NOI E IL MONDO ARABO
Democrazia, l’Occidente non ha il monopolio
di AMARTYA SEN
Premio Nobel per l’Economia
Il cambiamento politico più significativo del XX secolo è stato forse il diffondersi della convinzione che la democrazia sia una forma di governo «normale» a cui ogni nazione ha diritto. Sopravvive, però, una sotterranea vena di scetticismo sulle possibilità della democrazia nel mondo non occidentale. Scetticismo in grande misura alimentato dai recenti eventi iracheni. Chi critica l'intervento in Iraq passa spesso dalla giustificata condanna di un'operazione militare mal ponderata e controproducente a un molto meno giustificato scetticismo generale riferito a una qualsiasi nozione di Iraq democratico. Tanti, in realtà, muovono dal presupposto che la democrazia sia una produzione tipicamente occidentale, non in sintonia con i valori fondamentali propri di altri Paesi, come quelli arabi. Un equivoco di base sulla natura della democrazia sottende entrambi gli approcci, quello militarista e quello cinico.
La democrazia è per lo più considerata una possibilità di ragionamento collettivo e di processo decisionale pubblico - una forma di «governo attraverso il confronto». Il voto è, in prospettiva, solo un elemento in un quadro molto più ampio. La democrazia ha origine assai prima dell’affiorare di pratiche rigidamente definite e precisamente collocate. Un tributo va certamente reso al potente ruolo giocato dal pensiero occidentale moderno, collegato all’illuminismo europeo, nello sviluppo delle idee liberali e democratiche. Le radici di queste idee generali, però, possono essere rintracciate in Asia e Africa così come in Europa e America.
La convinzione che la democrazia sia un’idea intrinsecamente «occidentale» è spesso ancorata alla pratica del voto nell’antica Grecia, in particolare ad Atene. Questo è certo un primato ma il salto logico che porta a sostenere la natura tipicamente «occidentale» o «europea» della democrazia genera solo confusione. Il problema sostanziale qui concerne la suddivisione del mondo in categorie prevalentemente razziali, attraverso le quali l’antica Grecia è vista come parte integrante ed esclusiva di una tradizione «europea» riconoscibile.
Nell’ambito di questa prospettiva classificatoria, non pare affatto difficile considerare i discendenti dei Goti o dei Visigoti come i legittimi eredi della tradizione greca («sono tutti europei»), mentre si fa fatica a prendere atto dei legami intellettuali tra greci e antichi egizi, iraniani e indiani, malgrado l’interesse che gli stessi antichi greci mostrarono nei confronti di questi ultimi (piuttosto che dei Visigoti).
Un’ulteriore difficoltà riguarda il fatto che il confronto pubblico fiorì, sì, nell’antica Grecia, ma lo stesso accadde anche in altre civiltà antiche. Alcuni dei primi incontri pubblici specificamente volti a dirimere le controversie ebbero luogo in India, a partire dal VI sec. a.C., nei cosiddetti «consigli» buddhisti, nei quali i sostenitori di differenti punti di vista si riunivano per discutere le loro divergenze d’opinione. L’imperatore Ashoka, che nel III sec. a.C. ospitò il più grande di questi consigli nella capitale Pataliputra (oggi Patna), tentò anche di codificare e promuovere quella che deve essere stata una delle prime formulazioni di regole per il pubblico dibattito - una primitiva versione delle «Robert’s Rules of Order» del XIX secolo. Parimenti, la cosiddetta «Costituzione dei 17 articoli», redatta dal principe buddhista Shotoku nel 604 in Giappone, insisteva, in uno spirito molto simile a quello della «Magna Charta» di sei secoli successiva: «Le decisioni relative a importanti questioni non dovrebbero essere prese da una sola persona. Dovrebbero essere discusse da più individui».
Esistono precedenti di confronto pubblico e tolleranza nei confronti dell’eterodossia anche nei Paesi musulmani, mondo arabo incluso. Quando nel XII secolo il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a emigrare da un’Europa intollerante, trovò rifugio nel mondo arabo e andò a ricoprire una posizione di prestigio alla corte dell’imperatore Saladino al Cairo.
Per citare un altro esempio, quando nel 1600 per decisione del tribunale dell’Inquisizione l’eretico Giordano Bruno fu bruciato sul rogo a Roma, Akbar, il grande imperatore Moghul dell’India (nato e morto musulmano), aveva appena ultimato il suo progetto di codifica legale dei diritti delle minoranze, tra i quali rientrava la libertà di religione per tutti. Akbar istituì inoltre ad Agra quello che fu forse il primo gruppo di discussione multireligioso, nell’ambito del quale ebbero luogo incontri regolari tra induisti, musulmani, cristiani, giainisti, ebrei, parsi e persino atei, per discutere i punti e le ragioni delle loro differenti opinioni e per capire come convivere.
E l’Iraq, allora? Sarebbe un errore tentare di servirsi dei problemi immediati del Paese per rinnegare la generale possibilità, oltre che la necessità, di democrazia in Iraq, Medio Oriente o in qualsiasi altro luogo. D’altro canto, un’interpretazione ristretta e meccanica della democrazia sta costando all’Iraq un alto prezzo. Se è vero che le recenti elezioni sono state accolte calorosamente, è anche vero che in assenza di un dialogo adeguatamente aperto e partecipativo il processo elettorale è stato come previsto settario, improntato a formule etniche e religiose. Siamo di fronte a un problema simile in Afghanistan, dove si punta tanto sulle riunioni di capi tribali e sui consigli religiosi e non sulla promozione, più faticosa ma anche criticamente rilevante, di incontri aperti e generali.
