mercoledì 9 febbraio 2005

dagli USA

Corriere della Sera 9.2.05
«La nostra nazione è la massima forza del bene ...
«La nostra nazione è la massima forza del bene mai apparsa nella storia» George W. Bush
Crawford, Texas, 31 agosto 2002


Diversamente da quanto accade a molti altri abitanti della Terra, la maggior parte degli americani non riconosce - o non vuole riconoscere - che gli Stati Uniti d’America dominano il mondo per mezzo della forza militare. A causa del riserbo governativo, essi perlopiù ignorano il fatto che il loro Paese presidia militarmente il globo. Non capiscono che la vasta rete di basi militari americane sparse in tutti i continenti, Antartide esclusa, costituisce di fatto una nuova forma di impero.
Il nostro Paese ha attualmente ben più di mezzo milione di soldati, spie, tecnici, insegnanti, dipendenti e operatori civili dispiegati all’estero, nonché poco meno di una dozzina di task force navali negli oceani e nei mari di tutto il mondo. Gestiamo numerose basi segrete al di fuori dei nostri confini per controllare quel che la gente di tutto il mondo - cittadini americani compresi - dice e comunica, per fax o via email. Le nostre installazioni militari e di intelligence generano profitti per le industrie civili, che progettano e producono sistemi d’arma per le forze armate o prendono servizi in appalto per la costruzione e la manutenzione di avamposti lontanissimi.
Uno dei compiti di queste ditte appaltatrici consiste nel fornire ai membri dell’impero in uniforme alloggi accoglienti, cibo ottimo e abbondante, svago e confortevoli villaggi-vacanze alla portata delle loro tasche. Interi settori dell’economia americana hanno finito per dipendere dalle commesse militari. Alla vigilia della nostra seconda guerra in Iraq, ad esempio, il dipartimento della Difesa ha ordinato 273.000 confezioni di crema solare Native Tan (protezione 15) - un quantitativo triplo rispetto a quello ordinato nel 1999 - che hanno tutta l’aria di essere un regalo al fornitore, la Control Supply Company di Tulsa, Oklahoma, e alla sua subappaltatrice, la Sun Fun Products di Daytona, Florida.
Nei quasi cinquant’anni di equilibrio tra le superpotenze, gli Stati Uniti hanno sempre negato che le loro attività potessero costituire una forma di imperialismo. Le nostre erano semplici reazioni alla minaccia dell’«impero del male» sovietico e dei suoi satelliti. Solo con estrema lentezza noi americani ci siamo resi conto del ruolo sempre più importante assunto dalle forze armate nel nostro Paese e dell’erosione dei fondamenti della nostra repubblica costituzionale per mano del potere esecutivo, vera e propria «presidenza imperiale». Eppure, neanche ai tempi della guerra del Vietnam e degli abusi noti come «scandalo Watergate» questa consapevolezza ha acquistato una spinta sufficiente a invertire il trasferimento di poteri (indotto dalla Guerra fredda) dalle mani dei rappresentanti eletti dal popolo a quelle del Pentagono e delle agenzie di intelligence, tra cui, in primo luogo, la Central Intelligence Agency.
Nel primo decennio seguito alla fine della Guerra fredda, abbiamo promosso diverse azioni miranti a perpetuare ed estendere il nostro potere globale - inclusi guerre e interventi «umanitari» a Panama, nel Golfo Persico, in Somalia, ad Haiti, in Bosnia, in Colombia e in Serbia - mantenendo al contempo in Asia orientale e nel Pacifico la stessa presenza militare dei tempi della Guerra fredda. Agli occhi dei propri cittadini, gli Stati Uniti sono rimasti, nella peggiore delle ipotesi, un impero informale. In fondo, non avevano colonie, e le loro forze armate erano dispiegate nel mondo solo per garantire la «stabilità» e la «sicurezza di tutti» o per promuovere un ordine mondiale democratico, fondato su libere elezioni e sull’«apertura dei mercati» secondo il modello americano.
