venerdì 7 gennaio 2005

catastrofe / catastrofi
...e se fosse semplicemente il "loro" tempo ad esser finito?

La Repubblica 7.1.05
Dove precipita il nostro mondo
L'uomo davanti alla rottura epocale
Dalle attese millenaristiche ai violenti cataclismi sul pianeta Così reagiamo davanti al pericolo
Gli eventi catastrofici come lo tsunami rimettono in discussione certezze e scatenano paure
MASSIMO CACCIARI
GUIDO VIALE


Qual è l'apocalisse, la rivelazione, l'evento che porta alla luce la verità nascosta dei nostri tempi, l'eskaton in cui sono destinate a concludere la loro esistenza tutte le cose?
La discarica. Certo, più ancora che la discarica "controllata", dove i residui del nostro vivere si accumulano disordinatamente, ma in ben ordinati lotti geometrici, per venire periodicamente ricoperti mano a mano che avanza la "coltivazione" dell'impianto, questo si addice ai mille e mille depositi di rifiuti del "Terzo mondo": dove la raccolta differenziata, cioè il recupero del molto ancora utilizzabile che c'è nelle cose che scartiamo, avviene "a posteriori", frugando a mani nude - o mandando a frugare i bambini - nei cumuli di rifiuti che vengono scaricati senza sosta in scenari resi infernali dai continui processi di autocombustione. Le famose Smoky Mountains di Manila ne costituiscono forse l'esempio più celebre.
E perché mai la discarica è apocalisse, cioè rivelazione? Perché, come il suo fratello, l'inceneritore, esibisce in un solo colpo d´occhio la sostanza delle nostre vite quotidiane: l'incessante spreco di risorse sottratte alla Terra per trasformarle, nel più breve tempo possibile, in rifiuti carichi di inquinanti e destinati a trasformare in deserto l'ambiente in cui viviamo. Ma anche perché la catastrofe - l'apocalisse intesa in senso tradizionale - ha l'effetto di raggiungere in pochi istanti quello stesso risultato che il nostro stile di vita realizza nel corso del tempo. Lo comprova il panorama lasciato dietro di sé dal maremoto che ha colpito le coste dell'Oceano Indiano.
Ora quei territori assomigliano infatti a una immane discarica di rifiuti indifferenziati: dove tutti gli oggetti - mobili, suppellettili, ciabatte, giocattoli, attrezzature, automobili, barche, vagoni e traversine - che riempiono la vita quotidiana di ricchi e poveri, stranieri e locali, giacciono accatastati o dispersi a caso, là dove l'onda, ritirandosi, li ha depositati; insieme a fango, ramaglie, carogne di animali, macerie; a pozze di gasolio, di lubrificanti, di scarichi fognari fuoriusciti da tubature scoppiate. Ma anche a migliaia e migliaia di corpi - gonfi, dai visi tumefatti e dai tessuti in decomposizione - di uomini, donne e bambini di cui non si riesce più a riconoscere né il volto né la stirpe: se quella del turista internazionale o quella del suo servitore locale.
Il maremoto del Sudest asiatico, come tutte le catastrofi, ha avuto l'effetto vistoso di far coincidere, e ridurre a un singolo istante, i cicli di vita di miliardi di oggetti, sia usciti nuovi fiammanti da una fabbrica o da un grande magazzino, sia frutto di una sapienza manuale millenaria. Prima o poi, erano tutti destinati a trasformarsi in rifiuti; ma l'impeto del maremoto li ha sventagliati tutti insieme davanti agli occhi elettronici delle videocamere e sulla retina dei nostri teleschermi, in un quadro che ci restituisce in un colpo d'occhio la sostanza materiale delle vite quotidiane dell'intero pianeta.
D'altronde, i resti lasciati dal maremoto non si differenziano gran che, se non per dimensioni, dal panorama creato dal passaggio di un uragano - non solo più nei paesi tropicali; sempre più spesso, anche lungo le coste del paese più ricco e potente del mondo - o da un bombardamento a tappeto di una città dove si intende instaurare a forza la "democrazia". Sono tutti fenomeni recentemente accomunati sotto l'etichetta di "catastrofe umanitaria": prendendo a prestito dall'infame ossimoro "guerra umanitaria" un aggettivo che, non si sa perché, fa ormai coincidere l'essenza più autentica del genere umano - che cos'altro mai è l'umanità? - con l'entità di una strage. Tuttavia, che cosa ci sia di umanitario in una catastrofe è un quesito lessicale che attende ancora una risposta.
