
Dopo il «rivoluzionario» riconoscimento nella Costituzione, Pechino è pronta ad approvare il nuovo corpus di norme
La proprietà non è un furto
«Abbiamo scelto di ispirarci al diritto dell’antica Roma»
di Fabio Cavalera

Poi su uno scaffale c'è una piccola statuetta di Mao Zedong. Infine, ovunque, librerie strapiene di testi, riviste, dizionari. In inglese, in italiano, in latino. Già, perché il futuro della Cina passa pure dal latino. Dal diritto romano. «Abbiamo studiato le vostre leggi e i vostri codici». Lo dice con soddisfazione la signora che è la vicepreside della scuola di legge civile ed economica alla Facoltà di scienze politiche e giurisprudenza di Pechino.
Occorre svolgere una premessa: nella scorsa estate l'Assemblea nazionale, il massimo organo legislativo cinese, approvò un emendamento alla Costituzione. Con questo emendamento si riconosceva per la prima volta dalla proclamazione della Repubblica popolare la legittimità della proprietà privata. Una vera e propria rivoluzione dei costumi in un Paese per il quale si stanno scomodando - a ragione - aggettivi di ogni tipo. Si sa, però, che i principi generici e generali - non soltanto in Cina ma pure nel ricco e democratico Occidente - restano tali se qualcuno non si prende la briga di tradurli in norme applicabili nel giorno dopo giorno con tanto di sanzioni e divieti in caso di trasgressioni e violazioni.
Quando dunque la Cina, nell’estate scorsa, decise di compiere un passo del genere ci furono non poche perplessità da parte di chi non credeva nella possibilità di andare oltre la formulazione vaga della Carta fondamentale. Invece con la stessa velocità che sta segnando la crescita della sua economia la Cina ha stabilito davvero di voltare pagina e di trasformare un principio in un diritto.
Due sono le ragioni che spiegano l'adozione definitiva di uno dei capisaldi del capitalismo. Una ragione è storica: negli anni Cinquanta la Cina comunista aveva abolito la proprietà privata, trasferito allo Stato ogni sorta di bene, introdotto con la forza la politica delle comuni popolari. Poi dalle ceneri del fallimento maoista era nata la spinta della modernizzazione che in trent'anni ha portato a una situazione completamente diversa ma senza «copertura» giuridica.
Esisteva dunque un vuoto da colmare. La seconda ragione è conseguente alla prima ed è sociale. Lo Stato può vendere dall'oggi al domani il diritto d'uso dei terreni (nelle città i terreni appartengono allo Stato, nelle campagne alle unità produttive). Basta che una società commerciale si presenti coi soldi e l'affare si chiude. Fin qui poco o nulla di male. Il problema è che con il diritto d'uso del terreno lo Stato vende in pratica le case che vi sono state costruite. E non importa che esseri umani abitino queste case, che intere famiglie vi risiedano da chissà quanti anni. Si cede, punto e a capo. Gli inquilini, ancora non tutelati dal diritto di proprietà, non hanno possibilità di opporsi, di rivendicare una prelazione, di richiamare una qualche forma di garanzia a loro protezione. Altro che gloriosa culla delle masse popolari.
Arrivano le ruspe. Se il nuovo proprietario intende costruire, poniamo, un grattacielo per uffici gli inquilini sono sfrattati (99 volte su cento) e gli immobili abbattuti nel giro di qualche ora. Situazione che ha provocato non poche e non isolate proteste. Ecco, dunque, che dopo il riconoscimento costituzionale occorreva compiere un altro passo in avanti. Dipendeva però dalla volontà della politica. Se farlo o se lasciare congelata la situazione.
«Una spinta forse decisiva è venuta dal mondo accademico». La professoressa tiene per la mani la bozza della legge che lei assieme a un gruppo di professionisti del diritto ha scritto. Ha cominciato quattro anni fa un comitato ristretto di sette civilisti poi allargatosi a una trentina. Il progetto è andato due volte in lettura alla commissione legale dell’Assemblea nazionale che, ottenute le risposte ai chiarimenti indicati nello scorso ottobre, si riunirà in primavera a ranghi completi. E sarà quella la data dell’approvazione finale. Poi ci vorranno almeno sei mesi per l'entrata in vigore. È il tempo necessario per informare la popolazione e per adeguare le strutture burocratico-amministrative.
I cinesi dicono: se vuoi recidere un albero devi cominciare dalle radici. Questa volta si va alle radici del sistema collettivista. Non che il lavoro della commissione sia filato sempre via liscio. «I conflitti con una parte dell'autorità politica sono inevitabili. C'è ancora chi è legato a una vecchia mentalità. Così pure fra noi studiosi. Ma per fortuna la maggioranza si è ormai convinta che si deve procedere. E si procede. Questa è una legge che avrà una rilevanza politica enorme». È un altro pezzo, e che pezzo, di comunismo che se ne va. «Noi cinesi siamo pratici e realisti. Cerchiamo di realizzare gli ideali quando però certi ideali peggiorano la nostra esistenza li lasciamo da parte. I comunisti sono idealisti ma se si accorgono che le loro idee non sono realizzabili diventano molto concreti».
Si chiama, dunque, «legge sui diritti reali» ed è divisa in cinque libri: le disposizioni generali, la proprietà e i tipi di proprietà, l'usufrutto, i diritti reali di garanzia (l'ipoteca e il pegno), infine il possesso. Che sia una rivoluzione lo si coglie dall'articolo uno: i titolari dei diritti reali sono sia le persone fisiche sia le persone giuridiche e solo loro ne dispongono.
«La proprietà, sacra e inviolabile, non farà più capo soltanto allo Stato ma anche agli individui o alle società». È una mentalità nuova che si sta affermando nel Paese. «Prima c'era soltanto il potere pubblico, il potere assoluto del governo. Adesso, con lo Stato, ci sono le persone e i loro diritti da riconoscere e rispettare».
Alle pareti gli scaffali sono pieni di libri di storia del diritto. E vi sono pure dizionari di latino-italiano. I professori incaricati di stendere il progetto di legge hanno studiato gli istituti giuridici del diritto romano e il diritto civile. «Abbiamo compiuto un'opera di comparazione fra il diritto anglo- sassone di natura consuetudinaria e il diritto italiano, francese e tedesco. Noi cinesi, non vi è dubbio, ci sentiamo più vicini al sistema europeo continentale. E da lì siamo partiti».
Assieme alla legge sui diritti reali procede la riforma del codice civile. In verità in Cina ne esiste già uno, dal 1928, mai abrogato, semplicemente dimenticato. Ibernato. «Anche il nuovo codice civile sarà presto approvato». Conterrà la disciplina delle società per azioni, delle obbligazioni, dei contratti. A quel punto la Cina darà alla sua economia di mercato la forma di un capitalismo meno selvaggio e più maturo. Magari grazie anche al latino e al diritto romano. E sarà un altro miracolo.