domenica 6 marzo 2005

Galimberti
anima e corpo

La Repubblica 5.3.05
Come l' occidente ha guardato e travisato il corpo
L'invenzione dell'anima
UMBERTO GALIMBERTI
Lunedì al Teatro Eliseo di Roma un intervento che qui anticipiamo La nostra identità è qualcosa che va al di là della carne e del sangue Fu nel 1600 con la nascita della scienza moderna che si parlò ormai di 'organismo' Analizzare gli organi ci consente di spiegare dei fatti ma non di cogliere i reali significati
Organismo da sanare, forza lavoro da impiegare, carne da redimere, inconscio da liberare, supporto di segni da trasmettere, password per la ricognizione della nostra identità, il corpo è sempre stato una superficie di scrittura, dove le varie epoche e i vari saperi hanno impresso il loro sigillo. Luogo e non-luogo del discorso, il corpo opera un taglio geologico della storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Per gli antichi greci, ad esempio, non c'era un'anima dentro il corpo. Per Omero l'anima è l'occhio che vede, l'orecchio che sente, il cuore che batte, il corpo vivente insomma, che è diverso dal cadavere perché è «espressivo» e non «rappresentativo» di un teatro che si svolge alle sue spalle, nell' anima appunto, come noi oggi crediamo. L'arrestarsi di Penelope sulla soglia che immetteva nella sala profanata dai proci, il suo coprirsi il volto col fulgido velo, il suo prorompere in lacrime prima di rivolgersi al divino cantore non «esprimono» la fedeltà di un'attesa, ma «sono» la fedeltà di un' attesa. I cenci insanguinati di Ulisse raccolti intorno ai lombi, le sue cosce agili e forti e l' ampie spalle e il vasto petto ignudo e le braccia robuste lorde di sangue non «esprimono» la forza della sua vendetta, ma «sono» la forza della sua vendetta, e quindi la risposta alla fedeltà di quell'attesa. Il linguaggio di Omero è corporeo non perché Omero non è ancora giunto alla scoperta dello psichico, ma perché non ha ancora ridotto il corpo a materia inerte a disposizione dell'anima, a mero segno fisico di trascendenti significati psichici. Per questo Omero può distinguere il corpo dal cadavere, mentre Platone è costretto a identificarli e a concludere che: «Il corpo è per noi una tomba». Inaugurando la filosofia, infatti, Platone ritenne che non ci si poteva fidare della conoscenza sensibile fornita dai sensi del corpo, perché i corpi sono uno diverso dall' altro, invecchiano, si ammalano, si alterano, per cui le informazioni che essi forniscono non sono affidabili per costruire un sapere oggettivo. Fu così che Platone introdusse la parola «anima», in greco psyché, capace di costruire un sapere valido per tutti con i soli costrutti matematici e ideali che prescindono dall' approssimazione della materia. Si tratta quindi di un'anima che non designa tanto la nostra coscienza o la nostra psiche, ma la nostra capacità di astrarre dal sensibile, cosa che i bambini non sono capaci di fare, ma poi col tempo e con lo sviluppo delle capacità cerebrali imparano. Anche la tradizione giudaico-cristiana non dispone del concetto di anima. La parola ebraica nefes, poi tradotta in greco psyché e in latino con anima, significa semplicemente la «vita del corpo». Non si spiegherebbero altrimenti espressioni quali: «Il sangue questo è la nefes», oppure: «Occhio per occhio, dente per dente, nefes per nefes». Non si capirebbe cosa intende Sansone quando, sul punto di demolire le colonne del tempio, dice: «Muoia la mia nefes con tutti i filistei», o la proibizione al Nazireo di toccare per tutto il tempo della sua consacrazione la nefes met degli animali, che evidentemente non è l' anima mortale, ma il cadavere. E qui gli esempi possono continuare numerosi. Valga per tutti l' atto di fede dei cristiani che, quando recitano il Credo, non dicono di credere nell'immortalità dell'anima, ma nella resurrezione dei corpi. Fu nel 1600, con la nascita della scienza moderna, che, per esigenze scientifiche, il corpo fu ridotto a «organismo», a pura quantità, a semplice sommatoria di organi, perché solo così poteva essere trattato come tutti gli oggetti da laboratorio su cui ha potere la scienza. Nacque la medicina moderna che, come tutti i malati sanno, non conosce l'uomo che ha di fronte, ma solo il suo organismo. Un secolo dopo, per le malattie di cui non si reperiva traccia nell' organismo, nacque una nuova scienza: la psichiatria, non per lo studio della psiche, ma per dare una collocazione scientifica a quel «morbus sine materia» che era poi la malattia in seguito detta «mentale», perché, nel corpo ridotto a organismo, non si reperiva la traccia somatica. Ecco come è nata l'anima, la psiche, la coscienza. Queste parole, poi credute realtà, sono nate per sopperire a un deficit metodologico, per spiegare cioè tutto quello che non si riusciva a spiegare dopo aver ridotto, per le esigenze della scienza, il corpo a pura quantità, a semplice sommatoria di organi. Ora che le parole «anima», «coscienza», «mente» sono entrate nel nostro linguaggio e si sono radicate nelle nostre