mercoledì 18 maggio 2005

Friedrich Schiller

Corriere della Sera 18.5.05
Duecento anni fa moriva l’autore delle «Lettere sull’educazione estetica» e dell’«Inno alla gioia» musicato da Beethoven .
Convegni in tutta Europa
Schiller, genio classico della modernità anticlassica

Un’idea, per essere efficace ed agire sulla realtà, deve diventare un’energia. Infatti a un agorafobo non basta sapere, razionalmente, per sfatare la sua angoscia e attraversare una piazza, che in essa non ci sono pericoli, ma ha bisogno che questa conoscenza sia divenuta sentimento spontaneo, vissuto con tutta la sua persona, anche con il corpo, e non solo nella sua mente. Questo vale per tutte le convinzioni, pensieri, stati d’animo e affetti di un individuo o di una collettività. A dire quella frase sull’idea che diviene energia, non è uno psicologo o un cultore contemporaneo delle scienze che da più di un secolo indagano e sbandierano l’inconscio, bensì un poeta classico morto duecento anni fa, Friedrich Schiller. Spesso glorificato e irrigidito nella formula del poeta della libertà e della nobile e astratta idealità, Friedrich Schiller si rivela invece sempre più come il tempestoso ma anche elusivo genio di una sconcertante modernità. Nato nel 1759 in una Germania ancora arcaicamente provinciale e frazionata in una miriade di staterelli quasi premoderni, e morto nel 1805 dopo aver visto la radicale trasformazione dell’Europa e della sua plurisecolare cultura tramite la Rivoluzione francese e l’ordine napoleonico, Schiller rappresenta - insieme a Goethe, al quale fu legato da stretta collaborazione e amicizia - l’emblema, fin troppo simbolico, del Classicismo tedesco, l’ultima stagione di cultura universale vissuta dall’Occidente. Essere uno dei due Dioscuri e quasi uno stilizzato busto marmoreo di questa altissima civiltà lo ha reso popolarissimo ma, forse, ha nuociuto alla comprensione della sua complessa inquietante grandezza; ha fatto di lui l’idolo, per generazioni ottocentesche, degli studenti tedeschi che vedevano in lui il poeta patriottico e lo ha reso sospetto ai seguaci della poesia pura come Benedetto Croce, diffidenti - nel suo caso a torto - verso ogni «poesia delle idee». Nietzsche, infastidito dal binomio «Goethe e Schiller» - che gli sembrava l’insegna di quel pathos tedesco da lui così odiato - ha avuto parole sarcastiche nei confronti di questo culto.
Genio del teatro, del quale ha avuto un intuito e un istinto come pochi altri autori al mondo, Schiller è certo anche il poeta della libertà, sin dal primo dramma, I masnadieri (1781), antitirannico e libertario, è il poeta di grandi e generose passioni, che non a caso hanno nutrito il melodramma ottocentesco; l’autore dell’ Inno alla gioia (1785) che doveva inizialmente chiamarsi Alla libertà , musicato da Beethoven, e di quella Canzone della Campana che celebra l’universalità umana dei valori famigliari, della vita che è nascere, sposarsi e morire, dell’impetuoso combattimento morale con la realtà creativa e minacciosa. Nei salotti romantici - in cui la geniale rivoluzione culturale e l’invenzione di una sconvolgente avanguardia sperimentale ancor oggi in atto si mescolavano a una volgarità radical chic - si rideva della sacralità classica di quella canzone; Caroline Schlegel, Musa erotico-intellettuale di quel gruppo che voleva fondere e confondere vita e poesia, diceva di recitarlo scompisciandosi dalle risa.
Ma la libertà cantata da Schiller - come quella della grande musica ottocentesca - non è certo una nobile retorica, bensì fa i conti, in un crescendo tragico, con le contraddizioni, le ombre, le oscurità che si annidano nel groviglio umano, sul piano individuale come su quello collettivo. I suoi drammi - nutriti di profonda conoscenza storica e filosofica e animati da un talentaccio scenico senza pari - scandagliano le tortuosità in cui si dibatte la libertà, personale e politica, nel mondo moderno. In un capolavoro come Don Carlos (1787) la lotta per la libertà passa attraverso la colpevole necessità di usare mezzi iniqui per un fine buono, il cui raggiungimento è dunque allo stesso tempo affermazione e negazione dell’ideale, liberazione e violenza, mentre la cupa solitudine del tiranno non appare meno umanamente complessa. Nel grandioso e corale Wallenstein , invece, la drammatica figura del malinconico ed esitante condottiero tentato dalla potenza sfocia in una pessimistica e inconciliabile contrapposizione, profondamente tedesca, fra politica e morale, fra l’azione e la coscienza, sullo sfondo di una guerra sanguinosa - quella dei Trent’anni - e totale.
