venerdì 20 febbraio 2004

Jean Rouch:
la macchina da presa può vedere le qualità interne degli esseri

il manifesto 20.2.04
RICORDO
Uno stregone eccentrico del cuore
Sintetizzò le tendenze di Dziga Vertov e Robert Flaherty, i suoi «antenati totemici»
ENRICO FULCHIGNONI*


Anche se tutte le storie del cinema menzionano il nome di Jean Rouch, egli continua tuttavia a rimanere uno degli autori più «criptici nel gotha della settima arte». Può anche darsi che sia un'ingiustizia, ma è certo anche il modo che Rouch ha, in questo modo sfuggente, di riaffermare orgogliosamente i suoi poteri di stregone. Uno stregone le cui opere rivelano una straordinaria vitalità: un'ansia di muoversi, di correre, di invadere, di inerpicarsi che lo avvicina irresistibilmente a uno dei suoi «antenati totemici»: Vertov. Giovane, vivace, disposto a allearsi anche col diavolo, raffinato, divertente, mordace, generoso, l'esatto contrario del francese medio insomma, Rouch invece rappresenta per me il francese tipo. Con la sua noncuranza, la sua vivacità, la sua gentilezza di stampo antico e le sue ampiezze - mai una caduta di stile, mai una mancanza di tatto - Jean Rouch ama la vita, e ne viene ampiamente contraccambiato. Egli è moderato ma senza avarizie, elegante ma senza ostentazione, amichevole ma senza indiscrezioni, gaudente ma senza eccessi. Rouch ha la stessa levatura dei La Pérouse e dei Cartier, il suo buonumore è irresistibile, rebelaisiano. E finirà col passare la sua vita intera filmando, come fanno i pesci nuotando nell'acqua: e continuando a aver fiducia nell'autenticità degli uomini nella loro vera natura.
Ma c'è un'altra «chiave» per capire il suo lavoro creativo. Rouch, come Flaherty, l'altro suo «antenato totemico», crede nel potere che ha la macchina da presa di vedere, oltre le possibilità dell'occhio umano, le qualità interne degli esseri e le cose. Ed è in questo senso che impiega il termine «magia» per descrivere la sua operazione alchemica. A causa di questa sfasatura, i suoi personaggi ci offrono, quasi sempre, un carattere di singolare buffoneria, intinta di un'emozione misteriosa nel comico come nel dramma, perché la loro natura resta completamente differente da quella di coloro che ci capita di incontrare per strada. Il contrasto è strano e costante: le creature di Rouch, già in apertura, ci sono familiari, e tuttavia si collocano nella notte dei tempi; vivono nel presente ma si situano all'origine di tutto. Non smettono mai di affascinarci poiché, sotto le apparenze del visibile, restano in realtà inaccessibili. E questo incessante andirivieni dalla più estrema lontananza alla più intima familiarità restituisce davanti a noi la sua vera dimensione all'avventura umana. Tutto ciò potrebbe tuttavia sfociare in uno di quei prodotti intellettualistici che tanto appassionano ristrette conventicole di iniziati. Se non fosse che Rouch è l'esatto contrario di un artista intellettuale: la sua adesione carnale ai mondi che sa rivelarci, apre la strada per penetrare in quella relazione sofferta, esaltante, tesa, ma conforme a un'armonia cosmica tra l'uomo e il suo ambiente, che costituisce in fondo, il tema principale della sua opera. Ma c'è qualcos'altro che lo difende dall'intellettualismo: la sua grande bontà. Non credo infatti che Rouch abbia rivolto, neanche una volta in tutta la sua vita, uno sguardo sprezzante su qualcuno o su qualcosa.
Non lo si sente mai sparlare di nessuno, perché non c'è veleno nella sua anima che è ancora, in fondo, piena di entusiasmi infantili. I suoi paesaggi, le sue creature ci apportano sentimenti di pace e di amicizia che assolvono a una funzione rassicurante, pur senza mai passare attraverso scorciatoie come l'analogia, il principio d'identità, le facili emozioni. Tutto ciò non può non derivare da una costanza pratica, dalla solidarietà e dal rispetto umano. Rouch infatti è capace - nella vita - delle più ardue e umili prove di devozione, quanto delle più clamorose follie d'amicizia. È il più straordinario e seducente eccentrico del cuore. In lui c'è come qualcosa di commovente e burlesco al tempo stesso. L'aspetto farsesco deriva dal pudore: anche se pochi, come lui, hanno saputo - e le sue opere sono piene di attestati in tal senso - testimoniare con gravità e nobiltà i momenti più alti di uomini e civiltà. Una regione segreta, una certa solitudine altera in cui si rifugiano gli esseri e le cose: da ciò deriva la particolare bellezza dei territori più recentemente frequentati da Rouch. Solitudine che non è mai condizione miserabile, quanto piuttosto regalità segreta, territorio in cui l'artista, il veggente, riesce a rivelare per noi l'aldilà delle cose, risalire i millenni, raggiungere l'immemorabile notte popolata di morti, farci immergere, insomma, nell'acqua vivificante di miti che si credeva perduti per sempre.

* Il ricordo di Enrico Fulchignoni, docente di psicologia, alto funzionario dell'Unesco e regista di «I due foscari» (1942), «L'ebreo errante» (1947) e «Anni difficili» (1948), è inserito all'interno del catalogo «Jean Rouch - le Renard Pâle» del Museo nazionale del cinema di Torino