martedì 21 giugno 2005

«anestesia emozionale»

Repubblica, Bologna 21.6.05
LO PSICANALISTA
"La rimozione è l'errore da evitare"
JENNER MELETTI

«DENTRO di noi, potrei dire, esiste un salvavita simile a quello che, nelle nostre case, toglie la corrente quando c´è un corto circuito. Ecco, io penso che il rischio maggiore, di fronte ad un trauma come la violenza sessuale, sia quello di fare scattare un "salvavita" che però provoca un'anestesia emozionale. Si nasconde il dolore, ma si rinuncia a vivere». Stefano Bolognini, psichiatra e psicoanalista, è il presidente del Centro psicoanalitico di Bologna. Sul lettino del suo studio è passato anche chi ha subito violenze simili a quelle subite dai due ragazzi nel parco di Villa Spada, in un pomeriggio del sabato, con il sole ancora alto in cielo. Cosa si può fare per aiutare chi ha subìto un oltraggio così grande?
«In questo caso la parola "trauma" si deve usare senza timori. Il trauma è un´esperienza soverchiante, eccessiva. Non riesci a tollerarla e nemmeno ad elaborarla mentalmente. E´ come una palla di gomma chiusa nello stomaco, che non riesci né a digerire né a sublimare. E allora il rischio è quello di chiudere in cantina ciò che è accaduto. Non ripensarci, non risentire ciò che hai subìto. E così si rinuncia a fare funzionare una parte di sé. Questo il pericolo che dobbiamo evitare».
Lo psichiatra dice che, dopo un secolo di terapia analitica, si è capito come «la vera elaborazione del trauma richieda una dolorosa rivisitazione dell´esperienza subìta, da compiere con l´assistenza anche "tecnica" di un esperto». Senza questa rielaborazione, i rischi sono pesanti. «Schematizzando, posso vedere due pericoli. Il primo è quello già citato, dell'anestesia emozionale. Si rinuncia a una parte di sé, e questa anestesia può durare tutta la vita. Il secondo pericolo - e riguarda soprattutto le persone più fragili - è quello che noi chiamiamo la frattura dell'io cosciente. In parole povere, il rischio della pazzia. Per fortuna c'è anche chi, pagando il prezzo di una sofferenza indicibile, riesce comunque a mantenere un contatto emotivo e l´interezza psichica. Insomma, soffre, sta male ma riesce a continuare ad essere se stesso».
Difficile schematizzare, in campi così delicati. Ma l'«anestesia emozionale» è il pericolo più frequente. «E allora - dice il professor Stefano Bolognini - soprattutto con questi ragazzi, personalità in formazione, bisogna usare estrema delicatezza e cautela. Ma si deve aiutare il soggetto a riprendere il contatto con ciò che ha vissuto durante l'aggressione. Bisogna tirare fuori il disgusto, il terrore, la rabbia, cercando di tornare all'attimo in cui è scattato il "salvavita" che ha interrotto ogni corrente. Se non si fa questo, avremo una persona fredda che non riuscirà più ad aprirsi a nessuna intimità».
L'aggressione sessuale, nella letteratura psicoanalitica, è un trauma simile a quello subìto con la tortura, con il terrorismo e con la guerra. «In Serbia ed in Bosnia psicologi e psichiatri, anche bolognesi, hanno organizzato gruppi terapeutici nei quali le vittime - guerra vuol dire anche violenza e stupro - con fatica e con dolore cercano di condividere il ricordo. Quella subìta dai nostri ragazzi non è una situazione diversa. Del resto, i carnefici che hanno aggredito i ragazzi sui colli solo apparentemente hanno compiuto un atto sessuale: si sono serviti del dispositivo sessuale per attuare un'aggressione, per umiliare le vittime. Il loro è stato un atto di sfregio».
La ragazza violentata è la prima vittima, ma purtroppo non è sola. Il ragazzo che era con lei è stato minacciato, tenuto fermo, costretto ad osservare la violenza. «Anche lui dovrà fare un lungo lavoro per ritrovare un equilibrio. Anche lui dovrà riprendere i suoi ricordi e riviverli. Pure per questo giovane la traccia traumatica non sarà lieve. Per situazioni di ruolo è stato reso completamente impotente, è stato umiliato e simbolicamente castrato. Oggi si sente sminuito e choccato». La strada giusta, come per la ragazza, non è quella di nascondere il tutto nella «cantina» della propria coscienza.
«Tutto ciò che non viene ricordato e detto, nello specifico psicoanalitico, rimane dentro come una indigeribile "palla di gomma" che graverà per sempre sull'equilibrio della persona. Aiutare vuol dire stare vicino. Aiutare significa cercare le strade per arrivare a parlare dell'aggressione. E bisogna che i ragazzi arrivino a parlarne in modo emotivo, che possano piangere e urlare, e provino ancora quel dolore e quell'odio profondo vissuti quando i carnefici hanno preso il sopravvento».
Non sarà un cammino facile. Ma sempre «con una delicatezza enorme» si dovrà arrivare all´elaborazione del trauma. «Il ricordo permetterà di ritrovare se stessi anche nel dolore. Seguire persone che hanno vissuto esperienze come questa non è facile. Bisogna mettersi accanto a loro, fare capire che se vogliono possono ricevere l'aiuto di un esperto. Bisogna, piano piano ma in modo visibile, creare le condizioni nelle quali la vittima possa iniziare il suo racconto. L'errore più grande sarebbe quello di pensare che, in fondo, su certi fatti si possa mettere una pietra sopra. Un altro errore, non meno grave, sarebbe partire in quarta con l'intervento psicologico o psichiatrico, forzando la narrazione».
Oltre alla ragazza e al suo amico i violentatori di villa Spada hanno fatto un'altra vittima: la città. «I colli di Bologna sono la zona di tutti, sono il luogo dove tutti sono stati da ragazzi e dove ora vanno i loro figli. Per questo la violenza di villa Spada non è solo lo sfregio di singole persone. E' una ferita per la comunità. Anche a questo bisogna stare attenti. Una comunità ferita ed umiliata deve riflettere, confrontarsi, fare proposte. La politica non c'entra, in questa vicenda. In ballo ci sono le emozioni di tutti. Ma se la città non riesce ad avviare questo processo di analisi e ricerca, a lungo termine potranno nascere reazioni pesanti e deleterie».