venerdì 20 febbraio 2004

pigrizia?

La Stampa 20.2.04
DA SOCRATE A OBLOMOV, DA EINSTEIN ALLA ARENDT: ESCE IN GERMANIA L'«ENCICLOPEDIA DELLA PIGRIZIA». SENZA CONTRIBUTI ITALIANI
Chi dorme piglia pesci
e scrive capolavori
di Alessandro Melazzini


COS'HANNO in comune Albert Einstein, Richard Wagner, Thomas Mann e Hermann Hesse? La convinzione che il loro illustre compatriota Immanuel Kant si sia sbagliato. Il filosofo tedesco, noto per il suo rigorismo etico, considerava infatti la pigrizia come uno dei vizi peggiori. D'altronde Kant non è certo l'unico intento a confermare l'immagine del tedesco solerte lavoratore, magari in contrasto a quella dell'italiano un poco scansafatiche. L'attuale cancelliere Gerard Schröder, qualche tempo fa, ha ribadito ad esempio che in Germania «nessuno ha diritto alla pigrizia». Chissà se così dicendo si sarebbe ingraziato il voto di Einstein, noto per aver bisogno ogni giorno di almeno 12 ore di sonno.
A conferma che il dolce far niente ha sempre avuto molti ammiratori, proprio in Germania, presso i tipi della Eichborn di Francoforte, è uscita un'Enciclopedia della pigrizia. Curata dal giornalista e storico Wolfgang Schneider, l'opera è anche una gustosa antologia di inni all'ozio, cantati da illustri «pigroni» nel corso degli ultimi tremila anni. Come ben sapevano i Romani, era proprio nel momento dell'otium che l'uomo, finalmente libero dagli affari e dalle occupazioni quotidiane (i negotia), si poteva interamente dedicare a se stesso e alla nobile attività della contemplazione. Del resto, con quale diritto si devono condannare il riposo e l'inazione come vizi capitali? Se San Paolo mette severamente in guardia i Tessalonicesi, ammonendoli con il proverbiale detto «chi non lavora, non mangia», già nella Grecia pagana il grande Socrate considerava il tempo libero da impegni come il bene maggiore. Su questo punto anche Aristotele, solitamente critico verso le idee del saggio portavoce di Platone, si dimostra in accordo con il suo maestro. «Virtù e lavoro», afferma solennemente lo Stagirita, si escludono a vicenda; il lavoro, liquida sdegnoso, è cosa per gli schiavi.
Il lettore che volga lo sguardo al secolo da poco trascorso non fatica a trovare triste conferma di questo sferzante giudizio. Senza pensare alla lugubre insegna che accoglieva i deportati nei campi di concentramento nazisti, cos'è stata la propaganda comunista sovietica, così tenacemente volta alla spasmodica esaltazione del lavoro (si pensi al mito di Stakanov), se non il preciso progetto di ridurre l'uomo libero a ingranaggio della fabbrica totalitaria, per asservirlo e schiavizzarlo?
Immuni al fascino della pigrizia non sono stati neppure i filosofi del Novecento: Hannah Arendt, ad esempio, che trovava spesso ispirazione nei momenti di relax sull'amaca, o Miguel de Unamuno che, tra una riflessione e l'altra sul Sentimento tragico della vita, innalzava lodi all'indolenza, notando come lo sfaccendato sia «uno degli uomini più attivi».
E nonostante l'esortazione dell'apostolo Paolo, non si pensi che gli elogi all'inattività siano esclusi dal messaggio cristiano. Anzi, proprio nel famoso Discorso della Montagna, non è forse Gesù stesso a osservare che, pur senza filare e faticare, i gigli della campagna vantano abiti più eleganti di quelli del glorioso Salomone?
Alla figura dello scioperato sono poi state dedicate affascinanti pagine letterarie. In ambito tedesco, si pensi ad esempio alla Vita di un perdigiorno di Eichendorff o allo Knulp di Hermann Hesse. Ma è forse nell'Oblomov del russo Goncharov che l'apatia viene elevata a stile di vita e «Weltanschauung». Oblomov, un proprietario provinciale di Pietroburgo, trascorre tutto il suo tempo a rivoltarsi nel letto, inconcludente e insensibile, aspettando sonnolento che sia la vita a bussargli alla porta.
Molti intellettuali, infine, seppur più produttivi di Oblomov, in gioventù sono stati ben lontanti dal dedicare impegno ed energia all'attività scolastica. Sia Thomas Mann sia Richard Wagner, così come Hermann Hesse, addirittura non portarono a compimento i loro studi. Se quest'ultimo era solito affermare che la scuola gli aveva causato «molti danni», nondimeno Thomas Mann ricorda di essere stato un alunno «pigro, impenitente e pieno di sarcasmo».
Ma chi, abbandonata la cultura, volesse cercare nella natura il riscatto del lavoro, andrebbe incontro a notevoli sorprese. Dopotutto, si potrebbe opinare, non è forse nel regno animale, in cui domina la lotta per la vita, che vi sono i più edificanti esempi di impegno e operosità? Senza contare che in natura abbondano lumache, tartarughe e cicale, i controesempi sono numerosi. Si pensi agli astuti orsi dell'Alaska, che per cacciare i pesci si piazzano sotto le cascate, aspettando placidamente che la preda cada loro in bocca. Oppure al furbo cucù, talmente lavativo da posare le uova nei nidi degli altri uccelli, risparmiandosi così la fatica di allevare i pargoli affamati. Le uniche a salvarsi paiono essere le api operaie, simbolo per eccellenza di alacre laboriosità. E invece gli scienziati hanno scoperto che un'ape trascorre addirittura il 70 per cento della sua giornata a oziare. Senza contare l'inverno, quando gli unici impegni sono consumare le dispense di miele e conservare calda l'arnia. Forse uno stile di vita da imitare, se si guarda al numero sempre crescente di infarti e malattie da stress dovuti ai troppo frenetici ritmi di lavoro della società contemporanea.
Nella sfilata antologica di intellettuali arruolati da Schneider per difendere la fannulloneria si nota con sorpresa l'assenza di contributi italiani. Ma, come sapeva bene Cesare Pavese, Lavorare stanca, e ulteriori ricerche sarebbero probabilmente costate a Schneider troppa fatica.