Gli americani amano ripetere che il mondo è cambiato per effetto degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 al World Trade Center e al Pentagono. Sarebbe più corretto dire che quegli attacchi hanno prodotto un pericoloso cambiamento nel modo di pensare di alcuni nostri leader, i quali hanno cominciato a considerare la nostra repubblica alla stregua di un vero e proprio impero, una nuova Roma, il più grande colosso della storia, non più vincolato al diritto internazionale, alle preoccupazioni degli alleati o a limiti di sorta nel ricorso alla forza militare. Gli americani erano perlopiù all’oscuro delle ragioni per cui erano stati attaccati e il Dipartimento di Stato cominciava a sconsigliare il turismo in una lista di Paesi sempre più numerosa. («Perché ci odiano?», ci si lagnava di frequente nei talk show, e la risposta solitamente era: «Invidia».) Un numero crescente di persone, però, ha cominciato a un certo punto a cogliere quel che gran parte dei non americani già sa, per averlo sperimentato nell’ultimo mezzo secolo, e cioè che gli Stati Uniti sono qualcosa di diverso da quel che affermano di essere: sono un moloc militare che punta a dominare il mondo.
Gli americani, forse, preferiscono ancora ricorrere a eufemismi come «unica superpotenza», ma dall’11 settembre il nostro Paese ha subito una trasformazione - da repubblica a impero - che potrebbe anche rivelarsi irreversibile. All’improvviso, sollevare obiezioni contro la «guerra al terrorismo» dell’amministrazione Bush è diventato un comportamento «antiamericano», per non parlare della guerra all’Iraq o all’intero «asse del male» o, addirittura, agli oltre sessanta Paesi che - secondo il presidente e il suo segretario alla Difesa - ospitavano cellule di Al Qaeda ed erano perciò considerati bersaglio legittimo di interventi unilaterali americani... I media si sono lasciati indurre all’utilizzo di espressioni asettiche tipo «danni collaterali», «cambio di regime», «combattenti illegali» e «guerra preventiva», come se queste bastassero a spiegare e a giustificare quel che stava facendo il Pentagono. Al contempo, il governo era strenuamente impegnato a evitare che la Corte penale internazionale potesse sognarsi di esaminare accuse di crimini di guerra contro ufficiali Usa.
Il raggio d’azione dell’impero americano è globale: nel settembre del 2001, il Dipartimento della Difesa contava almeno 725 basi militari americane al di fuori del territorio degli Stati Uniti. In realtà sono assai più numerose, perché in molti casi operano all’interno di altre strutture, in modo informale o sotto coperture di vario genere. E altre ne sono state create dal giorno in cui questi dati furono diffusi. Il paesaggio di questo impero militare è, per la maggior parte degli americani di oggi, inconsueto e fantastico quanto lo erano il Tibet o Timbuktu per gli europei del XIX secolo. Tra gli ultimi presidi acquisiti figurano la base aerea di al-Udeid, nel deserto del Qatar, dove diverse migliaia di americani - uomini e donne - vivono in tende dotate di aria condizionata, e la stazione aeronavale dell’isola di al-Masirah, nel Golfo di Oman, dove l’unico svago è il wadi ball , un incrocio tra pallavolo e football. Ci sono, però, anche costosi presidi permanenti creati tra il 1999 e il 2001 in posti improbabili quali il Kosovo, il Kirghizistan e l’Uzbekistan.
Il moderno impero di basi americano prevede anche i suoi luoghi di svago e di evasione, analoghi a quelle cittadine collinari dell’India settentrionale dove gli amministratori del raj britannico andavano per riposarsi e divertirsi nella stagione più calda. L’equivalente moderno di Darjeeling, Kalimpong e Srinagar è rappresentato dal centro vacanze sciistico delle forze armate USA a Garmisch, nelle Alpi bavaresi, dai loro lussuosi hotel nel centro di Tokio e dai 234 campi da golf per soli militari americani che esse gestiscono in tutto il mondo.
