HABERMAS, LA GENETICA, I REFERENDUM
di Demetrio Neri *
Quale nesso puo esistere tra Habermas e l'attuale discussione sulla legge 40 e sui referendum? I lettori di questo giornale hanno visto richiamato il pensiero del grande filosofo tedesco nell'articolo di Paolo Prodi e nella successiva lettera di Carlo Flamigni e, qualche giorno fa, le tesi di Habermas sulla genetica sono state al centro dell'intervento di Francesco D'Agostino (presidente del CNB) al convegno sulla legge 40 organizzato da Politeia a Milano. Ho brevemente replicato a D'Agostino nel concludere quel convegno, veramente esemplare per qualità degli interventi e rispetto del pluralismo delle idee, e vorrei ora esplicitare le mie riflessioni, anche perché non è improbabile che il pensiero di Habermas continuerà ad essere richiamato nelle discussioni sui referendum sulla legge 40. In breve, il contesto del discorso è il seguente: la legge 40 va difesa perché pone dei severi limiti al ricorso alla procreazione medicamente assistita e alla diagnosi pre-impianto e questi limiti non sono il frutto di pregiudizi di matrice religiosa, perché possono essere difesi su basi razionali e laiche, tanto che su di essi converge il pensiero di un filosofo come Habermas, della cui laicità nessuno può dubitare. Smettiamola dunque con la vecchia e sterile contrapposizione, tutta italiana, tra laici e cattolici e smettiamola di dire che la legge 40 è una legge cattolica (tecnicamente non lo è, ma sicuramente è stata fortemente voluta dai cattolici): quel che è in gioco - ha scritto Prodi - non è questa vecchia diatriba, ma nientedimeno che il destino stesso dell'umanità. L'argomento non farebbe una grinza, se non fosse che si tratta di mera retorica e utilizza Habermas in maniera del tutto impropria. L'argomento è mera retorica perche dà per scontato che se il mio potenziale avversario dice qualcosa a favore della mia tesi, la mia posizione ne viene avvalorata: ma non è così, perché può darsi benissimo che anche il mio avversario sia in errore. Il mero fatto che una tesi sia sostenuta da Habermas (o da chiunque altro) non la rende automaticamente vera e definitiva e credo che Habermas stesso protesterebbe contro questo modo di usare il suo pensiero: egli stesso, infatti, scrive in tutta umiltà che il suo è solo un "tentativo, nel senso letterale del termine" per affrontare le questioni della genetica. A mio parere, è un tentativo insoddisfacente e provo adesso a sintetizzare le considerazioni che ho avuto già modo di presentare al convegno di Assisi ricordato nella lettera di Flamigni. Habermas ragiona sulle conseguenze dell'ingegneria genetica, in particolare della diagnosi pre-impianto nel contesto del ricorso alle tecniche di procreazione assistita, e osserva che "ciò che costituisce un problema non è ovviamente l'ingegneria genetica, ma la modalità e lo spettro delle sue applicazioni". Tali applicazioni, scrive Habermas, hanno conseguenze che toccano direttamente i presupposti morali della nostra stessa forma di vita: "Possiamo considerare l'autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l'autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l'autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed eguale rispetto?". Al già lungo elenco di cio che l'ingegneria genetica mette a repentaglio, Habermas aggiunge l'autocomprensione etica di soggetti capaci di azione e linguaggio, liberi e uguali, la nostra stessa forma di vita, insomma. Questo accade nel momento stesso in cui tali applicazioni rendono possibile scegliere chi nasce e sia pure in prospettiva predeterminarne il corredo genetico. Noi possiamo continuare a pensarci come persone libere ed uguali solo se viene assicurata l'intangibilità della casualità della nascita che, par di capire, trova il suo suggello nel casuale mescolarsi dei geni al momento della fecondazione. Per la verità, io non sono per niente sicuro che la nostra autocomprensione etica di genere, di persone libere ed eguali, sia così strettamente connessa alla "datità naturale della dotazione organica". Ripercorrendo mentalmente i processi storico-culturali di formazione della nostra forma di vita, centrata sulla "figura moderna dell'universalismo egualitario", non trovograndi tracce di questo nesso: anzi, non abbiamo fatto altro che lottare (vittoriosamente, almeno nelle civiltà occidentali) contro il peso della datità naturale, riconoscendoci liberi ed eguali non sulla base, ma contro tutte le datità naturali che, di volta in volta, venivano evocate: la datità del sesso, del censo sociale, del colore della pelle, dell'orientamento sessuale e così sia. Come ha scritto Giovanni Sartori, l'eguaglianza e il concetto politico più