mercoledì 5 gennaio 2005

il professor Giulio Giorello, sul mito

Repubblica 5.1.05
NON SPARATE SUL MITO
Intervista a Giulio Giorello che in un libro indaga su Gilgamesch, Prometeo e Ulisse

A che cosa si deve il loro potere di seduzione? Un filosofo della scienza ci spiega perché il sapere mitico è importante quanto quello scientifico
Tre figure mitiche, lontane nel tempo, che hanno affascinato artisti e scrittori Esse rivivono attraverso Mary Shelley, James Joyce e Ezra Pound
di ANTONIO GNOLI

Giulio Giorello che veste come Joyce, l'immagine campeggia nella copertina del suo ultimo libro, non è una stravaganza. O almeno non è solo questo. Giorello ci ha infatti abituato a una libertà di modi e di pensiero che ne fanno un caso probabilmente unico in Italia. La scuola è quella di Geymonat (è stato il suo maestro), ma il cuore batte per Feyerabend (è stato il suo autore di riferimento). Epistemologia più letteratura, ma anche filosofia più fumetti. E ora il mito. Come mostra il libro uscito per Raffaello Cortina: Prometeo, Ulisse, Gilgamesch (pagg. 250, euro 19,80).
Perché ha scelto queste tre figure?
«Un po'per ragioni biografiche, ricordo che mia madre mi raccontava di Gilgamesch. E il fatto che avesse conoscenze di mitologia sumerico accadica credo derivasse da un bellissimo album di figurine dedicato alla Mesopotamia antica».
Quanto a Prometeo e Ulisse?
«Prometeo mi affascina perché, come dice Marx, è il primo santo laico del calendario. Quanto a Ulisse ho sempre preferito di gran lunga l'Odissea all'Iliade. Queste sono ragioni personali, ma in realtà se tocchiamo l'aspetto concettuale vediamo che questi miti hanno in comune il fatto di essere tre escursioni tra la vita e la morte».
Intesa come esistenza finita?
«Ma anche come promessa di immortalità. Prometeo è un Dio che soffre ma non può morire, almeno nella versione di Eschilo. Ulisse, nel libro V dell'Odissea, abbandona la promessa di immortalità di Calypso per andare a Itaca e finire da mortale i suoi giorni. Mentre Gilgamesch cerca disperatamente l'immortalità senza venire a capo del segreto della vita».
Si tratta insomma di un'analisi del mito come confine fra mondo e oltremondo.
«Sì, il punto in cui il regno della luce e dell'ombra si toccano».
L'aspetto che incuriosisce è che lei non fa riferimento solo al mito preso alla sua origine ma anche alle sue trasformazioni e rinascite in contesti diversi.
«Ho abbinato ai tre miti originari tre intellettuali che li hanno rivisitati: Prometeo e la rilettura che ne fa Mary Shelley in Frankenstein, Ulisse e Joyce, infine Gilgamesch e Pound. Potevo naturalmente essere tentato di vedere Prometeo nel modo ironico in cui lo tratta Gide, con l'aquila che si stanca di mangiargli il fegato; o magari giocare con Ulisse mediante il registro di Dante, ma alla fine ho scelto tre scrittori di lingua inglese, perché è la mia cultura di riferimento».
Mentre sono abbastanza chiari i legami fra Prometeo-Shelley e Ulisse-Joyce, lo è meno fra Gilgamesch e Pound.
«Nei Cantos c'è un richiamo al Noè sumerico, a una figura in qualche modo unica perché capace di aver conquistato l'immortalità, di aver umanizzato il divino. Ma è una umanizzazione che riesce una sola volta. Di qui il bisogno di cercare l'immortalità altrove».
Dove?
«Nella tecnica o nella parola. La creazione cui Pound consegna la sua speranza di immortalità è la parola. E lo sconfitto Gilgamesch consegna alle mura la sua speranza di immortalità. O vivi nella costruzione tecnica o vivi nella parola. C'è il verso finale dei Cantos che recita: "Uomini siate, non distruttori". È il modo con cui Pound cerca di costruire il paradiso in terra».
Ma quel paradiso prese forme politicamente imbarazzanti.
«Se allude all'innamoramento di Pound per Mussolini e all'idea che egli fosse il presupposto dell'uomo nuovo, non c'è dubbio. Fu un tragico fallimento».
Le tre rivisitazioni possono essere interpretate come una meditazione su come sconfiggere il tempo.
