venerdì 20 febbraio 2004

Oriente e Occidente

L'Eco di Bergamo 19.2.04
Guardi il romanico e scopri il lontano Oriente
di Giulio Brotti


I bassorilievi del Battistero di Parma sembrano portare fino a Buddha. E non è l'unico caso
I manuali di geografia astronomica ci informano che in generale l'«Oriente» e l'«Occidente», i punti dell'orizzonte in cui il sole sorge e tramonta, non hanno direzioni fisse, costanti nell'arco dell'anno. Lo studio delle culture umane nel tempo, poi, ci fa capire come per i crociati il «vero» Oriente coincidesse con il Santo Sepolcro, a Gerusalemme, e per Marco Polo con Cambaluc, la capitale dell'impero di Kublai Khan (presso l'attuale Pechino). Il termine rimanda così a significati differenti, ma al tempo stesso collegati nell'immaginario collettivo, per cui l'Oriente non è solo un punto cardinale, ma una dimensione interna ad ogni uomo, luogo psichico della nascita, del dono, della promessa.
Lo splendore delle culture orientali è il titolo del quinto volume della Storia Universale, in vendita da domani con «L'Eco di Bergamo»: un volume davvero da non perdere, perché ci parla di civiltà estese quanto l'Impero di Roma, fondamentali nel corso dell'intera storia umana, ma solitamente neglette dai nostri manuali scolastici ed enciclopedie. Una trascuratezza che ha delle radici profonde: risalgono all'inizio dell'Ottocento, quando la cultura europea fu tentata di assolutizzare il suo punto di vista, di concepirsi come la chiave di volta e il coronamento della storia complessiva dell'umanità. Hegel, rappresentante emblematico di questa concezione, guardava dall'alto in basso tutte le civiltà sorte, nel corso dei secoli, ad Est del Bosforo: «In una singola nazione – scriveva – può pur accadere che si arrestino la cultura, l'arte, la scienza, le facoltà intellettuali in genere; come sembra essere accaduto ad esempio presso i cinesi, i quali giunsero già duemila anni fa al livello di sviluppo in cui si trovano ora». Solo dalle nostre parti, dunque, il pensiero umano sarebbe uscito dalla sua condizione infantile, adottando una forma logica e scientifica, congedandosi dal mito.
Si potrebbe pensare che questi giudizi – con il senno di poi – suonino ancor più ingenui che irritanti, e che oggigiorno, in fondo, siamo tutti posti di fronte all'assioma dell'interdipendenza tra gli esseri umani e le culture, in ogni zona del pianeta. Qui, però, vorremmo piuttosto approfondire l'aspetto degli antecedenti storici di ciò che oggi va sotto il nome di globalizzazione, prendendo spunto da un libro bellissimo di uno storico di origini lituane, Jurgis Baltrusaitis (1903-1988), intitolato «Il medioevo fantastico»: in questo volume, egli rintracciava i «debiti» dell'arte gotica europea nei confronti dell'Asia, i motivi e gli stili che l'iconografia occidentale del medioevo ha ereditato dall'Oriente. Viaggiando nello spazio e nel tempo, questi elementi artistici possono anche ricoprirsi di nuovi significati, fino a rendere difficile la ricostruzione della loro matrice originaria. Talvolta, all'opposto, è ancora possibile comprendere loro genealogia: è questo il caso della celebre «Allegoria della Vita» scolpita nella lunetta del portale sud del Battistero di Parma.
Sappiamo poco dell'autore di questo capolavoro: architetto e scultore, Benedetto Antelami veniva forse dalla zona di Como (se vale l'ipotesi per cui il suo «cognome» significherebbe in realtà «della Val d'Intelvi»). Sicuramente, Antelami ebbe una conoscenza diretta dell'arte romanica francese, soprattutto provenzale, prima di giungere a Parma, alla fine del XII secolo. Qui lavorò nel duomo, in cui scolpì una celebre Deposizione, e poi, a partire dal 1196, diresse la fabbrica del Battistero. Qui, appunto, ci ha lasciato un'insolita allegoria: al centro del bassorilievo, un uomo si arrampica su un albero per raggiungere un favo – anzi, con la mano sinistra è già intento a estrarne il miele, e con la destra se lo porta alla bocca. Sotto di lui però, un drago, lanciando fiamme dalla bocca spalancata, si prepara a divorarlo, mentre due strani quadrupedi (forse maiali, o cani) sono intenti a rodere le radici della pianta.
Ai lati della scena principale, la doppia immagine «clipeata» del Sole e della Luna, rappresentati anche come Apollo e Diana alla guida dei rispettivi carri, costituisce un tributo di Antelami all'iconografia classica, e insieme accentua il pathos della scena: così come i due fanciulli nudi che annunciano l'arrivo della notte suonando delle trombe, e i due, vestiti, che cercano – invano – di fermarne il cammino, con delle specie di bastoni. Qui, è chiaro, l'immagine dell'ignaro freeclimber rappresenta tutti noi: riusciremo a vincere la nostra gara con la brevità della vita, arriveremo mai a conseguire l'oggetto del nostro desiderio, prima che le radici dell'albero su cui siamo appollaiati cedano?
