lunedì 10 gennaio 2005

i crimini cattolici
...come i nazisti

Corriere della Sera 10.1.05
LA CHIESA, LA SHOAH
La storia e la condanna del male
di CLAUDIO MAGRIS


La Storia, ha scritto Giovanni Miccoli, non è giustiziera, non è un tribunale che emetta sentenze di assoluzione o di condanna. A questo principio, affermato da molti storici e anche da Croce in polemica con la storiografia che sconfina col giudizio morale o con l’inchiesta penale, si sono richiamati, in forme diverse, pure altri studiosi nella recente discussione sollevata dalle disposizioni impartite dalla Santa Sede che invitavano a non restituire alle loro famiglie i bambini ebrei nascosti e allevati da associazioni cattoliche durante la Seconda guerra mondiale per sottrarli allo sterminio nazista. Come ha rilevato lo stesso Miccoli, autore di un volume fondamentale e fondante sulla figura e l’opera di Pio XII in merito alla questione ebraica, la discussione giornalistica - che affronta il problema delle responsabilità non solo di Papa Pacelli, ma anche di personalità di solito a lui contrapposte, come i due suoi successori - è stata ed è anche pasticciona.
In molti casi sono state sottolineate con enfasi cose già note e ci si è basati su documenti, molti dettagli dei quali sono ancora incerti e da verificare.
Questo dibattito storiografico ha indubbiamente assunto il tono non di un accertamento di fatti e di una ricerca di fonti, bensì di arringhe d’accusa o di difesa, mosse non tanto da opinioni diverse sulla portata di un documento, quanto piuttosto da convinzioni ideologiche e aprioristiche sulla colpa o l’innocenza dei personaggi chiamati alla sbarra. Chi ha protestato contro tali posizioni - ad esempio Giorgio Rumi o Ernesto Galli della Loggia, ma non solo essi - ha ricordato che la storia non è un tribunale né penale né morale, non è un giudizio sugli uomini, bensì - come diceva uno storico veramente grande quale Franco Venturi - il tentativo di capire come e perché essi sono vissuti. Inoltre, è stato detto, non si può giudicare col senno del poi, bensì occorre calarsi nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti che si cerca di ricostruire e comprendere, nella mentalità e nei sentimenti, valori, abitudini, convinzioni di quell’epoca. Nemmeno il giudizio morale può prescindere dal contesto storico della civiltà e del periodo in cui si sono verificati gli eventi che si valutano: la schiavitù esistente nell’antichità classica, ha scritto giustamente Galli della Loggia, non può ricevere da noi lo stesso giudizio morale che diamo e dobbiamo dare su una schiavitù praticata oggi. Quando Popper mette sullo stesso piano, quali nemici della liberale «società aperta», Platone, Marx e Freud, sorvolando sui due millenni che li separano, compie una scorrettezza concettuale.
Anche l’antisemitismo, sostiene Galli della Loggia, dev’essere valutato nel suo contesto storico e, in particolare, a seconda che ci si riferisca a fatti accaduti o ad atteggiamenti assunti prima o dopo la Shoah - anzi, prima o dopo la presa radicale di coscienza, da parte del mondo, della Shoah e della sua inaudita mostruosità. Sotto un certo profilo, questo è vero: dopo la Shoah, niente è uguale a prima; anche una banale battuta antiebraica suona oggi diversa, impensabile, e quindi il diffuso pregiudizio antisemita presente prima della Shoah pure in tante brave persone, che mai avrebbero torto un capello a un ebreo, non può essere giudicato oggi come se fosse ancora condiviso. Da questo punto di vista, può darsi che Papa Pacelli abbia agito - come glielo consentivano un plurisecolare pregiudizio cattolico antisemita e gli angusti paraocchi della sua origine nobiliare papalina - senza la consapevolezza della reale portata della Shoah. Perciò non era in grado di chiedere perdono agli ebrei né di rivolgersi da cristiano a essi come a «fratelli maggiori», come ha fatto Giovanni Paolo II.
La storia - e la storiografia - non devono dunque essere un giudizio morale né una sentenza giudiziaria. Già dicendo queste parole, «non devono», si proclama tuttavia un imperativo morale, si prescrive ciò che si deve o non si deve fare. Ma è veramente possibile ricostruire come e perché gli uomini hanno vissuto la loro vita e la storia senza dare, quantomeno implicitamente, un giudizio morale? Calarsi nell’epoca in cui sono avvenute infami atrocità è necessario, ma questo significa forse che quelle atrocità diventano meno infami e atroci? Pure le spaventose stragi compiute da Stalin negli anni Trenta sono successe in anni lontani da noi, diversissimi e oggi quasi inimmaginabili nelle loro passioni, nella loro mentalità, nel loro modo di essere e concepire la vita, la storia, la politica, il partito, la violenza.
