Il Messaggero Mercoledì 5 Gennaio 2005
QUANTI POETI MALINCONICI
di SERGIO GIVONE
IDENTIFICARE le cause biologiche dei nostri stati emotivi è un sogno antico quanto la medicina. Per secoli, a partire da Ippocrate e da Galeno, poi fino alle soglie dell'età moderna, si è pensato che l'atteggiamento nei confronti di se stessi, degli altri e del mondo fosse determinato dalla prevalenza di uno dei quattro umori fondamentali del corpo umano. Così per esempio la bile nera era ritenuta responsabile della malinconia, il flegma della calma e della prudenza, e avanti su questa falsariga. La medicina scientifica e in particolare la genetica sembrano voler confermare quell'intuizione.
Salvo che le cause delle emozioni e delle affezioni psichiche non sono più cercate negli umori, ma per l'appunto nei geni.
Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. L'annuncio recente per cui sarebbe stato scoperto il gene della timidezza, a conferma della teoria in base alla quale i comportamenti degli esseri umani dipenderebbero dal corredo genetico di ciascuno, s'inserisce all'interno di un quadro noto. Sarà la scienza a darne conferma.
Senonché fin da ora possiamo dire che, quand'anche la scienza fosse in grado di tracciare una completa mappatura dei geni e delle emozioni corrispondenti, resterebbe da risolvere più di un problema.
Intanto bisogna considerare che le grandi emozioni umane (e non soltanto le grandi, naturalmente) nel corso del tempo mutano, cambiano figura, diventano tutt'altro da quel che erano. Prendiamo uno stato emotivo che è anche una patologia sempre più diffusa e minacciosa, per certi aspetti una vera e propria epidemia psichica del nostro tempo: la depressione. Solo venti o trent'anni fa si sarebbe parlato non già di depressione bensì di angoscia. A sua volta l'angoscia era stata preceduta da una lunga storia e anzi da un'intera costellazione di concetti, nei quali troviamo espresso il senso di vuoto, di sgomento e di morte che afferrano il cuore e la mente e non lasciano spazio alcuno alla speranza. Vedi l'inglese spleen. O il tedesco weltschmerz. O il francese ennui. Tutti termini il cui significato echeggia nella noia leopardiana. La quale noia ha ben poco in comune con la noia di cui parliamo noi oggi, in quanto a differenza di quest'ultima essa era espressione di un pessimismo cosmico che nell'insensatezza del vivere vedeva la cifra del nostro destino e dunque rinviava semmai alla melancholia rinascimentale e al taedium vitae dei romani, pur essendo cosa un po' diversa... Come la mettiamo allora? Sembra difficile poter ipotizzare che tutte queste esperienze siano governate dallo stesso gene.
Ma c'è anche un'altra questione. Diamo pure per dimostrato che lo stesso gene sia la causa della depressione, dell'angoscia, della malinconia, ecc. Il depresso non potrebbe che prenderne atto con un certo sollievo. Se non altro perché potrebbe chiedere di intervenire sull'origine della sua malattia in modo definitivo, in modo cioè da rimuoverne la causa. Come non ricordargli però che quando la sua patologia era chiamata altrimenti (angoscia, malinconia) ci fu chi vide in essa non tanto una forma di disagio psichico da eliminare quanto la via d'accesso a forme di esperienza e di conoscenza che diversamente sarebbero precluse all'uomo? Certo, questa non è una ragione sufficiente per dire al malato di tenersi la sua malattia e di soffrire in nome di sublimi realtà spirituali. E tuttavia l'intera storia della cultura attesta che molte (se non tutte, come credeva Aristotele) delle più grandi opere dell'ingegno umano sono figlie di qualche patologia.
Vogliamo curarle, queste patologie? Benissimo. Purché ci si renda conto con chi e con che cosa abbiamo a che fare. Prendiamo la malinconia, ma lo stesso vale per la timidezza, e per tutti gli altri stati emotivi che sono propri dell'uomo. Se ci si dice che, essendo stata identificata la causa della malinconia in un determinato gene non resta che intervenire sul gene, il sospetto d'aver imboccato una strada sbagliata è più che legittimo.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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