Fra tante immagini analoghe, tipiche del genere artistico del memento mori, l'Allegoria di Parma ha una particolarità: la scena dell'uomo sull'albero ricorre, ad esempio, in alcune miniature di salteri greci e slavi dell'XI secolo, ma anche dipinta in un chiostro di Gmünd, in Germania. Passando alle fonti letterarie, poi, scopriamo che il racconto, inserito in una particolare cornice narrativa (la cosiddetta «leggenda dei Santi Barlaam e Josafat») è quasi un luogo comune dell'immaginario medievale: spostandosi verso Est i particolari cambiano, così come i nomi dei personaggi, ma la narrazione compare, sostanzialmente immutata, in Italia e lungo il Danubio, in Georgia, in Medio Oriente, tra cristiani di ogni confessione, manichei, musulmani. I dettagli si adattano al contesto in cui la narrazione è ripresa e rielaborata: secondo i casi, la leggenda prende le mosse da un personaggio di nome Barlaam, descritto come un devoto eremita che converte alla fede cristiana il principe pagano Josafat, o come un mistico musulmano, un sufi, intento a dimostrare la vanità degli idoli e l'assurdità del politeismo.
In ogni modo, la scena del «cacciatore di miele» da cui siamo partiti è un apologo, una storiella moraleggiante, che l'anziano e saggio Barlaam espone al giovane Josafat, divenuto suo discepolo. Secondo il testo di un papiro arabo, «un uomo, inseguito da un elefante, si nascose in un pozzo. Quivi rimase appeso tenendosi stretto a due rami che salivano lungo le pareti del pozzo. E come si mise a guardare i due rami vide che due sorci (uno bianco, l'altro nero) rosicchiavano senza interruzione le radici dei due rami, mentre giù, nella profondità del pozzo, vide un drago con la bocca spalancata che aspettava solo di divorarlo. Allora rialzò la testa verso i due rami e vide che vi si trovava un po' di miele. Nella furia del piacere, la dolcezza che provò nell'assaggiare quel miele lo distrasse dal pensare al drago con la bocca spalancata, quantunque ben sapesse che cosa sarebbe successo se fosse caduto nelle sue fauci».
Nelle versioni occidentali della leggenda, il principe Josafat, istruito da questa metafora, si converte al cristianesimo e diviene poi un santo. Man mano che si procede verso Oriente, però, la fisionomia del giovane catecumeno cambia: Josafat assomiglia ora a un monarca malinconico e con una certa vocazione alla filosofia, impegnato nella ricerca di un modo per sfuggire ai dolori dell'esistenza umana. In Persia, il suo nome si modifica in Bûdâsaf e in India, in Bodisav. Alle origini di una lunga serie di metamorfosi redazionali, troviamo così, inaspettatamente, la figura del Bodhisattva (in sanscrito, «Natura Luminosa»), un tradizionale appellativo di Gautama Siddharta, il Buddha, nato a Lumbini (nell'odierno Nepal) intorno al 540 a.C.. Certamente ignorava, Benedetto Antelami, mentre scolpiva il bassorilievo del Battistero di Parma, di essere l'ennesimo testimone di una tradizione spirituale iniziata un millennio e mezzo prima, nel centro dell'Asia, da un giovane monarca deciso a indagare e a sopprimere le cause del samsâra: l'insieme dei miraggi e degli affanni che gravano sulla nostra esistenza, «la selva impenetrabile – recita un testo indiano – nel cui fondo, come un immane drago, è il Tempo (kâla), distruttore di tutti gli esseri esistenti, rapitore universale degli esseri dotati di corpo».
Così, nonostante il severo giudizio di Hegel su una presunta «minorità spirituale» dell'Oriente, gli storici hanno trovato, nel caso della lunetta di Parma e in molti altri, le prove di un'osmosi profonda tra le civiltà asiatiche e l'Europa: può essere, ad esempio, che l'arte macabra diffusasi in Occidente verso la fine del medioevo (pensate alla Danza dell'Oratorio dei Disciplini di Clusone) sia stata ispirata ai viaggiatori, o ai missionari cristiani, dai balli rituali del Tibet, in cui compaiono spessissimo tibie e teschi umani. Pensando a questo, viene in mente la definizione che Carl Gustav Jung dava del simbolo, come misteryum coniunctionis: prodigioso annullamento delle distanze, con il quale ciò che sembrava irrimediabilmente frammentato si salda, ogni cosa recupera il suo proprio nome, e il mondo risulta infine abitabile dagli esseri umani.