martedì 3 maggio 2005

il sogno nella Storia

La Stampa TuttoLibri 30.4.05
Dai Greci alla Rivoluzione: ritrovare l’Età dell’Oro
Alessandro Barbero

QUANDO si parla del sogno nella Storia, il medievista non può fare a me- no di tornare alle parole con cui Georges Duby concludeva uno dei suoi libri più belli, Lo specchio del feudalesimo, dedicato all'immaginario della società feudale. E' un libro degli Anni Settanta, di quel decennio che un consenso becero si è permesso di ribattezzare "anni di piombo", mentre è forse l'ultima epoca in cui in Occidente sia stato possibile un pensiero veramente libero e critico. E Duby, che non era certamente un pericoloso comunista, chiude un percorso di quasi cinquecento pagine osservando come nessun tentativo di giustificare ideologicamente l'ordine sociale abbia mai impedito agli uomini «di essere ossessionati dall'utopia antichissima, dal miraggio: una società che non sia più divisa in classi e che non per questo cessi di essere ordinata. Il sogno...». E nella tradizione occidentale è davvero così. Altri uomini, come gli aborigeni d'Australia, hanno vissuto nella certezza che il sogno, quello vero, quello che ci viene incontro mentre dormiamo, sia l'unica autentica realtà, ben più solida di quella, fluttuante e inafferrabile, che ci circonda da svegli. In Occidente, il disagio verso la realtà ha invece preso la forma di un sogno ad occhi aperti, a volte soltanto vagheggiato, a volte, invece, lucidamente perseguito. All'inizio, il sogno era identificato col passato: un passato remoto e ormai perduto per sempre, in cui gli uomini erano stati felici. I dettagli costitutivi di quel sogno appaiono stranamente simili presso i popoli più diversi: l'Età dell'Oro dei Greci, in cui gli uomini erano simili agli dei, non conoscevano paura, miseria né malattia, e godevano dei frutti della terra senza bisogno di lavorare, assomiglia come una goccia d'acqua, nonostante la diversità del contesto teologico, al giardino dell'Eden immaginato dagli Ebrei. Molto presto, però, si scoprì che il sogno del passato poteva tramutarsi nell'agenda del presente. In un Israele sconfitto e sottomesso, il ricordo del Paradiso perduto poteva giustificare il nuovo patto di un intero popolo col suo Dio e la marcia verso la conquista della Terra promessa. A Roma, un po' più cinicamente, l'ufficio stampa di un politico ambizioso poteva garantire al popolo, pagando bene i servigi d'un poeta promettente, che l'Età dell'Oro sarebbe presto tornata fra gli uomini grazie agli sforzi del grand'uomo; che è, più o meno, il succo d'un famoso passo delle Bucoliche di Virgilio. Nel Medioevo cristiano, un papa spregiudicato come Gregorio VII non esiterà a far coincidere l'insegnamento della Genesi e il mito classico del secolo aureo, per dedurne una interpretazione sovversiva del potere imperiale con cui stava giocando una partita mortale: lo sappiamo tutti, scrive in una lettera a un vescovo tedesco, che gli uomini in origine erano uguali, e come credi che sia nato, allora, il potere? E' chiaro, sono i delinquenti, i ladri e gli assassini che hanno spogliato e terrorizzato tutti gli altri, e poi si sono fatti chiamare imperatori, principi e re...
E' il papa, ma sembra Bakunin; e infatti non ci vorrà molto, in quel Medioevo che è in realtà il crogiolo della nostra modernità, perché una lettura come questa cominci a filtrare anche fra le masse, e ad essere interpretata in termini di classe. «Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov'era allora il gentiluomo?» chiedevano con insolenza i contadini ribelli, nell'Inghilterra di Wyclif come nella Germania di Lutero. Il sogno, improvvisamente, sembrava diventato attuabile, anche se non tutti avevano le idee ben chiare sull'obiettivo da raggiungere: qualcuno si sarebbe accontentato di abolire il castello del signore e l'esattore dell'imposta regia, altri invece, come gli Anabattisti in Germania, volevano riportare addirittura il regno di Dio sulla terra, a costo di trasformare la loro utopia in una feroce dittatura. Ma al di là dei singoli episodi, che raramente o mai ebbero un successo duraturo, ciò che veramente caratterizza la nostra modernità è il definitivo insediamento del sogno egualitario nella coscienza collettiva: non più come il ricordo d'un passato perduto per sempre, da ritrovare semmai in un'altra vita, ma come un'aspettativa per il presente, o almeno per il futuro. «Il presente è una brutta bestia / anche se molti ne fanno festa», scriveva un poeta francese del Trecento, incitando i contadini a ribellarsi ai loro padroni in nome dell'eguaglianza naturale; e proseguiva avvertendo i ricchi che il loro tempo era contato: «il presente lo vediamo finire, / ma il futuro ha da venire». Ci vorranno secoli perché questa aspettativa confusa, questo rancore represso, questa fiducia nascente nelle leggi della Natura e della Ragione si solidifichino in ideologie coerenti, in progetti operativi, nella volontà scientifica di cambiare il mondo; ma è qui che vanno cercate le radici delle rivoluzioni e delle utopie, di quella illuminista come di quella marxista. Oggi, in certi ambienti, è di moda liquidare come "catastrofi" non soltanto la rivoluzione d'Ottobre, ma anche quella del 1789; eppure tutta la storia d'Europa tendeva a quel sogno, e ora che bisogna voltare pagina è molto difficile trovarne un altro che valga la pena di sognare.