domenica 16 gennaio 2005

l'occhio e l'orecchio
estetica dei sensi

LA STAMPA TUTTOLIBRI 15.1.05
L’occhio e l’orecchio sono due filosofi che non ingannano
Tradotta l’ultima opera di Mikel Dufrenne, il principale teorico dell’estetica francese di scuola fenomenologica nel secondo Novecento: l’esplorazione del mondo attraverso il corpo
Marco Vozza


MIKEL Dufrenne è stato indubbiamente il principale studioso e teorico dell'estetica francese novecentesca, caratterizzata dall'elaborazione del paradigma fenomenologico, introdotto da Husserl e perfezionato da Merleau-Ponty, autore con il quale oggi sembra inevitabile confrontarsi, anche per i rilevanti contributi estetologici dedicati a Cézanne e a Proust. Nonostante l'importanza del suo contributo filosofico, Dufrenne non è mai entrato nel novero dei pensatori transalpini à la page, quelli di cui si traduce ogni minimo e trascurabile saggio, come se si trattasse di una imprescindibile traccia del pensiero filosofico. In tal senso, appare davvero meritoria la pubblicazione della sua ultima opera, L'occhio e l'orecchio, che risale al 1987, pochi anni prima della morte del suo autore: essa è ospitata in una bella collana del Castoro diretta da Elio Franzini e si avvale di una illuminante prefazione redatta dal traduttore Claudio Fontana, capace di spiegare altresì le ragioni del relativo isolamento patito dall'intellettuale francese, un umanista destinato ad apparire un po' anacronistico in un'epoca caratterizzata prima dalla corrente strutturalista, poi dall'ontologia negativa post-heideggeriana che sfocia nell'ultimo Derrida; in realtà, suggerisce Fontana, «il suo pensiero brilla di luce propria, è creazione che illumina luoghi e ambiti del nostro esperire». Quello di Dufrenne è un pensiero permeato di amor mundi, di tenerezza per le cose del mondo, colte nella loro vibrante tessitura carnale; così, questo libro appare come una esaustiva e appassionata esplorazione del sensibile, attraverso la puntuale individuazione dell'attività plurale degli organi sensoriali e, al contempo, la ricerca inesausta dell'aspetto unitario che soggiace a tale eterogeneità. Partendo dal presupposto che - contrariamente a quanto riteneva la tradizione metafisica di matrice cartesiana - i sensi non ci ingannano, si tratterà di restituire dignità filosofica all'orecchio, organo inerte della passività, orfano di soggettività, privo di interiorità, traccia residua di animalità inconsapevole, subordinato allo sguardo attivo dell'occhio. Sulla traccia indicata da Erwin Straus, Dufrenne si propone allora di sviluppare una fenomenologia del sentire, intesa come analisi della modalità di comunicazione tra un soggetto e il mondo esterno, esperienza psichica e pratica che precede ogni forma di sapere razionalmente formalizzata. L'occhio e l'orecchio sono organi di senso che assolvono a funzioni differenti ma che, nell'esercizio delle loro rispettive competenze, manifestano una solidarietà di fondo che pone l'esigenza di pensare la loro unità, di risalire cioè alla genesi dei sensi, estendendo anche all'orecchio l'indicazione capitale formulata da Klee di render visibile l'invisibile, accolta da tutta la fenomenologia come un vero e proprio programma di ricerca filosofico. Non vi è più opposizione tra il corpo e lo spirito: all'origine dello spirito vi sono i sensi; la fenomenologia tenterà di descrivere l'emergere dello spirito dai sensi, con la loro straordinaria ricchezza percettiva, innanzitutto dalla vista ma anche dal tatto e dall'udito poiché, mentre «l'occhio si apre all'infinitamente grande o all'infinitamente piccolo, l'orecchio raccoglie il canto dei delfini dalle profondità marine oppure il rumore della linfa che risale al cuore dei vegetali». Così i sensi formano un io naturale che precede ogni astratta identità; i sensi coabitano nel corpo, comunicano tra loro, cooperano all'esplorazione del mondo che si raccoglie nella singolarità della carne, allacciano sorprendenti relazioni, accolgono solidali molteplicità e differenza. Come già sapeva Locke, ogni riflessione poggia sul dettato delle sensazioni; come dirà poi Nietzsche, è il corpo che pensa (es denkt), che produce una grande ragione mentre all'intelletto rimane soltanto una piccola ragione; il corpo - aggiunge la fenomenologia - ci mette in relazione con il mondo: non tanto mediante la percezione quanto attraverso un'affettività incarnata. La mia esperienza scaturisce da un corpo a corpo con il mondo; i sensi sono come fessure attraverso le quali il corpo si apre al mondo lasciandolo penetrare nella carne viva dell'emozione, accogliendone l'impurità, la mescolanza, disponendosi ad una perenne eteroaffezione. Si configura così un soggetto ospitale, generoso, sensuale, intimo con l'altro, come accade nell'erotismo, esperienza elettiva in cui si manifesta la «carne di un corpo che è tutto zona erogena, carne che si esperisce illimitandosi nel dono che offre e, insieme, che riceve; infatti, la mano o la bocca che si fanno strumenti della carezza non si appartengono più, la loro attività diviene passività e la passione dell'uno suscita quella dell'altro. In una simile reversibilità, di pelle contro pelle, chi tocca e chi è toccato? E' veramente una sola carne, agitata da una stessa onda, trasportata da uno stesso piacere». Come già scriveva Valéry, la profondità dell'uomo è la sua pelle. Per Dufrenne tuttavia, la pluralità dei registri sensoriali non è la parola definitiva della fenomenologia del sentire; ben più ambiziosa si presenta invece - dopo Straus e Merleau-Ponty - l'autentica posta in palio filosofica di quest'opera: «Siamo in grado di pensare l'unità di questo plurale?», siamo cioè capaci di comprendere «l'unità della carne prima della sua differenziazione e di avvicinarci all'idea dell'originario?». Mettendo tra parentesi il paradigma entro il quale viene formulata, potremmo domandarci se tale sfida ontologica (ogni volta sospesa e differita perché inafferrabile o virtuale) sia davvero così cruciale da apparire quasi imprescindibile. Un altro percorso teorico potrebbe essere indicato: quello che depone ogni residua quanto tenace istanza di pervenire all'unità originaria e prelogica dell'essere, considerandola finalmente irrilevante, nella consapevolezza che essa appare soltanto nel mondo dei fenomeni, sempre differenziata, così come il sensibile si manifesta soltanto nella pluralità di visibile, udibile e tangibile, condizione di feconda molteplicità che talvolta gli artisti sanno rappresentare con efficaci sinestesìe, composizioni armoniche, affinità ricreate a posteriori, che non necessariamente attestano l'omogeneità primordiale del sensibile.