Tra i requisiti della democrazia rientra lo sviluppo delle opportunità di un confronto pubblico partecipativo, anche in Iraq. Questo significa promuovere i diritti civili, tra i quali la tutela da arresti arbitrari (e, naturalmente, dalla tortura), assicurare strutture destinate agli incontri pubblici e una maggiore libertà di informazione. È importante assecondare, piuttosto che ostacolare, lo sviluppo delle identità non settarie di donne e uomini e la riaffermazione dell’autostima degli iracheni in quanto iracheni. Il primo passo consiste nel pervenire a una più lucida comprensione della natura del «governo attraverso il confronto».
(traduzione di Maria Serena Natale)
Corriere della Sera 16.5.05
Cento studiosi a Milano per discutere di «economia del benessere» e contestare il Pil come unico indice di sviluppo di un Paese
Più si è ricchi, più si è infelici: il teorema di Kahneman
Serena Zoli
Quand’eravamo poveri ci ripetevano spesso che i soldi non danno la felicità. Dai pulpiti delle chiese si spingevano a farci compiangere i «poveri» ricchi perennemente oppressi (e noi fortunatamente no) da tremendi problemi quali: come investo? E se arrivano i ladri? E se non guadagno sempre di più? La gran massa di noi, potendo placidamente identificarsi di più con l’intrigante cammello, abilitato - ma chissà poi perché e come - a passare per la cruna dell’ago, si sentiva rassicurata. Più tardi, molto più tardi, conferma delle antiche prediche è venuta dal nuovo pulpito, la tv: Anche i ricchi piangono ha «dimostrato » una telenovela di fortuna semiplanetaria. Però, una volta scopertane l’origine - il Messico, Paese povero - ed essendo noi nel frattempo divenuti più scafati, s’è ripresentato il sospetto di una tesi autoconsolatoria. Ma adesso «i (troppi) soldi non danno la felicità, anzi inducono crescente infelicità» lo dicono studiosi «asettici» dediti all’analisi dei «poteri forti», quelli con cifre sempre alla mano e con il famoso Pil (ricordiamolo una volta per tutte: prodotto interno lordo di un Paese) sempre a far da bussola e da tormento. Gli economisti, insomma. Che, in un centinaio con altri studiosi, provenienti da tutto il mondo, lo ripeteranno in lungo e in largo per ben due giorni, oggi e domani, all’Università Bicocca di Milano, nel convegno internazionale Capabilities and Happiness . Il primo termine, intraducibile, si capisce a intuito (risorse, capacità, impegno), ma il secondo significa pari pari «felicità». Termine finora estraneo alla scienza dei conti e oggi parola guida di un nuovo filone di studi quale misuratore, con altri, della vera ricchezza di un Paese. Che comprende (come dovrebbe essere ovvio, ma non lo è) il benessere di chi ci abita.
Non di stravaganti e alternativi sognatori, si tratta. Ne fa testo il sigillo impresso dal Premio Nobel che, nel 2002, è stato assegnato per l’economia a uno psicologo, Daniel Kahneman, nome di punta della interdisciplinare e nuova «Economia della felicità». E Nobel per l’economia nel 1998 era stato proclamato l’indiano Amartya Sen (chiuderà il convegno) che è sì economista, ma accanto al Pil aveva elaborato lo Hdi (Human development index), un indicatore dello sviluppo che tiene presente lo stato di diritti civili, alfabetizzazione, aspettativa di vita... Dai due Nobel due filoni analoghi, dunque, che considerano e progettano una economia etico-umanistica.
Il primo a pensare l’incongruo binomio Pil e felicità è stato Richard Easterlin (oggi a Milano), spiega il professor Pierluigi Porta, direttore del dipartimento di Economia politica di Milano-Bicocca che ha promosso il convegno. «Cominciò nei primi anni Settanta, nel '74 arrivò in Italia un suo libro che si interrogava sul rapporto tra ricchezza e destino umano ed è stato Easterlin a individuare il "paradosso della felicità"». Che, supportato da cifre e grafici, recita più o meno così: in un Paese, quando si sia raggiunto un certo livello di benessere, ogni ulteriore aumento della ricchezza fa aumentare l’infelicità. Perché? Perché le persone investono troppe risorse per il consumo di beni materiali a scapito di altre parti dell’esistenza, in particolare la vita familiare e di relazione, dalle quali dipende in larga misura la nostra felicità. Ma perché allora si persiste in questa folle corsa al di più? Ecco entrare in campo lo psicoeconomista Kahneman, sempre armato non di buonismo, ma di indagini scientifiche: «Il consumo di cose comode e non stimolanti crea dipendenza», come una droga dunque, e «aumenta nel tempo il costo richiesto per cambiare stile di vita».
Che noi occidentali dobbiamo cambiare stile di vita o mal ce ne incorrerà, e già ce ne incorre, siamo in tanti a dirlo, ma se a questa generica constatazione dettata da cronaca, buonsenso ed etica si alleano gli studi di economia, quel che si prospetta è una vera rivoluzione culturale, di cui l’Università di Milano-Bicocca intende essere un centro propulsore.
Resta la fondamentale domanda: ma si può, e come, misurare l’elusiva felicità umana? Kahneman e gli altri dicono di sì. Ma seguono due diversi metodi. C’è chi si fida di analisi «oggettive» e guarda a dati come impegno civile, sviluppo delle relazioni interpersonali, volontariato, ricollegandosi alla riscoperta della aristotelica eudaimonia («buon demone») di filosofi come Martha Nussbaum. Altri puntano sulle dichiarazioni «soggettive» di benessere e si richiamano alla teoria di Bentham sulla felicità come utilità. Un’idea di utile rovesciata. Ma quanto dilettevole. E sensata.