mercoledì 9 febbraio 2005

i libertini

Corriere della Sera 9.2.05
La prestigiosa collana francese pubblica una raccolta di testi introvabili, dai saggi di Gassendi alle utopie di Cyrano de Bergerac
I libertini nella Pléiade. Ed è ancora scandalo


Chi è un libertino? La risposta dovrebbe tenere conto delle oscillazioni del significato di questa parola nei vari periodi della storia. Noi, ancora influenzati da un certo linguaggio apologetico, confondiamo i libertini con coloro che si sono dati alla bella vita, inseguendo piaceri e sensazioni epicuree, come il Don Giovanni lasciatoci da Wolfgang Amadeus Mozart. Lo hanno anche fatto, ma non furono soltanto dei rapaci di alcove. Prima di assumere un valore filosofico - e questo avvenne in Francia nel ’600 - il termine cominciò a dar notizie di sé con il diritto romano, per il quale «libertinus», derivazione aggettivale da «libertus», significava «colui che è stato reso libero». Poi, con l’aiuto della solita ironia della sorte, l’avventura moderna della parola cominciò nel 1477 con una traduzione apparsa a Lione del Nuovo Testamento di Guiars des Moulins: in un versetto degli Atti (6,9) il latino «libertinorum» della Vulgata è tradotto con «libertiniens». Con il riformatore Giovanni Calvino si fa un passo avanti: definirà tali i sostenitori francesi del panteismo; ci vorrà poi ancora un secolo per intenderli come «liberi pensatori» e un altro ancora per vedere nei libertini i sostenitori della tolleranza religiosa. Quando alla fine del ’700 a Praga va in scena il ricordato Don Giovanni mozartiano, questa categoria di trasgressori intellettuali era un ricordo e la si confondeva ormai con i femminieri. Eppure è ad essi che il mondo moderno deve la rinascita della ragione, nonché il primo significativo distinguo tra morale e religione; ed è ancora a questi nemici filosofici dei vincoli morali che si deve guardare per comprendere la nascita dell’atteggiamento laico. Augusto del Noce in un saggio del 1952, La crisi libertina e la ragion di Stato , vide in tale corrente la vera rottura dell’unità storica tra il mondo antico-cristiano e la realtà moderna.
Si torna a parlare di libertini nel dibattito culturale europeo, soprattutto in Francia dove è scoppiata una polemica dopo la pubblicazione del secondo volume dell’ampia antologia, diretta da Jacques Prévot, Libertins du XVII siècle. Due densi tomi usciti nella «Bibliothèque de la Pléiade» di Gallimard, che hanno il merito di rimettere in circolazione testi difficilmente reperibili e di dar vita a nuove domande sul significato del libertinismo erudito del ’600. Ritornano così all’attenzione dei lettori libri come De la vertu des païens di La Motte le Vayer, disincantato viaggiatore e precettore di Luigi XIV, assertore di uno scetticismo radicale; oppure il sesto trattato dell’anonimo Theophrastus redivivus, dedicato alla vita secondo natura: il libro uscì nel 1659 ed è il primo testo scopertamente ateo del pensiero moderno (Tullio Gregory, che nel 1979 ha dedicato un saggio uscito da Morano a quest’opera, notò tra l’altro che essa «sottolinea il fallimento dei teologi»). E ancora: una parte dello scritto di Gassendi sulla filosofia di Epicuro o L’autre monde di Cyrano de Bergerac, vale a dire il viaggio utopistico negli Stati e negli imperi del sole e della luna, lavoro concepito per dar vita a una pungente satira sociale e politica. L’elenco degli autori antologizzati con opere o parti di esse - tra gli altri Naudé, Dassoucy, Bussy-Rabutin, Fontanelle, Bayle - e i criteri utilizzati nella scelta possono essere chiaramente discussi. Qualcuno si è lamentato dell’assenza di figure come François Bernier, viaggiatore e filosofo, altri hanno addirittura borbottato contro l’esclusione di drammaturghi particolarmente legati all’idea come Campistron e Palaprat. Non è nemmeno mancato chi ha sollevato obiezioni per l’assenza di Isaac La Peyrère, un ugonotto che proprio un libertino non era, ma che comunque aiutò la causa con il suo libro I preadamiti, uscito anonimo nel 1655: suscitò uno degli scandali più clamorosi del XVII secolo teorizzando l’esistenza di uomini vissuti prima di Adamo. Fu accusato di voler scardinare, con la sua balorda e stravagante idea, religione e teologia.