Anche le ecatombi staliniane vanno certo collocate nel loro contesto e non solo moralisticamente, ideologicamente o strumentalmente denunciate, per capire come e perché siano avvenute. Ma cessano per questo di essere bestiali delitti? È possibile capire la meccanica che ha portato ad Auschwitz senza dare un giudizio morale, anche morale, su quel culmine ineguagliato di orrore, bestialità e imbecille abiezione? Dire che Himmler è un porco non basta certo per capire il nazismo e la storia europea di quel periodo, ma nessuna rigorosa storiografia può eliminare il fatto che Himmler fosse un porco e che è necessario ripeterlo. Le grandi prospettive storiche generali non possono far dimenticare che tutto, ogni dettaglio individuale, sta pure, nell’eternità della sua grazia o del suo orrore, davanti a Dio.
La storia non è giustiziera, ma nemmeno giustificatrice. Calarsi concretamente nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti e i misfatti, come deve fare lo storico, significa ricostruire le concrete possibilità che, in quell’epoca e in quel contesto, si aprivano agli individui, alle forze politiche, alle Chiese. Solo così si può capire quali erano i concreti spazi di libertà di scelta, in base a cui un individuo - come un partito, una Chiesa - viene inevitabilmente giudicato nel suo agire. Non tutti, in una stessa situazione e nella stessa epoca, si comportano allo stesso modo; Farinacci e don Minzoni erano contemporanei, condizionati da tutti i pregiudizi del loro tempo, ma l’uno era un delinquente che schiacciava la libertà con la violenza e l’altro un martire che sacrificava la propria vita per la libertà.
Quando padre Gemelli, nel 1924, appresa la notizia del suicidio di Felice Momigliano, si augura che tutti «i giudei» muoiano insieme a lui, egli è certo radicato in un plurisecolare tessuto antisemita trasmessogli anche inconsciamente dalla tradizione, ma non per questo la sua uscita diviene meno bestiale. Negli stessi anni, tanti altri cattolici, tanti altri sacerdoti sentivano, pensavano e si comportavano diversamente. Anche diversamente da Pio XII, a maggior gloria di Dio e della Chiesa. Pure Pio XII non avrebbe potuto comportarsi come Gandhi o come padre Kolbe e sarebbe ingiusto pretenderlo: non glielo consentivano le condizioni storiche oggettive, come avrebbero detto i vecchi marxisti, il modo storicamente condizionato col quale egli intendeva la responsabilità del suo ruolo e, non ultimo, i talenti che gli erano stati dati dall’imperscrutabile volontà di Dio e che non erano quelli dati, ben più generosamente, a Gandhi o padre Kolbe.
Nel dibattito si è sottovalutato un elemento fondamentale. La Chiesa ha il merito - e il peso - di affermare valori assoluti. Per essa, la verità non è storicamente condizionata e relativa, ma immutabile; non è figlia del tempo, bensì, come dice la sua dottrina, mater temporis , madre del tempo. È dunque la stessa fede cattolica a esigere, pure nei confronti del comportamento della Chiesa, un giudizio non solo storico, bensì morale, basato sull’osservanza o meno dei Dieci Comandamenti, dati secondo essa da Dio a Mosè. Inoltre la Chiesa afferma di essere depositaria, almeno nella proclamazione ex cathedra di dottrina definita, della verità. Da essa dunque non solo si può, ma si deve, se la si prende sul serio, pretendere un comportamento diverso da quello di un governo, di un partito o anche di una confraternita di storici. L’affermazione di alcuni princìpi assoluti è un grande merito della Chiesa. Forse quei princìpi non sono fondati su nulla, forse per la storia dell’universo, tra il Big Bang e il collasso finale, la Shoah non è più rilevante dello spegnersi di una stella o della caduta di un meteorite, ma noi non potremmo comunque vivere senza stabilire una differenza sostanziale fra ciò che sentiamo come relativo e ciò che sentiamo come assoluto, fra una norma di comportamento sessuale che può variare nel tempo e il quinto comandamento o gli ancor più alti e inviolabili postulati dell’etica kantiana. Il suo meritorio richiamo ai princìpi indiscutibili accresce le responsabilità della Chiesa e il nostro diritto di chiamarla a giudizio. Non è colpa di Pio XII non essere stato un santo dinanzi alla Shoah, se non gli era dato di esserlo, ma, se non lo è stato, sarebbe mera inefficace retorica proclamarlo tale.