Anche per i miseri resti degli esseri umani periti nel disastro, la discarica creata in pochi istanti dal maremoto è di tipo tradizionale: priva persino di quella forma primigenia di "raccolta differenziata" che forse sta alle origini stessa della civiltà e della cultura: la separazione - dagli oggetti di cui ci disfiamo perché non ci servono più - dei corpi dei defunti: per riciclarli, attraverso un rito funebre, nella vita dell'aldilà. La maggioranza dei cadaveri delle persone sterminate dal maremoto viene infatti recuperata "dopo", semisepolta sotto cumuli di rifiuti; e quelli che non possono essere recuperati, vengono cremati in grandi pire insieme al resto del materiale trascinato dalle pale meccaniche; oppure sotterrati con quello in enormi tumuli sotto i cingoli dei bulldozer. Una necessità destinata a trasformare quelle spiagge, già paragonate al paradiso, in plaghe di revenants; e i balli dei turisti sopra di esse in una riedizione delle medioevali danze della Morte.
Oggi, in quelle plaghe desolate, il rischio maggiore sono le epidemie. Ma nel lungo periodo il pericolo proviene, in forma anche più intensa, dagli oggetti inanimati sparpagliati dalle onde. Perché quella morte di massa inferta dalla natura non ha messo capo a una "natura morta". La Terra è pur sempre un pianeta vivo, dove le precipitazioni, i venti, lo scorrere dei fiumi, le onde, la ricomparsa della vegetazione e l'incessante attività di uomini e animali sono stati per miliardi, milioni e migliaia di anni garanzia e strumenti di ricostituzione degli equilibri ecologici: sia quelli antecedenti ai disastri; sia quelli nuovi, instaurati proprio dai disastri.
Tutto ciò, tuttavia, era vero prima della rivoluzione industriale, prima della produzione di massa e, soprattutto, prima della comparsa nel mondo dei materiali sintetici; per i quali l'evoluzione naturale non ha avuto il tempo di elaborare forme di vita capaci di demolirne le molecole e di reintegrarli in un nuovo ciclo naturale. Per di più, molti di quei materiali e di quelle sostanze sono veleni, sia per l'uomo che per l'ambiente: cioè per gli altri esseri viventi.
Oggi quei materiali e quei veleni sono presenti, in modo caotico, tanto nei milioni di oggetti dispersi dall´onda lungo la fascia costiera dell'Oceano, e ridotti a rifiuto in un solo istante, quanto nelle migliaia di miliardi di prodotti che popolano il pianeta e destinati a raggiungere un po' per volta, ciascuno a modo suo, il proprio aldilà, fuori o dentro una discarica controllata o alla gheenna di un inceneritore. Domani la natura, in modo lento o rapido, li diluirà poco a poco all'interno di ecosistemi che filtrano e risanano: ma la catena alimentare torna spesso a concentrare i veleni in particolari organismi (la diossina nel latte delle mucche, il mercurio nei pesci, ecc.) e, alla fine, nel corpo degli uomini che se ne nutrono.
Nessuna scienza umana, nessuna tecnologia moderna - meno che mai in paesi dove è mancato persino un elementare sistema di allarme costituito da sirene e telefoni portatili - è in grado di individuare, bloccare e recuperare, prima che si spargano dappertutto, quei veleni: materiali apparentemente innocui, fino a quando capiamo che non sappiamo più come recuperarli, come vernici, colle, solventi, batterie, additivi, metalli pesanti, plastiche di tutti i tipi, fitofarmaci, pesticidi, Ogm, ecc. Ma anche mine antiuomo dissotterrate dall´onda (Sri Lanka); scorie nucleari di centrali costruite in riva al mare (Madras); o probabili arsenali batteriologici accumulati tra ignare popolazioni di "selvaggi" (isole Andamane).
Il vettore di questa peste planetaria è la continua messa in circolazione di nuovi prodotti: non per dare a tutti il necessario per vivere bene; ma per imporre a una minoranza, molti o pochi che siano, l'affanno di un numero crescente di oggetti superflui: vivendo, tra l'altro, sempre di più - come i siti turistici dell'Oceano Indiano sono lì a dimostrare - a contatto diretto con altri esseri umani, la maggioranza, che non hanno niente. E che rischiano di avere sempre meno.