abitudini linguistiche, usiamole pure, ma ricordando la loro genesi, evitiamo di pensarle come «entità» o come «sostanze» che sopravvivono alla morte del nostro corpo. Perché se proprio vogliamo dare alla parola «anima» un significato, l'unico possibile è quello che nomina il rapporto che il nostro corpo (e non il nostro organismo) ha con il mondo, essendo il nostro un corpo impegnato in un mondo dove veicola le sue intenzioni e da cui riceve risposte che poi rielabora per ulteriori azioni, finché è corpo vivente. La lingua tedesca chiama il corpo vivente «Leib», una parola che ha parentela con amore (Liebe) e vita (Leben) e l' organismo «corpo-cosa (Korper-ding)». Questa distinzione va tenuta ferma per evitare di ridurre il corpo a quell' organismo a cui la scienza medica, per le esigenze del suo metodo, è costretta ad attenersi. Lo statuto del nostro corpo, infatti, non è lo statuto della cosa, il suo «comportamento» non è un «movimento» analogo a quello delle cose, e accostare il corpo con le metodiche delle scienze della natura ci consente di spiegare dei «fatti», ma non di comprendere dei «significati». A questo livello, infatti, la collera differisce dalla gioia solo per una maggior intensità del ritmo respiratorio, del tono muscolare, dello scambio biochimico e della pressione arteriosa, ma ciò non autorizza, come ci ricorda Sartre, a concludere che il collerico è un arcicontento, così come non possiamo dire che un riso di gioia è identico a un riso isterico, perché entrambi impegnano la stessa area muscolare nelle stesse modalità. Rifiutare di risolvere l'ordine dei significati nell'ordine dei fatti significa rifiutare di identificare la corporeità che l'esistenza vive con l'organismo che la scienza, per le sue esigenze metodologiche, descrive. Non è infatti lo sguardo che vede qualcosa per me o il braccio che si protende per afferrare qualcosa per me, ma sono io questo sguardo che ispeziona, così come sono io questo braccio che afferra. L'io, cioè non si distingue dal corpo, non dispiega un'esistenza in cui il corpo compare come uno strumento. Io sono davanti al mondo, non davanti al mio corpo, per questo si dicono «alienati» coloro che vivono il corpo come «altro» da sé, come qualcosa del mondo, da cui l'io è diviso. La mia coincidenza col corpo si esprime in quel benessere che avverto quando aderisco al mio stato corporeo, lasciandomi invadere dalla calma, dal silenzio, ascoltando e ascoltandomi vivere. Questa aderenza allo stato corporeo può essere interrotta dal dolore che, sordo e lancinante, si annuncia come qualcosa che non riesce a confondersi con me, né a trattenersi in una delimitata regione dell'organismo. Per l'esperienza che ne ho, non è il mio stomaco che soffre, ma è la mia esistenza che si contrae, tutto diventa urgente, pressante, il ritmo con cui si succedono le cose dice la mia impotenza a controllarle, e il mio dolore, che «fa corpo» con quel ritmo, mi costringe a sentire il mondo come incalzante e ossessivo. Non è una parte dell' organismo che soffre, ma è il rapporto col mondo che si è contratto, è la mia distanza dalle cose, la successione del tempo, le scansioni della mia esistenza. Come si diffonde l'eco, così mi invade il piacere che non può mai essere localizzato, delimitato a un punto del mio corpo. Il piacere, infatti, coinvolge l'esistenza nella sua totalità e la rende piacevole. Non è solo il mio corpo che sente, ma sono io che coincido pienamente con la sua sensazione, perché pienamente al mio corpo mi sono concesso. Il piacere di un bacio non è qualcosa che registra la mia mucosa, ma qualcosa che invade il mio essere. Sono io che assaporo la voluttà, o meglio ancora, il piacere mi fa assaporare nella voluttà il mio corpo, così come il dolore me lo allontana. Le labbra da cui nasce il piacere, nel piacere sono dimenticate o, come direbbe Sartre: «Passate sotto silenzio». Esse non attirano la mia attenzione, perché il mondo d' amore che esse richiamano e di cui si circondano incalza per chiedere la mia disponibilità, il mio abbandono a quella nuova presenza che un bacio ha fatto nascere, chiamando il mio corpo a un ordine di significati che prima di quel gesto erano insospettati. Se il corpo non è prima di tutto un campo di gioco di forze biologiche, ma un' originaria apertura al mondo, il modo con cui l' esistenza vive il proprio corpo rivela il modo con cui vive il mondo. Per questo non si deve parlare di conversioni o trasferimenti di conflitti psichici agli organi fisici, perché non ci sono due realtà, quella psichica e quella fisica, ma un'unica esistenza che dice nel corpo il proprio modo di essere al mondo. Finché non ci libereremo di quella mentalità dualistica che, accanto al corpo, colloca l'anima che Platone ha inaugurato per garantire l'oggettività del sapere, il cristianesimo ha ribadito per dare un supporto alla fede nell'immoralità, favorendo in questo modo la riduzione scientifica del corpo a materia organica, vivremo, separati dal nostro corpo, un'esistenza mancata.