martedì 16 novembre 2004

una recenzione e una intervista
Adisa o la storia dei mille anni
di Massimo D'Orzi

ricevuto da Elisabetta Amalfitano

«La Rinascita» visioni Venerdì 15 Ottobre 2004

FILM-REPORTAGE La storia e la cultura dei Rom
Un viaggio lungo mille anni
Un popolo sopravvissuto alle guerre ma non ai luoghi comuni. Una pellicola rompe gli schemi
di Giulia Modesti

Sfatare un luogo comune: solo zingari, ladri, spiriti liberi e ribelli. Un film reportage per rapportarsi a ciò che è diverso, altro da sé, da noi, documentando storia e cultura delle comunità Rom. Dal di dentro. E’ un interno di famiglia, Adisa o la storia dei mille anni, lungometraggio d'esordio del giovane regista fiorentino Massimo Domenico D’Orzi (una coproduzione Cooperativa Il Gigante, Mediateca Regionale Toscana e Sam), dove si punta la macchina da presa in un viaggio che non percorre luoghi. Ma volti di bambini, donne e uomini ancora segnati dalle ferite, tutte interiori, della guerra in Bosnia Erzegovina.
Né serbi, né bosniaci, né albanesi, loro sono i Rom. E, per dirlo la pellicola fissa in primi piani un fil rouge di immagini e colori nella ricerca di una comprensione di identità, senza retorica, del popolo zingaro, riuscito a sopravvivere e a resistere nei secoli.
D'Orzi cerca di ritrarre questa realtà nel tentativo di sottrarsi agli stereotipi. E lo fa attraverso lo spazio e il tempo del cinema, in un linguaggio cinematografico che sceglie di rompere le regole sintattiche e i vecchi schemi che sono alla base del montaggio tradizionale. Nessun canovaccio, nessuna sceneggiatura, soltanto immagini in movimento per rappresentare, senza giudizio, quella dimensione di nomadismo che ci rende i Rom "nemici". Le linee dei visi, le loro parole ci palesano un modo di vivere e di pensare estremamente distante dal nostro, che ancora oggi continua ad essere un incomprensibile. E che spesso turba ed imbarazza. Eppure gli zingari si muovono tra noi, ai margini delle nostre strade, nei luoghi-ghetto che costruiamo per loro. E che ci sfuggono perché né si allineano, né si integrano. L'uso dell'immagine per narrare un presente e tratteggiare la storia con ombre, luci e colori, quelli degli occhi, del lavoro, dei riti, della musica, delle case, di una tradizione che dura da mille anni. Da quando i Rom, per una ragione tuttora sconosciuta, abbandonarono quella regione dell'India di cui sono originarI per non farvi più ritorno.
Aelisa, è una bambina, ma porta in sé tutto quel popolo apolide e senza religione, che in terra di Balcani in nome di una nazione o del proprio buon dio, ha visto il massacro tra etnie. Il lavoro del regista e della telecamera è ricerca di un viaggio da intraprendere senza la valigia del pensiero logico e razionale dell'Occidente per cogliere invece quella dimensione più profonda e misteriosa che è la vera essenza, e forse l'unica vera realtà, di quel popolo e della sua cultura. La stessa di Jasmin Sejdic, partito insieme alla troupe, che diventa guida zingara, interprete, attore, di un'anima scura ed errante nelle immagini. Quella di Massimo D'Orzi è parte di una cinematografia nascente e lontana dai circuiti della grande distribuzione. E’ anch'esso cinema nomade, per ora sugli schermi dei festival o delle rassegne di settore la cui connotazione tuttavia ha il sapore dell'avventura e della voglia di lasciarsi contaminare. E la contaminazione è la sfida che ci attende, perché in essa c'è sempre qualcosa che si lascia, ma anche qualcosa di nuovo che nasce. E la narrazione filmica può essere d'aiuto in questo passaggio tra ciò che era e quello che sarà.

D'Orzi: voglio guardare oltre la banalità

D. Massima D'Orzi, 33 anni, fiorentino, di origine lucana, e una grande passione per il cinema...
R. Esatto, cinema e rappresentazione mi hanno attratto fin dall'adolescenza.
D. Quali nomi sono stati fonte della tua ispirazione?
Michelangelo Anionioni, Marco Bellocchio, gli autori in cui l'esigenza di fare cinema si è fusa con l'arte di sfidare l’apparenza delle cose. Ho sempre prediletto chi ha tentato di scavalcare la banalità, che spesso nasconde la violenza, o chi ha aggirato il mero realismo che mira alla materia senza affondare mai nella realtà interiore dell'uomo.
D. Ardua ispirazione, la tua...
R. E' stata un'esigenza. Ho fatto prima teatro, portando in scena autori come Arthur Miller e James Joyce. Poi sono passato alla regia cinematografica.
D. Con quale lavoro?
R. Un cortometraggio, La mano rossa. Era la storia di una separazione tra un uomo e una donna, raccontato, credo, in modo molto particolare.
D. E’ cresciuto così il tuo culto per l’immagine?
R. Nessun culto. La mia è una ricerca sulle immagini che affonda anche nella pittura. Poi sono diventato direttore artistico della cooperativa "II Gigante" ed ho potuto così ideare e realizzare numerosi eventi cinematografici.
D. Ad esempio?
R. L'Evento cinema del Social Forum Europeo di Firenze, nel novembre del 2002.
D. Titolo?
R. L'immagine della ribellione, che è diventato anche un film-intervista a Bellocchio. Nel 2003 ho poi realizzato La rosa più bella del nostro giardino, collage cinematografico sulla guerra nei Balcani, che ha conseguito numerosi riconoscimenti internazionali.
D. E ora Adisa o la storia dei mille anni. Giusto?
D. Esatto Adisa è nato da una serie di domande. Cosa ne è stato degli zingari nella ex Jugoslavia, loro che hanno vissuto lì da secoli, dove croati, musulmani, serbi, si sono massacrati per la terra e per il proprio dio? Come hanno fatto a sopravvivere ai roghi, alle discriminazioni, ai tentativi di assimilazione forzata, senza un guscio di noce in cui riparare, una terra promessa, senza mai portare con sé la distruttività, la violenza, che purtroppo fanno la storia di noi occidentali? Ecco, a tutto questo ho opposto il volto di Adisa, una 11enne i cui occhi e la cui bellezza rappresentano gli antipodi di tanta ferocia umana.
D. Come hai vissuto questa esperienza?
R. Siamo partiti, io, il direttore della fotografia Stefano D'Amadio, l'aiuto regista Francesco Lomastro, senza sapere cosa avremmo trovato, con un furgone prestatoci dal presidente dell'Unirsi di Roma, Kasim Cizmic, e un uomo zingaro, Jasmin Sejdic, a farci da guida e interprete. Niente soggetto, sceneggiatura, storyboard. Ho cercato, quando possibile, il rapporto diretto, sospendendo il giudizio. Ho scelto i primi piani, le movenze, la naturalezza, l'immediatezza. Ho appreso molto.
D. E in montaggio come è andata?
Un'altra grande avventura che ho affrontato con Paola Traverso. Insieme abbiamo decodificato il nostro linguaggio, anche grazie alla filosofa Elisabetta Amalfitano che ci ha sostenuto nel tentativo di comprendere una realtà spesso incomprensibile.
D. Futuro?
Ho in testa un film breve sulla crisi di uno scrittore, mentre nelle strade si muovono grandi manifestazioni di protesta. Ma ho nel cuore anche un lungometraggio, naturalmente verso un altro ignoto. (G. C.)