mercoledì 16 marzo 2005

Edgar Allan Poe

il manifesto 16.3.05
Nostro zio Edgar Allan Poe
Una raccolta di interventi sullo scrittore americano curati da Roberto Cagliero
CARLO MARTINEZA

Aquasi duecento anni dalla nascita, Edgar Allan Poe non soltanto continua ad attrarre magneticamente lettori, autori, registi cinematografici e interpreti vari della sua opera, ma torna alla ribalta con una sorprendente attualità. La tradizione ci ha fatto pervenire un Poe incapsulato fra una serie di polarità: inventore del genere horror, che mette in scena gli stati allucinatori del pensiero, ma anche raziocinante orditore di misteri ed enigmi, dai quali trae origine il genere della detective fiction; poeta maledetto tardo-romantico e geniale anticipatore del postmoderno; prodotto della e per la massa e raffinato esteta; autore sublime e kitsch, dotato di splendido acume critico, o farsesco giullare delle lettere americane. A differenza di quanto fanno le figure di investigatore da lui inventate, troppo spesso i critici hanno risolto quello che Vernon Louis Parrington negli anni `20 del `900 chiama «il problema Poe» schivandolo, ignorandone quasi l'esistenza, come avviene nel celebre Rinascimento americano di Matthiessen, per il quale Poe non avrebbe alcun sostanziale contributo da offrire; oppure attraverso lo scherno con cui, ancora in anni recenti, tenta di liquidarlo uno fra i più illustri critici americani contemporanei quale è Harold Bloom. Ben diverso è stato il successo che l'autore ha riscosso su questa sponda dell'Atlantico. I francesi, soprattutto, hanno dato vita a un Poe leggendario, quasi mitico, creazione in larga parte - da Baudelaire fino a Lacan - di un'immaginazione poetica e critica, che ben poco collima con l'autore. Eppure, a differenza dei critici americani, i francesi hanno intuito come la scrittura di Poe richieda di farsi usare, imperniata com'è su un'estetica e su un'etica del consumo e del riutilizzo. Il racconto «L'uomo che fu consumato» - in cui il personaggio di un imponente generale si rivela alla fine nulla più di un fagotto di protesi montate su un'eterea voce - anticipa sotto forma di folgorazione il legame fra consumo, corpo e scrittura, che Poe lavora in maniera da prefigurare la via di fuga verso processi di virtualizzazione.
Cade in questo contesto la collettanea di interventi titolata Fantastico Poe, appena usciti per la cura di Roberto Cagliero (Ombre Corte, 2004, Euro 18,00), che costituisce il segno di un nuovo interesse attorno allo scrittore. Nello splendido saggio che apre il volume, Gerald J. Kennedy spiega l'attualità di Poe alla luce della crisi del nazionalismo. Allergico alle spinte scioviniste della sua epoca, l'autore americano disgrega il preteso monologismo di quella fase della storia del suo paese e rappresenta oggi un crocevia obbligato per gli studi transatlantici, e gli studi transnazionali, impegnati a rileggere i rapporti fra cultura e stati-nazione. Gli «Incubi nazionali di Poe», come recita il titolo, hanno a lungo turbato schiere di critici per il loro ostinato rifiuto di servire in guisa di collante ideologico dell'entità nazione.
In un momento in cui i problemi relativi al sistema dell'informazione e del discorso mediatico stanno al cuore tanto della vita sociale quanto del dibattito culturale, sembra opportuno rileggere il Poe teorico della nozione di effetto del testo: l'avere sostituito alla mitologia dell'origine la retorica dell'effetto ha di fatto schiuso le porte della modernità assai prima di quanto non sia avvenuto, poi, con le varie correnti filosofiche impegnate nella decostruzione. Ecco allora l'enfasi sulla forma breve, sulla stretta relazione che intercorre tra mezzo e messaggio, e infine, soprattutto, sull'ambiguo rapporto che sussiste fra cronaca e fiction, finzione/narrazione. Anche in questo caso, la riflessione di Poe è un passaggio obbligato per qualunque discorso relativo ai media studies, come illustra il saggio di Oliviero Bergamini, che inquadra il tentativo di Poe di «diventare un critico professionista di livello assoluto» nel contesto storico del giornalismo del tempo.
A rileggere poi le figure un po' consunte dei suoi vampiri e morti viventi, ci sorprendiamo a scoprire la straordinaria attualità con cui Poe narra - attraverso l'orrore - l'abuso, connettendo il piano psicopatologico con quello politico-ideologico. Giovanni Bottiroli propone un'originale rilettura della figura del doppio, in accordo alla quale Poe, alle soglie della modernità, avrebbe «messo in scena l'ambivalenza, l'odio verso di sé, verso la propria incapacità a coincidere con il proprio Io.
Identificando nel paradosso la chiave retorico-stilistica del racconto, «La logica del diviso in William Wilson» richiama il titolo di un interessante libro in cui Remo Bodei indaga altri apparenti paradossi, quelle che chiama Le logiche del delirio: perché, se esiste un autore che ben prima di Freud ha intuito il nesso fra logica, delirio e sfera politica, questi è senza dubbio Poe. Certo, bisogna riconoscerlo: era un indisciplinato. Non soltanto nel senso comune del termine, testimoniato dalla sua tragica e prematura fine da alcolizzato, ma nel senso che la sua scrittura provoca e sfida continuamente il discorso disciplinare.
Se dalla nostra posizione sempre più periferica non possiamo rivolgerci a Poe con l'appellativo di «nostro cugino», come lo chiamò nel 1949 il grande critico americano Allen Tate, possiamo però ricorrere al linguaggio delle parentele per pensarlo come uno zio, certamente perturbante, da contrapporre al celebre Uncle Sam che proprio negli stessi anni stava assurgendo a «logo» della nazione intera.