venerdì 20 febbraio 2004

in «tempi difficili»

Corriere della Sera 20.2.04
«Quando il vivere si fa incivile, rinasce la poesia»
di GIUSEPPINA MANIN


«A Milano la gente fa la coda per ascoltare la poesia? A Roma, qualche sera fa al Teatro Argentina, per ascoltare la Bibbia letta e chiosata da Gioele Dix, c'era una fila che prendeva tutta la piazza...» assicura Giorgio Albertazzi. Notizie belle, piccoli miracoli.
«Più che sorprendersi, bisognerebbe aprire gli occhi. Rendersi conto anzitutto che non si vive, neanche in Italia, di sola tv. E poi capire che la poesia, l'arte, sono importanti spie sociali. Quando da qualche parte ne riscoppia la passione, vuol dire che lì si sta vivendo un momento particolare. I formalisti russi, così cari ad Arbasino e anche a me, sono nati nella Russia di Sdanov, nei tempi bui dello stalinismo. Nell'ultima guerra, mentre Londra e Berlino venivano massacrate dalle bombe, i teatri erano pieni, la gente voleva sentire Shakespeare e Goethe. I grandi movimenti culturali arrivano sempre durante i regimi, i governi liberticidi. Quando il vivere si fa incivile, la poesia ricompare: a esorcizzare morte e dolore, a indicare che non tutto è perduto».
In molti però sostengono che la poesia è esperienza solo letteraria, che non bisognerebbe mai recitarla.
«Che follia... È vero l'esatto contrario: la poesia non è fatta per essere letta ma per essere detta. È suono, ritmo, musica. La puoi capire solo leggendola ad alta voce. Me lo insegnò mio padre, tanti anni fa. Ero un ragazzino, stavo ancora alle medie, quando un giorno, invece del solito libro d'avventure, lui mi regalò la Divina Commedia. Lo sfogliai, incuriosito di trovarmi davanti, anziché le righe piene della prosa, quelle più corte dei versi. Lui mi guardava, spiava le mie reazioni. A un certo punto mi chiese di leggere quel che avevo sotto gli occhi, di farlo partecipe. Attaccai: "Nel mezzo del cammin di nostra vita...", di colpo quelle parole che mi parevano oscure presero corpo, si animarono. Scoprii che la poesia è parola. Qualche anno dopo, al liceo, scoprii che è anche azione, in greco poiesis è fare, ma anche dire poesia».
Un amore a prima vista.
«Diciamo a seconda. La cotta vera arrivò qualche classe dopo. Con i capelli rossi e gli occhi azzurri di una "prof" di lettere fascinosa come una sirena. Ero innamorato pazzo di lei. Quando mi chiamava a leggere Dante non capivo niente ma non volevo più smettere per stare un po' di più lì, accanto a lei».
Altri incontri per rinsaldare la passione?
«Neruda. Negli anni Settanta abbiamo inciso insieme un disco: "Venti poesie d'amore e una canzone disperata". Lui le diceva in spagnolo, io in italiano. Diventammo amici e andai a trovarlo a Isla Negra, in Cile, dove abitava con una donna bellissima, una sorta di deità latino americana. Sentire i versi di Pablo dalla bocca di Pablo era ipnotizzante: lui li cantava. Poi mi spiegò che quei versi li scriveva pensando di volta in volta a singoli strumenti musicali andini, a fiato o a corda. Ciascuno era modulato su un suono speciale, e quello andava ricreato dal lettore».
Lei conobbe anche Eliot.
«Quando venne a sapere che avevo registrato in italiano i suoi Four Quartets, si entusiasmò. È la lingua che amo di più, mi disse. E dopo aver ascoltato l'incisione: "Mi piacerebbe che qualcosa del genere venisse fatta anche in Gran Bretagna, ma dubito che qui esista un attore come Albertazzi". Naturalmente non è così, l'Inghilterra è la patria dei più grandi interpreti... Ma mi fece ugualmente un gran piacere».
A proposito d'attori, chi a suo parere aveva più affinità con la poesia?
«Ci sapeva fare Gérard Philippe. Insieme tentammo la scommessa dei poeti francesi, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire... Sempre in disco, una facciata lui in francese, l'altra io in italiano. Lui aveva un naturale talento per cogliere i ritmi, a differenza dei suoi colleghi francesi, così spesso afflitti da quell'insopportabile "ron ron", quella cadenza che rende tutto noiosamente uguale. La voce di Gérard, delicata e gentile, scavava dentro il verso, andava dritta alla sua musicalità».
E gli italiani? Come ce la caviamo noi, popolo di poeti, con i «reading»?
«Forse la colpa è di alcune scuole di recitazione, ma i nostri attori non sembrano avere un grande orecchio. Al contrario dei tedeschi o dei russi, trascurano il fatto che il ritmo ha a che fare con la metrica, anche quando è libero. Pochi l'hanno capito: Gassman, che è stato maestro nelle letture degli americani, Ferlinghetti, Corso... Anna Proclemer: il 33° canto del Paradiso lei lo legge in modo ineguagliabile. E naturalmente Carmelo Bene, il più grande di tutti, un vero musicista».
I versi più difficili?
«Quelli leopardiani. Ho studiato le sue poesie per 30 anni, per cercare l'atmosfera giusta ho inciso il disco di notte, a Venezia. Il trabocchetto di Leopardi è che spesso lo si crede un romantico. Non lo è. Lo si crede pessimista. Non lo è. Solo dopo aver ascoltato mille volte "L'infinito" ho capito come dirlo, come un grande inno alla natura».
I versi più moderni?
«Quelli di Dante e di Shakespeare. Perché sanno comunicare con tutti. Shakespeare si faceva intendere dagli analfabeti che affollavano il suo Globe, Dante, se lo sai dire, trascina le folle. L'estate scorsa, una notte di luglio, dalla Torre degli Asinelli di Bologna, ho letto canti dall'Inferno, Purgatorio, Paradiso. Sotto, ad ascoltare, erano in ventimila. Un'esperienza straordinaria. La poesia cantata nelle piazze può diventare davvero qualcosa di collettivo, di massa. Altro che Grandi Fratelli... Raidue pare intenzionata a mandare in onda prossimamente un pezzetto di quell'evento. Ma la tv di oggi è totalmente allergica alla poesia».
Pensa che potrebbe funzionare in video?
«Molti anni fa ci avevo provato. Conducevo un programma, "Pomeridiana", dove arrivavano i maggiori poeti viventi, da Luzi a Zanzotto, da Petrocchi a Gatto. Lo studio era il prato della mia villa di Roma. Lì, sdraiati sull'erba insieme a gruppetti di studenti, li invitavo a leggere ciascuno le proprie poesie, in modo che quei giovani si abituassero, come diceva Saffo, a riconoscere la sonorità del verso. Che poi è la stessa del coro greco, del melodramma. Perché i grandi sentimenti li devi cantare. Ma lo puoi fare solo se sai leggere la partitura».