innaturale che esista. Non capisco bene, quindi, cosa ci sia di così pregevole nella datità casuale della nascita, tanto da farne il valore fondante della nostra forma di vita, da preservare da ogni insidia rendendolo giuridicamente indisponibile. Ma Habermas si rende conto che la radicalità della sua argomentazione rischia di toccare anche le eventuali applicazioni benefiche della genetica e in effetti lungo tutto il libro egli va alla ricerca del criterio per salvare certe applicazioni, quelle riconducibili dentro il rapporto clinico terapeutico, cui si è richiamato anche D'Agostino nell'intervento al convegno sopra ricordato. E' un intento umanamente apprezzabilissimo: come si fa a mettere sullo stesso piano un intervento per evitare malattie gravissime e uno - poniamo il caso - per scegliere il colore degli occhi? Il fatto è pero che gli argomenti che Habermas mette in campo contro i pericoli della genetica "liberale" che egli intende criticare sono argomenti contro l'ingegneria genetica tout court, che non consentono di fare distinzioni tra questa o quella applicazione: sarebbe lungo chiarire perché è così, ma alla fine Habermas stesso ci rinuncia. Cosicché la conclusione è drastica, ancorché non molto nuova: smettiamola di pasticciare con il genoma umano, anzi col genoma di tutti gli esseri viventi e quindi chiudiamo i laboratori di biologia molecolare. Come da tempo aveva chiesto Hans Jonas e, se non ricordo male, almeno nei prinii anni '90,anche Giuliano Pontara. Rendere giuridicamente indisponibile la base naturale dell'etica di genere significa proprio chiudere per legge e senza eccezioni questo campo di ricerca e tutte le sue applicazioni, magari anche ordinando agli scienziati di non sapere e di non fare ciò che sanno e fanno da almeno quaranta anni. A me questo sembra il massimo dell'astensionismo filosofico, una sorta di dixi et salvavi animam meam che può forse essere gratificante e consolatorio sul piano della coscienza individuale di chi lo dice, ma che è assolutamente sterile e inattuale in ordine all'esigenza e alla necessita di governare il cambiamento in atto. Scaturisce da qui la ragione per cui ho detto che il ricorso all'argomento di Habermas nel contesto della difesa della legge 40 e contro i referendum mi sembra improprio: Habermas non sta chiedendo che le applicazioni della genetica vengano sottoposte a controllo sociale, vengano plasmate e governate per fini che la società considera accettabili. Chiede che siano tolte di mezzo per legge e il suo argomento non ammette eccezioni. A che pro, dunque, evocarlo? Forse si rivela così il vero obiettivo di chi ha strenuamente voluto questa legge e la difende, sia pure come "male minore": non quello di regolamentare il ricorso a queste tecniche, ma quello di scoraggiarlo, ottenendo così per via traversa l'obiettivo che non è stato possibile ottenere per la via maestra di una legge composta da un solo articolo: è vietato tutto. Tra i tanti aggettivi usati per descrivere questa legge, "scoraggiante" mi sembra il più appropriato. La legge scoraggia i medici operanti nel settore (che hanno già protestato), perché li obbliga ad applicare una tecnica sotto vincoli e condizioni che la rendono, a seconda dei casi (ad esempio, l'età della donna) al tempo stesso meno efficace e più rischiosa dello standard già acquisito: un vero e proprio atto di malpractice. Scoraggia le coppie, alle quali il medico dovrà fornire informazioni sui "rischi per la madre e il/i nascituro/i" evidenziati dalla letteratura scientifica: ad esempio, dovrà dire che il rischio di mortalità materna triplica nel caso di gravidanze multiple (che questa legge favorirà) e per i nascituri passa da 6 su mille al 30 su mille per i parti gemellari e al 63 su mille per i parti trigemellari. Non posso moltiplicare gli esempi, ma mi sembra chiaro che sotto queste condizioni i medici farebbero bene a opporre l'obiezione di coscienza e le coppie a rivolgersi altrove, insieme a quelle che la legge già esclude possano far ricorso alla PMA. E' emendabile questa legge? Personalmente penso di no, perché è sbagliata non in singoli punti, ma nel suo impianto, nella sua filosofia, vorrei dire: scoraggiare, invece di regolamentare in modo anche umanamente (si pensi ai portatori di malattie genetiche) accettabile. Sono quindi rammaricato della decisione appena assunta dalla Consulta di dichiarare inammissibile il referendum radicale che ne proponeva l'abolizione. Restano in piedi gli altri quattro quesiti e, a questo punto, credo sia il caso di tornare ad interrogarsi su quale sia la strada migliore per portare avanti la battaglia.
*Ordinario di bioetica Università di Messina
Membro del CNB
Membro del CNB