Le trattative segrete per salvare lo statista
emergono nuovi documenti
Lo storico Agostino Giovagnoli ha consultato le carte di molti notabili dc: si teorizzò addirittura una fermezza flessibile«Mi domando se stiamo facendo veramente tutto per uscire da questa tragica situazione». Il dubbio lacerante espresso a porte chiuse da Zaccagnini il 13 aprile del 1978, al termine d´una riunione di direzione, sintetizza i sentimenti contrastanti che animarono il vertice democristiano lungo i cinquantacinque giorni del sequestro Moro. Una vicenda che ha segnato la storia della Repubblica, ma che finora non era stata raccontata con gli strumenti propri della storiografia. Si è accinto all´opera, in un volume che uscirà a fine marzo dal Mulino (Il Caso Moro. Una tragedia repubblicana, pagg. 382, euro 22), lo storico Agostino Giovagnoli, studioso di ispirazione cattolica, allievo di Pietro Scoppola e autore di originali interventi sugli anni Settanta.
Il giudizio severo di Cossutta e le aperture di Terracini criticate da Berlinguer
Benigno Zaccagnini in privato si diceva pronto a tentare qualcosa per l´amico
Se non fu liberato è perché le Br non vollero cogliere i segnali di apertura
Fondato su un´ampia mole di materiali anche inediti - fonti giudiziarie e parlamentari, le carte della Democrazia Cristiana, i verbali del Pci, gli archivi personali di protagonisti quali Giulio Andreotti e Amintore Fanfani - il libro ha il merito di fornire spessore documentale a una vicenda rimasta per certi versi indefinita, ridimensionando la distanza comunemente accreditata tra fautori della fermezza e sostenitori della trattativa. Un tema, questo della diplomazia clandestina con i terroristi, oggi drammaticamente riproposto dalla guerra in Iraq. Pur nella diversità delle posizioni, sostiene Giovagnoli, le differenze tra i due «partiti» si fecero nel tempo meno marcate. «Le ragioni dell´etica influirono sulle dinamiche della politica. Nella Democrazia Cristiana si cominciò a riflettere su come aprire trattative che non sembrassero tali o compiere gesti umanitari che risultassero però politicamente accettabili alla Brigate Rosse. E anche nel Pci si affacciò l´esigenza di tenere conto dell´appello democristiano a una maggiore flessibilità».
In sostanza - è la tesi di Giovagnoli - se Moro non fu salvato è perché le Bierre non vollero o non furono in grado di percepire tutti i segnali di apertura che venivano dalle file scudocrociate. La logica della violenza finì per prevalere sulle ragioni della politica. In questo senso la ricostruzione degli eventi contrasta con una memoria diffusa che attribuisce al Biancofiore un ruolo ambiguo o quanto meno confuso. «Le conoscenze acquisite finora», sostiene lo studioso, «indicano che Moro è morto perché le Brigate Rosse avevano deciso di ucciderlo».
Figura emblematica della posizione espressa dalla formula «fermezza flessibile» (tipico stilema democristiano fondato su un ossimoro) fu quella di Benigno Zaccagnini, fin da principio lacerato tra la difesa della vita di Moro e la necessità di non piegare lo Stato democratico alle richieste delle Brigate Rosse. I documenti consultati da Giovagnoli mostrano il segretario della Dc privatamente proteso alla salvezza dell´amico e disponibile a tutte le iniziative possibili, pubblicamente fermo nella linea dell´intransigenza. Un atteggiamento simile, pur con qualche significativa differenza, è presente anche in altri protagonisti, da Forlani a Cossiga, da Zamberletti a Donat-Cattin, da Fanfani - il più trattativista in casa democristiana - allo stesso Flaminio Piccoli, il quale, pur contrapponendosi al fervore fanfaniano, nell´ultima fase non ostacola il tentativo di dialogo con le Bierre.
Già nella Direzione del 16 e 17 marzo, all´indomani del sequestro, si comincia a discutere un´ipotesi ritenuta probabile: la richiesta di scambiare Moro con qualche brigatista detenuto. Giovagnoli valorizza «il sorprendente intervento» di Taviani, il quale nei giorni del rapimento del giudice Sossi s´era distinto per la più assoluta intransigenza. Questa volta, invece, sostiene apertamente che «non si può avere eguale atteggiamento per un uomo insostituibile come Moro». Ma è alla fine di marzo che nelle sedi riservate s´infittisce la discussione sulla possibilità dello scambio tra prigionieri. Annota Giovagnoli: «Le prime reazioni furono possibiliste, specie intorno a Zaccagnini. Tra i favorevoli figura Riccardo Misasi. In seguito il segretario avrebbe accettato il rifiuto dello scambio. Fu probabilmente Piccoli a far rimandare ogni pronunciamento immediato».
Interessante la discussione che parallelamente si svolge a Botteghe Oscure. Seppure uniti nel segno della fermezza, al giudizio assai severo di Cossutta (che critica «la debolezza umana di Moro») reagisce Natta: «È bene non dirle queste cose, perché proprio nel nostro movimento uomini illustri sono stati costretti a terribili confessioni». Controcorrente la posizione di Umberto Terracini, favorevole al dialogo con i brigatisti. Un orientamento divenuto pubblico nel cosiddetto «appello dei vescovi» pubblicato da Lotta Continua.
Nel doppio binario di «tattica possibilista» e «strategia della fermezza» prosegue intanto la linea della Dc, che in un incontro al vertice il 30 marzo rinsalda il patto con il Pci, ma senza mai escludere «qualche contatto» con i terroristi. Passano quattro giorni e in una nuova riunione tra i segretari dei partiti di maggioranza, cui partecipano anche Andreotti e Cossiga, Zaccagnini dice di condividere la linea della fermezza, «ma non su tutto»: il cuore del segretario batte decisamente per la salvezza del prigioniero. Sempre in questa sede, il premier non esclude uno scambio in denaro: nessuno si oppone. Scrive Giovagnoli: «Tutti i leader dei partiti di governo erano dunque favorevoli al pagamento di un riscatto, anche se era evidente che i brigattisti lo avrebbero utilizzato per finanziare ulteriori atti di terrorismo».
Seguiranno di lì a poco i tentativi di mediazione esercitati da Amnesty International - appoggiata segretamente da Fanfani - e soprattutto dal Vaticano, con il sostegno di Andreotti. Più tardi l´appello della Caritas Internationalis, dietro cui si celano Fanfani e il premier. Tutti rimasti senza esito.
La diplomazia sotterranea è destinata a infittirsi ai primi di maggio, dopo la condanna a morte del prigioniero. L´intensa attività di tessitura tra i partiti di maggioranza e soprattutto Bettino Craxi, assurto a paladino della trattativa, ha lo scopo di verificare se vi siano margini per un «atto umanitario»: sempre però evitando il cedimento al terrorismo. Se Craxi invita spavaldamente a rompere con le regole e la legalità - anticipando così un costume che caratterizzerà la «seconda Repubblica», formula usata dallo stesso segretario socialista - i leader dc sembrano più cauti, pur non lesinando ripetuti segnali di apertura: prende corpo il progetto della grazia che il Quirinale è invitato a concedere a un detenuto brigatista. È proprio la mattina del 9 maggio che dalla direzione democristiana sarebbe dovuta arrivare la parola definitiva. Troppo tardi: Moro è già stato ucciso. La tragedia repubblicana ormai compiuta.