venerdì 7 gennaio 2005

poeti italiani
Montale, Caproni, Merini

IL MESSAGGERO 6.1.05
Le conversazioni di Caproni Il Montale postumo che scrive agli amici più cari
di RENATO MINORE


EUGENIO Montale «ritorna tra gli amici». Amici che si chiamano Andrea Zanzotto, Cesare Segre, Gaspare Barbiellini Amidei, Carmelo Bene, Vanni Scheiwiller, Claudio Magris, Jean Starobinski. In tutto ventuno (Ritorna tra gli amici, Il Melangolo, 64 pagine, 7 euro, a cura di Carlo Angelino e Annalisa Cima, con note di Francesca Bolino) e ciascuno è il destinatario, il dedicatario delle ventun poesie tratte dal Diario postumo, quei versi che il poeta affidò all’amica Cima, da pubblicare dopo la sua morte in un ordine prestabilito.
Il tanto discusso Montale “postumo” riletto in pillole non è molto diverso dal Montale colloquiale e sarcastico dei suoi ultimi libri, da Satura in poi. Pietoso-impietoso con tutti, soprattutto con se stesso
«appisolato davanti
all’occhio nero della televisione».
Il tono, amaro, apocalittico, avvolge tutto: il destino dell’uomo, la catastrofe della società di massa («viviamo come trote avviluppate nella mota»), l’inganno del tempo, l’ossessione della morte, una sarcastica aggressività verso ogni forma di specialismo. Non ultimo quello dei critici,
«speculatori di parole
o politici della penna
che esultano nell’omologare»
Il tono è quasi sempre più secco, prosciugato, come se la privilegiata interlocutrice possa favorire un nuova, stringatissima epigraficità. Montale vuole liberarsi dall’abbraccio filologico e accademico che lo invischia sempre più e che lui stesso favorisce, anche con questa eredità poetica “postuma”. E libera l’immagine del colloquio con “l’imperatrice”, “l’agile messaggero” (così chiama la Cima). Affiorano lo spleen e l’insonnia, ma anche le sorprese di sensazioni nuove come uno struggente desiderio di paternità, le attese, le illuminazioni, le affinità, una vecchiaia di spine e d’angoscia, rischiarata dal sentimento d’amicizia vibrante e trasognato. Mentre «intorno il mondo scolora», esso è autentica «voce di salvazione» attraverso il ricordo. «Alle donne è dato il ricordare» è, infatti, un verso tra i più intensi della raccolta dove Montale sogna, per il suo ultimo incontro con la donna, un’esistenza di margine e d’invisibilità.
«Anima mia, leggera va’ a Livorno, ti prego
e con la tua candela
timida, di nottetempo
fà un giro; e se n’hai il tempo
perlustra e scruta e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora tra i vivi»:
la cadenza inscrive nel suono il senso della sua dizione. E la versificazione «pausata e rotta» segna in profondità la poesia di Caproni il cui vero sogno (ha scritto Calvino) è il sogno, il non luogo illuminato da quella speciale luce che i sogni strappano dal buio delle palpebre, dove ogni cosa è insieme precisa e fluida. Penso che ancora debba essere compresa la profonda unità di Caproni che, dalle prime liriche amorevolmente rappresentate nella creazione di città-fantasma come Genova e Livorno, è approdato al tono tormentato e beffardo degli ultimi versi in cui «l’occhio di Dio» coincide con il suo gelo e si percepisce quel grande orrore metafisico «che è alla base del pensiero e dell’esistenza umana», secondo l’accattivante lettura di Giulio Giorello. Caproni è il protagonista di queste bellissime “conversazioni radiofoniche” con Michele Gullinucci e Guido Barbieri, registrate nel gennaio del 1988 per quattro domeniche nella trasmissione di Radio 3 Antologia e ora opportunamente raccolte in volume (Era così bello parlare, Il Melangolo, 280 pagine, 20 euro, con prefazione di Luigi Surdich).
Infine Alda Merini con le sue poesie d’amore raccolte ne La volpe e il sipario (Rizzoli, 103 pagine, 11,50 euro) L’amore e la sua assenza, la pena del corpo e i suoi avvilenti travagli, l’estasi per la bellezza guadagnata e posseduta soltanto dalla mente e dal cuore: la poesia di Alda Merini mescola tenerezza e orrore, visione e abbrutimento, sogni e violenza, lo sguardo reietto dell’emarginazione e l’assoluto della follia. L’eros travolgente e il tumulto dell’esistenza duramente provata, spezzata in modo vertiginoso dalla malattia mentale, occupano la scena di questi versi, in un orizzonte fisico racchiuso tra Brera e i Navigli, quando non è il letto di contenzione di una clinica psichatrica. Tenera e imperiosa, beffarda e arguta, la Merini con coraggio e distaccata brutalità guarda in se stessa. Fruga nella condizione umana trascinando il lettore negli abissi dell’anima raccontando il dolore di una perdita momentanea, “quando tu non ci sei”, con il doloroso stupore di una fiaba.