«In effetti l'utilizzo del mito può essere la risposta alla constatazione pessimistica di Lucrezio quando scopre che il tempo distrugge tutte le cose. In questo senso il mito non è solo una fonte della memoria ma, per citare la Shelley, le ombre che il futuro proietta sul nostro presente».
Non ritiene che sia proprio la filosofia a scalzare il mito attraverso una riflessione sul tempo?
«Il tempo è una delle grandi sfide della filosofia».
Si pone il problema, a differenza del mito. E se lo pone per scioglierne i paradossi.
«Potrei anche citare le trattazioni che del tempo fa la fisica. In particolare della fisica dopo Einstein. Hermann Weyl, fisico matematico, lettore di Husserl, sosteneva che il tempo non c'è, è semplicemente una dimensione in più dello spazio. E quindi quello che noi percepiamo come scorrimento del tempo è solo una impressione, un elaborato della nostra coscienza».
Un fisico, in fondo, porta alle estreme conseguenze il discorso filosofico. Ridurre il tempo allo spazio significa dire che abitiamo nel tempo, ci siamo dentro.
«Anche un fisico, al pari di un essere umano, riconosce che siamo intessuti di tempo, siamo fatti di tempo. Darei ragione a Borges: facciamo numerosi tentativi filosofici per esorcizzare la tigre, ma il tempo è una tigre e quella tigre forse sono io stesso».
Lei mi fa pensare a un funambolo che passa con grande abilità da un equilibrio all'altro.
«Sono convinto che la razionalità scientifica non elimini il sentire mitico, e che l'una e l'altro si alimentino anche se in modo stridente».
Davvero ritiene che il mito possa aiutare la filosofia?
«Da Platone a Heidegger, i filosofi a volte hanno civettato con il mito».
Che è una cosa diversa dal farne una provincia della filosofia.
«Però hanno provato ad annettersela».
Pensi al tema dell'immagine. Mentre si può propriamente parlare di immagine mitica, poetica o letteraria, è più complicato parlare di immagine filosofica. La filosofia si occupa di immagini, ma non le crea.
«È vero, però la scienza è in grado di fornirci delle grandi immagini: il big bang è una di queste. La scienza ha sviluppato capacità evocative molti vicine alla narrativa».
È una tendenza guardata con sospetto dai positivisti.
«Io credo che possano convivere. Un fisico standard quando parla con un cosmologo può obiettargli questo: voi vi occupate dei primi tre minuti dell´universo, noi facciamo il resto con una solida scienza controllabile. Detto ciò, con tutto il rispetto per il fisico, non si può trascurare il momento altamente evocativo di figure come Einstein, Bohr, Eisenberg, o per venire più vicini a noi, Thom e Prigogine».
Che il mito possa sopravvivere al di là di se stesso è possibile verificarlo anche nell'orizzonte contemporaneo. Non trova che i grandi produttori di miti oggi sono il cinema e i media?
«Rispetto a certe gabbie filosofiche dentro cui il pensiero speculativo ha sequestrato il mondo e contro la pesantezza ontologica si sarebbe tentati di dire: ben venga non solo la leggerezza del cinema, ma quella dei cartoons. Quanto ai media fanno quello che facevano i greci».
Cioè?
«Il mito nasce dentro una grande tradizione orale e sarà utilizzato per fissare la prima grande cultura scritta. Omero, o chi per lui, raccoglie il sapere marinaro di greci e fenici».
Il mito di Ulisse che ruolo svolge in questa sistemazione?
«È il grande destabilizzatore dello status quo. Compare ogni qualvolta l'intelligenza svolge il suo ruolo chiarificatore e pericoloso».
È un eroe che crea disordine.
«È un eroe a cui non va tutto bene. Anzi se c'è un'altra caratteristica che accomuna le tre figure è che sono esposte al fallimento. Prometeo è lì che cova la sua vendetta, ma intanto perfino la roccia, come dice Kafka, si è dimenticata di lui. Ulisse è un personaggio di multiforme ingegno, ma gli vanno male molte cose e anche il ritorno a Itaca non è così pacifico, visto che deve affrontare una specie di guerra civile. E il povero Bloom quando si accorge che il letto di Molly è caldo, rinuncia alla guerra civile e accetta con filosofica sopportazione il suo nuovo stato di cornuto».