domenica 19 giugno 2005

Albert Einstein

Corriere della Sera 19.6.05
PASSIONI Nel tempo libero il genio si divertiva

«Cos’è lo spazio?», «Perché gli uomini sono classificati come animali?», «Cos’è l’anima?»: sono solo alcune delle domande scritte tra il 1928 e il 1955 dai bambini di tutto il mondo ad Albert Einstein. Sessanta lettere, appartenenti alla Hebrew University of Jerusalem e alla Princeton University Press, raccolte da Alice Calaprice in «Caro professor Einstein» (Archinto, pp. 179, 15) e ora edite in Italia. Sessanta lettere che testimoniano l’enorme popolarità di cui godeva lo scienziato anche tra i più piccoli. E proprio a una bambina che lo definisce un «idolo» e che lamenta problemi coi numeri, Einstein replica con il celebre aforisma: «Non preoccuparti della tue difficoltà in matematica; ti posso assicurare che le mie sono ancora più grandi». Risposte acute e brucianti anche su temi ostici - dalla fede in Dio alla fine del mondo, liquidata con uno «Stiamo a vedere!» - che rivelano, come scrive nella prefazione la nipote Evelyn Einstein, «la stima dei bambini per mio nonno e la sua disponibilità verso di loro». (e. b.)

Corriere della Sera 19.6.05
Interviste e documenti inediti rivelano il lato umano dello scienziato:
un inguaribile individualista Einstein, il pacifista che non capiva la politica

Arturo Colombo

Inguaribile individualista, Albert Einstein - con molto sense of humour - confessava di possedere «la cocciutaggine di un mulo e il fiuto di un buon segugio»; eppure, non è mai stato uno di quegli intellettuali «isolati», che preferiscono la solitudine, quasi avessero - per dirla con Dante - «il mondo in gran dispitto». Al contrario: a leggere il brillante autoritratto involontario, che emerge dal collage di lettere, interviste e documenti nel volume Il lato umano, a cura di Helen Dukas e Banesh Haffmann (Einaudi, pp. 212, 8,80), si capisce benissimo perché Einstein ripetesse spesso il suo «amore per la giustizia e la lotta per contribuire a migliorare la condizione umana». Del resto, per lui la bestia nera è stata da subito il servizio militare obbligatorio, che considerava «il sintomo più vergognoso della mancanza di dignità personale, di cui soffre la nostra umanità civilizzata». Anzi, rincarava la dose, spiegando: «L’eroismo comandato, gli stupidi corpo a corpo, il nefasto spirito nazionalistico, come odio tutto questo!». Fin da giovane, si era convinto che ciascuno di noi non deve scegliere l’arroganza, l’egoismo, il ricorso alla violenza. Al contrario, «siamo qui per gli altri» ripeteva, sicuro che l’eredità ricevuta da chi è vissuto prima di noi andava conservata e arricchita, così da «soddisfare per quanto è possibile le aspirazioni e i bisogni di tutti».
Ecco perché, già nei primi anni Trenta, aveva scritto «la guerra mi appare ignobile e spregevole; sarei disposto a farmi tagliare a pezzi piuttosto che partecipare a un’azione così miserevole»: lo si legge in uno dei suoi testi più famosi, Come io vedo il mondo (Newton Compton, pp. 210, 5).
A convincere Einstein che l’antimilitarismo e il pacifismo rappresentano per ciascuno un imperativo categorico erano stati soprattutto tre grandi - lo scrittore Tolstoj, il Mahatma Gandhi e il filantropo Albert Schweitzer -, che Einstein considerava i suoi maestri, i suoi «uomini-faro» (per usare l’immagine di Thomas Carlyle).
A New York, nel dicembre del 1930, era intervenuto a un convegno a favore dell’obiezione di coscienza, pronunciando «il discorso del due per cento». I pacifisti - aveva detto nel solito stile immaginoso - non sono «pecore ammassate, mentre i lupi fuori le aspettano». E aveva spiegato: «Se anche solo il due per cento di quelli che devono compiere il servizio militare annunciasse il rifiuto di combattere, e nel contempo premesse perché si trovassero mezzi diversi dalla guerra per sistemare le controversie internazionali, allora i governi sarebbero impotenti e non oserebbero mandare in galera un numero così grande di giovani».
Poi, di lì a poco, Hitler andrà al potere, e il nazismo - con lo spettro del famigerato «Nuovo ordine» e le persecuzioni contro gli ebrei - impone anche a Einstein di riconoscere che occorre reagire. Rimane un pacifista, ma non «un pacifista assoluto», e lo ammette: «Dentro di me provo lo stesso disgusto di sempre per la violenza e il militarismo, ma non posso chiudere gli occhi di fronte alla realtà». Tale rimarrà il suo atteggiamento durante tutta la Seconda guerra mondiale, fin quando non si concluderà «il crimine più abominevole mai registrato nella storia», come confessa nell’antologia di aneddoti e riflessioni, Pensieri di un curioso, a cura di Alice Calaprice (Oscar Mondadori, pp. 231, 8,40).
Eppure, finito il conflitto, Einstein torna a reclamare una «politica per la pace», non più solo in termini di antimilitarismo ma come appassionata ricerca di un governo mondiale. Lo dice già nel settembre del ’45: «L’unica salvezza per la nostra civiltà e per la razza umana sta nel creare un unico governo mondiale, che fondi sul diritto la salvezza di tutte le nazioni». Lo ripeterà fino al giorno della morte, avvenuta mezzo secolo fa, il 18 aprile 1955. Nell’ultima intervista sul New York Times, a chi gli chiedeva come mai si era riusciti a scoprire l’atomo ma non ancora i mezzi per controllarlo, Einstein aveva risposto, ironico: «È semplice, amico mio, perché la politica è più difficile della fisica».