La Repubblica 7.1.05
COME RELIGIONE E FILOSOFIA HANNO INTERPRETATO GLI EVENTI CATASTROFICI
la battaglia finale e il corso della storia
L'angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede una unica catastrofe, che ammassa macerie su macerie
L'umanità intera era perita L'unico uomo rimasto era lui. Egli rifletté su quale catastrofe avesse potuto provocare la fine dell'umanità
Non si vive "in attesa di una catastrofe", la catastrofe è vivente dentro l'umanità contemporanea come una divinità terribile nel suo santuario di elezione
La fine del mondo non è un problema? È invece l'atmosfera da fine dei tempi, è la paura della catastrofe cosmica a offrire spunti alla riflessione
GIOVANNI FILORAMO

Quando Nietzsche, in Umano troppo umano, denunciava l´anacronismo della religione cristiana e di Cristo, «un saggio che si rivolge a noi ... segnalandoci i segni della imminente fine del mondo ... è verosimile che cose del genere vengano ancora credute?», non poteva certo prevedere le rinnovate fortune che l'Apocalisse, proprio con i suoi scenari catastrofici di fine del mondo, avrebbe continuato a conoscere. Anche se fino a Newton e a Bossuet, e cioè fino a quando il paradigma della storia sacra riuscì a orientare la storia profana, l'Apocalisse continuò a fungere da chiave che rivelava, a partire dall'inizio, il cammino del mondo verso una fine prestabilita, la messa in discussione di questo paradigma coincise con l'eclisse dell'Apocalisse. Criticata da Kant, metabolizzata dalla rilettura in chiave secolarizzata della storia umana cara alla filosofia della storia tedesca, da Lessing a Hegel al giovane Marx, la prospettiva che essa aveva veicolato pareva, alla fine dell'Ottocento, effettivamente "superata" dal disvelamento inarrestabile del mistero della natura promesso, col suo intrinseco ottimismo, dall'evoluzionismo scientifico. Con le sue catastrofi, il Novecento ha riattivato l'attesa della fine e, dunque, il ricorso agli scenari tipici della tradizione apocalittica giudeo-cristiana. Dopo Nietzsche, d'altro canto, l'avvento del nichilismo ha troncato il cordone ombelicale con la "rivelazione" della dimensione trascendente della storia, iscritta nel codice genetico dell´"apocalisse" come "disvelamento" del piano provvidenziale di Dio. Conseguenza ancor più significativa: i "travagli della fine" non preluderanno più alla parusia del Signore, all'avvento del regno millenario dei giusti e alla discesa della Gerusalemme celeste. Le catastrofi non saranno altro che catastrofi prive di senso.
L'apocalittica è un fenomeno che travalica i confini della tradizione giudaico-cristiana. Speculazioni mitiche e scenari catastrofici di fine del mondo, infatti, sono presenti anche in altre tradizioni religiose del mondo antico, dall'India all'Iran, dall'Egitto alla Grecia ai Germani. Ciò che caratterizza la tradizione monoteistica, d'altro canto, è la sua peculiare concezione della storia, conseguenza della peculiare concezione della divinità: un unico Dio, un unico cosmo, di conseguenza, un'unica fine dell'unico mondo da Lui creato. Di qui l'assolutezza delle sue proposte apocalittiche, che non conoscono la ciclicità dell'eterno ritorno di mondi molteplici continuamente rinnovati da catastrofi che non sono mai ultime e definitive. La visione dualistica tipica dell'apocalittica giudeo-cristiana, inoltre, che vede il cosmo preda delle forze del male e la battaglia finale tra forze del bene e forze del male come unica via di scampo, non fa che rinvigorire questa assolutezza. La vicenda apocalittica non è uno tra i tanti avvenimenti della nostra storia, ma l'evento non modificabile, non ripetibile, non evitabile, che la conclude.
Si spiega, in questo modo, l'interesse spasmodico per decifrare i segni della fine, una fine che avrà luogo all'improvviso, quando meno ce l'aspettiamo, quando il sole splende all'orizzonte e la natura si mostra in tutto il suo splendore, dal momento che «come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo» (Matteo 24, 27). Per questo occorre essere preparati, come insegnano le parabole matteane del fico, del servo fidato e prudente, delle dieci vergini, a una fine catastrofica («finché venne il diluvio e inghiottì tutti») assimilata a quello che è il modello di tutte le catastrofi: il diluvio, segno di morte e rinascita cosmica.
Per secoli, il paradigma apocalittico non è stato solo e tanto un sinonimo di catastrofe risolutiva, morte e risurrezione di epoche e civiltà, quanto la possibilità di poter disporre di un linguaggio, fatto di segni alti e imprevisti, preposti ad avvertire l'umanità circa le svolte, sempre traumatiche e decisive, del suo travagliato cammino: dalle invasioni di popoli barbari, che caratterizzano lo zodiaco apocalittico medievale, alle catastrofi naturali e cosmiche, che sembrano sempre più contraddistinguere la nostra epoca.
Se il Novecento sembra rappresentato da apocalissi politiche, il nuovo secolo sembra annunciarsi sotto il segno di apocalissi cosmiche. Il posto della cometa di Halley, che nel 1910, col suo passaggio, riattivò in tutto il mondo il segnale del disastro apocalittico, sembra oggi sempre più preso, sullo sfondo della crisi ecologica, dalle catastrofi naturali. Gli schermi del cinema e della televisione, specchi del nostro tempo, testimoniano della popolarità dei film catastrofisti: ecodisastri, biodisastri, disastri con meteoriti, con interi astri, invasioni di mostri e alieni ispirano l'epica della distruzione globale che minaccia la fine della civiltà, l'estinzione della specie umana, la cancellazione del nostro pianeta. Certo, l'apocalisse politica, col suo corteo di profeti di sventura, di anticristi, di forze del male, di Gog e Magog che verranno distrutti dal messia di turno, tenuta in vita dai fondamentalisti, non ha perso d'importanza. Ma il vaso di Pandora scoperto dalla crisi ecologica, con il suo corteo di disastri, ha contribuito a rinvigorire l'importanza degli scenari di catastrofe cosmica. Se è vero, come ricordava E. De Martino, che l'apocalittica è un sistema di segni relativo allo specifico rischio che corre una cultura in una situazione di crisi radicale; se è altresì vero, come hanno insegnato pensatori apocalittici quali Gioacchino da Fiore, che l'Apocalisse, ispirata o semplicemente immaginata, organizza il tempo, fornisce preziosi punti di riferimento e dota il futuro di un futuro, il ritorno dell'attenzione sui segni cosmici della fine, in fondo inestricabilmente legati coi segni politici della fine creati dalla mano stessa dell'uomo, è un avvertimento per cogliere apocalitticamente, ma anche laicamente, en tachei, presto, subito, il senso profondo contenuto nel messaggio del tempo apocalittico della fine: un tempo particolare, che può rivelarsi autodistruttivo, ma che può anche diventare fattivo e creativo.


