domenica 16 gennaio 2005

In concorso a Trieste
il film «Adisa o la storia dei mille anni»
del regista Massimo D'Orzi

una segnalazione di Elisabetta Amalfitano

il manifesto venerdì 7.1.05
DOCUMENTARIO
Una notte tra i rom in Bosnia
In concorso a Alpe Adria Cinema di Trieste il film
«Adisa o la storia dei mille anni» del regista Massimo D'Orzi

di SILVIA ANGRISANI

la pagina del manifesto è QUESTA

«Ci rendemmo conto che in Jugoslavia qualcosa di tragico sarebbe avvenuto quando gli zingari cominciarono a partire. Così, capimmo che la guerra stava terminando quando li vedemmo tornare». È una donna bosniaca che parla, introducendoci al viaggio di Adisa o la storia dei mille anni, il film che il regista fiorentino Massimo D'Orzi ha realizzato in una piccola comunità rom in Bosnia e che ora sarà in concorso a Alpe Adria Cinema di Trieste (20-27 gennaio). Si è mai sentito parlare degli zingari, durante le guerre dei Balcani? Eppure, da più di cinquecento anni la loro presenza agita l'Europa, in particolare i paesi dell'Est. Il cinema ci ha restituito spesso immagini stereotipate di questo popolo che sfugge ai tentativi di definizione: un popolo disperso nel mondo ma che non rivendica uno Stato; un popolo probabilmente originario dell'India, ma la cui memoria storica si costruisce più nel rapporto conflittuale con i non rom, con i quali vive fianco a fianco ogni giorno, che nel ricordo di origini affidate alla sola tradizione orale. Un popolo che ha una lingua, il romanès, ma declinata in una pluralità di dialetti che a volte impediscono la comprensione reciproca. Un popolo di viaggiatori? Non sempre, perché non tutti gli zingari sono nomadi, e certamente non lo sono i rom kaloperi protagonisti di Adisa.
È notte quando la macchina da presa ci fa entrare per la prima volta in una casa che sembra dispersa nel nulla. Una donna attizza il fuoco. Tutt'intorno i volti di bambini, donne, uomini, emergono a sprazzi dall'oscurità, illuminati da una luce calda come in un quadro del Seicento. La scelta della luce è indizio di un'estetica più vicina al cinema di finzione che al documentario e il lavoro sul sonoro sembra confermarlo. I rumori domestici si confondono con un mormorio di parole indistinte e quando l'intervista comincia, né l'intervistatore né l'intervistato sono in campo: la macchina da presa esplora la casa, sorprende da lontano i bambini acquattati in altre stanze, si sofferma sugli sguardi intimiditi, mentre la voce di un uomo racconta l'esperienza di una guerra di cui più di altri, forse, i rom dell'ex-Jugoslavia sono vittime.
Rom anche lui, l'intervistatore indaga il rapporto di queste famiglie con la lingua madre e con la propria storia. Due generazioni hanno già perso memoria del romanès, perché chi non ha imparato dai genitori la lingua dei rom, non ha potuto neppure insegnarla ai propri figli. E tra i figli più grandi, difficile da confessare, serpeggia la vergogna della propria appartenenza.
Nella conversazione con Adisa, la bambina che dà il titolo al film, la conduzione dell'intervista assume un tono improvvisamente «direttivo»: se non possiamo essere certi, in questo caso, della spontaneità delle risposte, possiamo tuttavia sentire la pressione che pesa sull'intervistatore, per il quale il film costituisce un'occasione per denunciare la discriminazione culturale e sociale dei rom e la scomparsa progressiva della memoria storica tra la sua gente. Vergogna e orgoglio coesistono nella stessa famiglia. Ecco un uomo che racconta il cambiamento delle condizioni di vita dopo la guerra in Bosnia: «Noi abbiamo inventato molti mestieri e sappiamo fare qualunque lavoro. Ci piace lavorare, e solo chi è malato deve ricevere l'aiuto dell'assistenza sociale. (...). Qui da noi c'è una nuova legge, non possiamo più spostarci come nell'ex Jugoslavia, dove potevamo piantare una tenda ovunque, si viveva di ciò che si aveva, ognuno aveva un mestiere. Nessuno ci chiamava zingari né ci dava del ladro». Sorge spontaneo il ricordo di un monologo analogo in Gadjo dilo, il film di Tony Gatlif in cui il vecchio zingaro Izidor si esibisce in un'involontaria performance davanti agli avventori rumeni del bar del villaggio, raccontando che in Francia gli zingari non vengono additati come ladri ma, al contrario, sono tenuti in grande considerazione perché sanno riparare meglio di chiunque altro ogni sorta di oggetti ed esercitano tutti i mestieri. E quando Gatlif racconta che questo monologo non era previsto dalla sceneggiatura ma che è nato dall'improvvisazione del protagonista, il cerchio in qualche modo si chiude: la finzione ritrova il documentario, e Adisa, facendo risuonare altre storie, si carica di un forte potenziale simbolico.
Per combattere lo stereotipo romantico dello zingaro libero come il vento (Johnny Depp in Chocolat?) e della gitana selvaggia e ammaliatrice (Esmeralda nel cartone della Disney Il Gobbo di Notre-Dame?), c'è bisogno di immagini che diano corpo agli zingari di casa nostra, quelli descritti da Soldini in Un'anima divisa in due o da Gatlif in L'uomo perfetto. O da Adisa o la storia dei mille anni, che nel rifiuto coraggioso della logica narrativa e nella consapevolezza della difficoltà di spogliarsi del punto di vista del «gadjo» (il non zingaro), lascia ai rom il diritto di testimoniare la propria presenza nella Storia.