Dinanzi a questo lavoro, comunque, non è il caso di lamentarsi più del dovuto. Le oltre 3.600 pagine dei due volumi della Pléiade mettono a disposizione un materiale straordinario che l’editoria italiana può soltanto sognare, intenta com’è nella maggior parte dei casi a contenere costi e idee. Nelle pagine dei libertini c’è la prima vera palestra dell’intelligenza moderna, dove la ragione discute senza porsi soverchie domande i principi di autorità e ripudia il senso del limite; o meglio grazie ad essi si attua un cambiamento epocale: prima gli uomini avevano dei doveri soprattutto verso Dio e dopo cominceranno ad averne anche con la ragione. Del resto, gli italiani identificabili in questa categoria (tra cui Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Galileo Galileo) rappresentano a loro volta una fucina filosofica della modernità. Si pensi, per fare il solito esempio, che il termine «alienazione» - proprio quello che ha stordito tanti lettori da Hegel al Sessantotto, facendoli passare da Marx e da Freud - è stato coniato proprio da Campanella nella sua Metafisica. Scrive testualmente il frate che riuscì a scampare al rogo: «Scire est alienari», ovvero «conoscere è alienarsi»; per poi precisare: «Alienarsi è impazzire, perdere il proprio essere per acquistarne uno estraneo».
Infine vale la pena sottolineare che grazie ai libertini è cambiato definitivamente il rapporto tra uomo e potere. È con essi che il vecchio regime, basato su trono e altare e sul loro reciproco riconoscimento, comincia il suo ultimo atto. È anche vero che l’urgenza di una moralità politica e giuridica venne ispirata forse dalle influenze del rinato stoicismo, come ben mostra Denise Carabin nel saggio Les idées stoïciennes dans la littérature morales des XVI et XVII siècles (appena pubblicato a Parigi da Honoré Champion, pp. 1008, euro 145), ma è certo che con i libertini entrano in gioco nel rapporto tra chi comandava e chi doveva obbedire i moderni valori, quali il costante riferimento alla natura, la condanna della guerra, la cultura dell’antieroismo, soprattutto il continuo appello alla ragione. Non è un luogo comune credere che la Rivoluzione francese sia stata figlia dell’Illuminismo, ma occorre aggiungere che per il suo concepimento furono necessari questi pensatori, che non riuscirono a creare una scuola ma indubbiamente cambiarono la visione del mondo. Né è stravagante sostenere che senza i filosofi in questione le moderne manifestazioni ecologiche, o per la pace o per entrambe le cose, sarebbero state ben diverse e più povere di forza. Infine i libertini capovolsero il rapporto dell’uomo con il proprio corpo. Non a caso, il Don Giovanni di Molière comincia con un elogio del tabacco recitato da Sganarello.
E pensare che cinque secoli prima dell’avvento dei libertini, San Pier Damiani nel De divina omnipotentia affronta alle prime righe un quesito di San Gerolamo: «Per quanto Dio tutto possa, non può far risorgere una vergine dalla caduta». Qualche capitolo più in là la risposta del filosofo medievale è secca: «Non si può attribuire un’impotenza a colui che può tutto», e di conseguenza «Dio può senza dubbio ridonare la verginità dopo la caduta». I nostri pensatori si guardarono bene dall’affrontare un simile problema, meno che mai di risolverlo con l’aiuto della fede o della ragione. Il corpo, appunto, ormai era altra cosa. Anche perché il Don Giovanni di Mozart, che più o meno continuava a rappresentare codesta categoria prima che la ghigliottina cominciasse il suo lavoro, farà conoscere al mondo, tramite il catalogo cantato da Leporello, «le donne che amò il padron mio». Un rapido calcolo ci dirà che erano migliaia. E ad esse siamo sicuri che il dissoluto cavaliere non abbia posto quesiti intorno al pudore o alla eventuale verginità, anche se il libretto dell’opera ripete ostinatamente ancor oggi che «sua passion predominante è la giovin principiante».