La Repubblica 7.1.05
da Benjamin a Taubes e Bloch: il tema delle rovine
Vivono il ruolo di superstiti. Sono i pensatori apocalittici
Dai cultori del messianismo agli amanti dell'utopia
Quando il progresso finisce nella tempesta

ANDREA TAGLIAPIETRA

L'Apocalisse, scriveva Gilles Deleuze introducendo un'edizione francese dell'Apocalypse di Lawrence, è il libro di tutti coloro che si pensano come superstiti. L'attualità filosofica dell'Apocalisse non sta nel gioco delle corrispondenze storiche, nei meccanismi figurali che pur appartengono, da Ticonio a Gioacchino da Fiore e oltre, alla sua veneranda tradizione esegetica, né nel sentimento sovrastorico della fine del mondo, con lo spettacolare corollario di catastrofi naturali e culturali che esso trascina con sé. Il «grande macchinario» dell'Apocalisse, suggeriva Deleuze, ispira ai moderni un modo di vivere e soprattutto di giudicare che li trasforma in ingranaggi di un immenso meccanismo giudiziario. In una lettera inedita indirizzata a Carl Schmitt, Jacob Taubes sembra concordare, in parte, con Deleuze: apocalittica significa comprendere che «il tempo è a termine», ovvero che esso va inteso come «ciò che non può cambiare direzione sulla «strada a senso unico che porta al Giudizio». L'allusione all'Einbahnstrasse che salda, qui e ora, il tempo al giudizio, rimanda, inequivoca, a Walter Benjamin e alla celebre descrizione dell'Angelus Novus, che trasfigura l'acquerello di Klee in una barocca allegoria dell'apocalisse moderna. L'angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Nel suo sguardo stupito la catena degli eventi trascorsi si muta in una sola catastrofe. Ma l'angelo non ha tempo per ridestare i morti e ricomporre l'infranto. La tempesta del progresso lo spinge lontano, nel futuro cieco che gli sta alle spalle. Nello stupore dell'angelo innanzi alla catastrofe Taubes può cogliere il riflesso nichilistico della caducità della natura, che rimarrebbe irredenta qualora fosse senza speranza nel Giudizio.
Tuttavia lo stupore non è inerzia, né frustrazione di un giudizio che non giunge in tempo o per cui non c'è più tempo. Non è neppure il musicale "glissando" di quell'apocalisse "senza giudizio", o di quel disastro che «rovina tutto lasciando tutto immutato», annunciati da Jacques Derrida e da Maurice Blanchot. Lo stupore è già attesa, è già cura, è già «debole forza messianica». Lo stupore è la tonalità più propria, emotiva e insieme conoscitiva, dell´apocalittico. Quel balenare fulmineo nel presente del passato non risarcito che congiunge il biblico «vieni e vedi» del Veggente di Patmos alla benjaminiana porticina dell'attimo che, come l'occhio stupito, rimane sempre spalancata sulla venuta del Messia. Ma lo stupore è anche quella pensosa perplessità, tutt'altro che rassegnata, che distingue il messianismo apocalittico di Benjamin dalla baldanzosa fiducia nello «spirito dell'utopia» di Ernst Bloch, per cui, ai margini bruni della catastrofe, sorge sempre il luogo del «novum», dove la speranza potrà costruire nell'azzurro.