Questo scavo nell’oscurità del cuore umano e dell’azione politica si accentua negli ultimi testi teatrali, spesso incompiuti o solo abbozzati, come il Demetrius , mirabilmente studiato da Leonello Vincenti, in un saggio di quasi cinquant’anni fa tuttora sorprendentemente illuminante. Schiller ha affrontato come pochissimi altri poeti il problema della e delle libertà dei moderni, il nesso fra diritti umani e diritti storici, tra codice e tradizione, fra passione e libertà, tra ordine e rivoluzione. Questa poesia della legge - dei suoi limiti, della sua necessità, della sua complessità - è di una stupefacente modernità e non può essere capita senza addentrarsi nell’affascinante intreccio di letteratura e diritto, come ha fatto nei suoi eccellenti saggi Maria Carolina Foi, oggi la massima studiosa italiana di Schiller.
Quest’ultimo vive e rappresenta una svolta epocale della modernità; contemporaneo di Goethe e di Kant, di Hegel e di Beethoven, dei romantici e di Napoleone, assiste con entusiasmo alla Rivoluzione francese per ritrarsi inorridito dal Terrore ma senza cadere - a differenza dei romantici - nelle braccia di alcuna reazione, bensì continuando lungo la linea illuminista-liberale-progressiva della sua giovinezza. Insieme a Goethe, crea a Weimar il Classicismo tedesco - meglio sarebbe dire classicità, come suggeriva Sergio Lupi - utopia di un’armonia di vita politica, cultura ed arte che poteva essere realizzata solo in un piccolo staterello come Weimar, in cui tutto era a portata d’occhio e di mano come nell’antica Polis greca, e che, se non riuscì nel sogno di salvare stabilmente l’umanesimo evitando rivoluzione e reazione, costituisce l’ultima stagione universale-umana della civiltà occidentale, incredibilmente feconda di capolavori e capace di trasmettere il senso integrale della totalità, del rapporto armonioso fra l’individuo e il Tutto.
Allievo ideale di Kant e della morale kantiana, Schiller contrappone al rigorismo di quest’ultima, duramente nemica di ogni inclinazione sensibile, l’utopia dell’«anima bella», dell’individuo formato così armoniosamente da non aver più bisogno di dominare o reprimere impulsi malvagi, perché la sua persona tende unitariamente e spontaneamente al bene - con la spontaneità della grazia che non ha più bisogno dello sforzo della dignità, come illustra un geniale saggio del 1793.
Schiller accetta in pieno il progresso e la modernità, ma si rende conto che lo sviluppo generale della civiltà infligge pure limitazioni e ferite al singolo individuo, ferite profonde nascoste che peraltro solo la civiltà e il progresso possono curare, soprattutto grazie all’arte. Nascono così le mirabili Lettere sull’educazione estetica (1795), in cui l’arte diviene la maestra dell’umanità, non già tramite una deleteria estetizzazione della vita, concezione decadente del tutto estranea a Schiller, bensì perché l’arte, gioco molto serio come quello dei bambini, libera dalla servile soggezione al peso della realtà e insegna quella creatività che è anzitutto libera costruzione della propria persona.
Poeta e saggista classico di sconcertante modernità, Schiller intuisce con grande anticipo il disagio della civiltà; tante sue famose poesie dicono l’esilio degli dei, la scissione fra sentimento e riflessione, fra vita e poesia, e cercano di sanarla, con la consapevolezza del nesso fra psicologia individuale del profondo e politica. Come dice Della poesia ingenua e sentimentale (1794-95) - capolavoro saggistico che sarebbe sufficiente, da solo, a comprendere quello che sta ancor oggi accadendo nell’arte - la poesia ingenua, l’unità classica con la natura è irrimediabilmente perduta, collocata in un passato irrecuperabile; la poesia dei moderni può essere solo sentimentale ossia consapevolezza di questa scissione e di questa distanza, tentativo di recuperarla attraverso una ricerca nostalgica la quale non riesce mai a colmarla ma continua a ruotare in qualche modo intorno ad essa, come un pianeta intorno a un sole irraggiungibile la cui forza centripeta impedisce tuttavia di perdersi in una nebulosa e cattiva infinità. A pochi mesi da questo saggio classico, Friedrich Schlegel, inventore e teorico del Romanticismo, ne scrive un altro che invita invece l’arte moderna a farsi sempre più sentimentale, eccentrica e stravagante, ad allontanarsi sempre di più da ogni centralità classica e ad accentuare la disarmonia. Sono le due vie dell’arte contemporanea, entrambe coscienti della frattura epocale della civiltà. In pagine famose, Thomas Mann ha contrapposto Schiller, tormentato figlio dello spirito e poeta sentimentale, a Goethe, figlio della natura demonicamente armonioso e ultimo poeta ingenuo. Pure Schiller lo credeva, anche se sapeva che nessuno, né Goethe e forse neanche Omero, era mai stato veramente tale e che il legame con la natura era spezzato da sempre.