Come la maggior parte degli americani che non hanno nulla a che fare con le forze armate, anch’io avevo prestato ben poca attenzione al nostro impero di basi militari finché, nel febbraio del 1996, non visitai per la prima volta quella che di fatto è una colonia militare americana: la piccola isola giapponese di Okinawa, da noi occupata nel 1945 e mai più abbandonata. A seguito dello stupro di una dodicenne di Okinawa a opera di due marines e un marinaio americani, fui invitato dal governatore dell’isola, Masahide Ota, a parlare del problema costituito dalle nostre basi. Visitai il villaggio di Kin - quasi interamente fagocitato dalla base dei marines di Camp Hansen, dove si era verificato il caso di stupro - ed ebbi alcuni colloqui con alcuni funzionari locali. Tornai a casa profondamente turbato sia dall’ostilità degli abitanti di Okinawa sia dal fatto che nessuna strategia americana seria potrebbe giustificare il dispiegamento di trentotto diverse basi che occupano il 20 per cento migliore dell’intera isola.
Nel 1967, data la mia competenza accademica in questioni cinesi, divenni un consulente della Cia in incontri che si svolgevano due volte l’anno a Camp Peary, Virginia, a casa dell’ex direttore Allen Dulles. Compresi poco a poco che alla Cia era la coda a muovere il cane, e non viceversa. In altre parole, erano le operazioni segrete, non la raccolta e l’analisi di informazioni, la vera specialità dell’America. Durante la Seconda guerra mondiale, William J. Donovan aveva fondato l’Office of Strategic Services, precursore della Cia. Solo in seguito venni a sapere che «secondo una ricostruzione diffusa all’interno della Cia circa l’impronta lasciata da Donovan sull’agenzia stessa, egli considerava l’analisi di intelligence un ottimo paravento per le operazioni sovversive all’estero. Stratagemma rivelatosi più volte utile nel corso degli anni».
È tutta qui la storia dei preziosi contributi offerti con la mia consulenza: un’esperienza che mi ha reso immune da qualsiasi inclinazione a credere che il governo tenga i segreti per motivi di sicurezza nazionale. Le agenzie usano il segreto per proteggere se stesse dalle indagini del Congresso o da rivali politici o burocratici presenti nelle istituzioni federali. I veri segreti non necessitano di copertura alcuna. Vengono semplicemente tenuti come tali da leader prudenti. Si noti che nel settembre 2002, mentre l’amministrazione Bush terrorizzava quotidianamente il mondo con dichiarazioni sulle armi segrete di Saddam Hussein e sulla necessità di un’invasione preventiva dell’Iraq, la Cia rivelava che, riguardo all’Iraq, non esistevano stime di intelligence in tema di sicurezza nazionale e che da più di due anni a nessuno era venuto in mente di prepararne.
Parte integrante della crescita del militarismo negli Stati Uniti, la Cia si è trasformata nell’esercito privato del presidente, da utilizzare nel quadro di programmi segreti che egli desidera siano realizzati (come in Nicaragua e in Afghanistan negli anni Ottanta). In questa luce è facile capire perché John F. Kennedy fosse un così avido lettore delle avventure di James Bond scritte da Ian Fleming. Nel 1961, Kennedy considerava Dalla Russia con amore uno dei suoi libri preferiti. Evidentemente invidiava il Dottor No e il capo della Spectre, che avevano entrambi a disposizione forze paramilitari private pronte a eseguire qualsiasi loro ordine. Kennedy trovò le sue prima nella Cia - finché questa non gli procurò l’umiliazione nella fallimentare operazione della Baia dei Porci a Cuba - e poi nei berretti verdi.
Attualmente la Cia non è che una delle svariate unità di commando segrete gestite dal nostro governo. Nella guerra in Afghanistan del 2001, elementi paramilitari della Cia hanno operato a così stretto contatto con le unità speciali delle forze armate (berretti verdi, Delta Force eccetera) da rendere impossibile qualsiasi distinzione. Gli Stati Uniti hanno orgogliosamente ammesso che la loro prima vittima nell’invasione dell’Afghanistan è stata un agente della Cia.
A mio parere, la crescita del militarismo, della censura ufficiale e della convinzione secondo cui gli Stati Uniti non sarebbero più vincolati, come invece afferma il celeberrimo passo della Dichiarazione d’indipendenza, a «un dignitoso rispetto per le opinioni dell’umanità», è probabilmente irreversibile. Ci vorrebbe una rivoluzione per riportare il Pentagono sotto il controllo democratico, per abolire la Cia o anche solo per pensare di far rispettare l’articolo 1, sezione 9, proposizione 7 della Costituzione americana: «Nessuna somma dovrà essere prelevata dal Tesoro, se non in seguito a stanziamenti decretati per legge; e dovrà essere pubblicato periodicamente un rendiconto regolare delle entrate e delle spese pubbliche».