...e, finalmente, con Mario Pirani, si esprime anche Repubblica:

Repubblica 10.1.05
MARIO PIRANI
I BAMBINI EBREI
E IL PARADOSSO DELLA SHOAH


L'ampia disamina di Adriano Sofri (Repubblica dell´8 us) mi esime dal riassumere la discussione in corso sul Corriere sul rifiuto da parte del Vaticano di restituire quei bambini ebrei battezzati da sacerdoti o famiglie cattoliche che li avevano tratti in salvo dalle deportazioni naziste. Di qui l'aperta ostilità di alcuni, a cominciare dal presidente della Comunità ebraica, Amos Luzzatto, alla beatificazione di papa Pacelli.
Personalmente reputo che i processi di beatificazione rientrino in una ratio tutta interna alla Chiesa e che laici ed uomini di altra fede, liberissimi di esprimere critiche storiche, politiche od anche etiche non abbiano invece veste per giudicare giusta o sbagliata una santificazione liturgica. Vorrei invece intervenire su una tesi espressa, prima da Lucetta Scaraffia (Corriere del 4 us), secondo cui "la Chiesa non è stata mai antisemita, semmai antigiudaica, cosa molto diversa", tesi ripresa poi, con assai più ampio argomentare, da Ernesto Galli della Loggia (7 us). Il quale, partendo da una premessa ovvia, che ribadimmo proprio in polemica con lui, (a esempio sugli eccidi commessi da partigiani a cavallo della Liberazione) secondo cui "non si può giudicare moralmente e storicamente il passato con il metro che adottiamo per giudicare la presente", ne estremizza talmente il senso da renderlo un paradosso inaccettabile alla luce della verità e della più elementare consapevolezza etica. Qui posso solo riassumere il pensiero dell'articolista il quale, dai due assunti appena ricordati, ricava la conclusione che "scandalizzarsi per la mancata ripulsa settanta o ottanta anni fa da parte di uomini e organizzazioni di ciò che oggi definiamo antisemitismo costituisce una grave, indebita forzatura... Quando Pio XII e la Chiesa si muovevano circa la persecuzione antiebraica con il freddo distacco che sappiamo... l'Olocausto, sebbene in corso o da poco trascorso, in realtà non esisteva affatto e per esistere avrebbe dovuto aspettare ancora svariati anni... è infondato definire con il termine per noi oggi obbrobrioso di antisemitismo atteggiamenti che invece sono stati solo di indifferenza, antipatia, repulsa storico-religiosa, diffidenza sociale... Bisogna insomma capire... che l'Olocausto e la sua successiva concettualizzazione, risalente a non prima degli anni '60, hanno posto l'antisemitismo... su basi interamente nuove... Partire da queste nuove basi attuali per giudicare fatti e uomini del passato è... un puro moralismo privo di verità". Parole che destano in me una sensazione di attonito sbalordimento forse dovuto all'età e ai ricordi diretti di cosa fu l'antisemitismo nazi-fascista e l'orrore che percorse il mondo civile quando l'Armata rossa e gli Alleati liberarono gli ultimi sopravvissuti dei campi, fotografarono e filmarono le fosse dello sterminio, ne condannarono a Norimberga i principali responsabili. Possibile che Galli della Loggia abbia dovuto attendere il 1960 e la cosiddetta "concettualizzazione" della Shoah per accorgersi che c'era stata? E che questa tardiva presa di coscienza giustifichi un diverso giudizio morale e storico? Come, tra l'altro, ignorare che la percezione delle responsabilità europee nel non contrastare il Genocidio fu talmente incombente da spingere, più di ogni altro motivo, l'Onu a riconoscere Israele? Forse Galli elabora il suo giustificazionismo retroattivo attribuendo una qualche nobiltà alla rimozione iniziale che portò tanti tedeschi a dirsi che "non sapevano" o tanti francesi a dimenticare l'adesione convinta a Vichy e 3 milioni di delazioni contro gli ebrei durante l'occupazione, di cui solo ora si comincia a parlare. Quanto all'assoluzione della Chiesa, basata su una definizione dell'antigiudaismo come semplice "antipatia e repulsa storico-religiosa" essa semplicemente prescinde da duemila anni di roghi, massacri, ghetti, discriminazioni, battesimi forzati, persecuzioni di ogni tipo, tutte incardinate sulla colpa ebraica per la morte del Cristo.
Senza queste spaventose premesse, religiose e di fatto, la "soluzione finale" inventata da Hitler non sarebbe stata attuata nella indifferente acquiescenza di masse cattoliche, protestanti e ortodosse che avevano introiettato lo stilema secondo cui "a causa del loro crimine gli ebrei vanno tenuti in perpetua schiavitù", come, a esempio, nel Duecento recitava San Tommaso d'Acquino. Se così non fosse perché mai il Papa avrebbe chiesto perdono al Muro del pianto, sviluppando quella feconda revisione teologica inaugurata dal Concilio Vaticano II? Certo, se avesse ragionato come Galli della Loggia, se ne sarebbe astenuto.