È questo l’articolo che conferisce potere al Congresso e fa degli Stati Uniti una democrazia. Esso assicura che i rappresentanti del popolo siano informati delle attività degli apparati dello Stato e autorizza una divulgazione completa dei documenti a esse relativi. Ebbene, per il dipartimento della Difesa e per la Cia, da quando esistono, questo articolo non è mai valso. Si è sempre applicata, invece, la politica del «non domandare, non rivelare». La Casa Bianca ha sempre tenuto segreti i bilanci delle agenzie di intelligence, mentre le truffe legate al bilancio della Difesa risalgono al Manhattan Project (Seconda guerra mondiale) e alle decisioni segrete di costruire le bombe atomiche e di impiegarle contro i giapponesi. Nel 1997, Robert Torricelli - allora senatore democratico del New Jersey - propose un emendamento al disegno di legge del 1998 in materia di Defense Authorization che prevedeva l’accesso, da parte del Congresso, ai consuntivi di spesa per le attività di intelligence. La sua proposta fu bocciata, ma Torricelli riuscì a dimostrare che le agenzie di intelligence spendono più del prodotto interno lordo di Corea del Nord, Libia, Iran e Iraq messi insieme, e lo fanno in nome del popolo americano ma senza il suo consiglio o la sua supervisione.
Il grande sociologo dello Stato Max Weber disse che «tutte le burocrazie cercano di accrescere la superiorità di chi per professione è più informato. L’amministrazione burocratica tende sempre a essere un’amministrazione di "sedute segrete" (...). Messa di fronte a un parlamento, la burocrazia, grazie al suo infallibile istinto per il potere, contrasta ogni tentativo dell’assemblea elettiva di approfondire le proprie cognizioni servendosi di propri esperti e gruppi di interesse (...). La burocrazia predilige, naturalmente, un parlamento poco informato e, perciò, impotente».
Quella di Weber potrebbe essere la descrizione dell’America di oggi. Riguardo alla guerra in Afghanistan, le sole informazioni a disposizione dell’opinione pubblica e dei suoi rappresentanti provengono dal Dipartimento della Difesa. I militari sono diventati degli esperti nella gestione delle notizie. Dopo gli attentati dell’11 settembre, il governo ha cominciato a ridurre la disponibilità di informazioni a ogni livello, come, ad esempio, in merito alle accuse rivolte ai combattenti catturati in Afghanistan, ma anche altrove, e tenuti in condizioni di totale isolamento in una prigione del Pentagono a Cuba. I nostri giornali hanno preso ad assomigliare sempre di più a gazzette ufficiali; i telegiornali si sono semplicemente arresi, limitandosi a obbedire agli ordini della proprietà delle emittenti, mentre i due partiti politici fanno il possibile per superarsi a vicenda quanto a compiacenza nei confronti della Casa Bianca.
Mentre il militarismo, l’arroganza del potere e gli eufemismi necessari a giustificare l’imperialismo entrano fatalmente in rotta di collisione con la struttura di governo democratica dell’America e ne distorcono cultura e valori fondamentali, io comincio a temere per la sorte del nostro Paese. Se sto sopravvalutando la minaccia, verrò certamente perdonato, perché le generazioni future saranno felici del fatto che io mi sto sbagliando. Intravedo il rischio che gli Stati Uniti imbocchino una strada non dissimile da quella intrapresa dall’Unione Sovietica negli anni Ottanta. L’Urss è crollata per le contraddizioni economiche interne prodotte da tre ragioni fondamentali: la rigidità ideologica, l’eccessiva estensione dell’impero e l’incapacità di autoriforma del sistema. Poiché gli Stati Uniti sono molto più ricchi, potrebbe volerci più tempo perché degenerazioni simili seguano il loro corso. Le analogie, però, sono evidenti, e non sta scritto da nessuna parte che gli Stati Uniti, in quanto impero che domina il mondo, debbano durare in eterno.