Gazzetta del Sud 30.4.04
«L'introduzione al cristianesimo» del cardinale Ratzinger (*)
Ragioni della fede in Dio e in Gesù
di Luigi Ferlazzo Natoli
(*) Prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della fede, l'ex Sant'Offizio.
(...)
Inevitabilmente si giunge, così, all'idea del Lógos come custode nella fede cristiana in Dio e a tal fine il prologo di Giovanni è illuminante: «Il termine Lógos significa ragione, senso, ma anche parola; quindi un senso che è parola, che è relazione, che è creativo. Dio che è Lógos, assicura all'uomo la sensatezza del mondo, la sensatezza dell'esistere, la corrispondenza di Dio alla ragione e la corrispondenza della ragione a Dio, sebbene la sua ragione travalichi continuamente la nostra e spesso possa sembrarci oscura». In questo punto del saggio ratzingeriano riecheggiano, a parer mio, le riflessioni di Papa Wojtyla nella sua magistrale enciclica «Fides et ratio» e si perviene, così, alla visione positiva del mondo nonostante le sofferenze e nonostante l'incomprensione umana della realtà. In definitiva, «il mondo nasce dalla ragione e questa ragione è persona, amore: è questo il messagio della fede biblica in Dio. La ragione può parlare di Dio, devi anzi parlare di Dio, se non vuole amputare se stessa. Alla ragione è legata l'idea della creazione. Il mondo non si riduce all'infinita ruota delle sofferenze a cui l'uomo deve cercare di sottrarsi. Il mondo è positivo...».
(...)
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 30 aprile 2004
neodarwinismo e Desmond Morris
Corriere della Sera 30.4.04
PERSONAGGI
L’etologo inglese racconta la propria visione del mondo
«L’uomo è l’animale più presuntuoso del Creato»
Negli Anni Sessanta fece un certo scalpore e riscosse un enorme successo "La scimmia nuda" di Desmond Morris, uno zoologo inglese votatosi alla divulgazione. Vi si analizzavano i comportamenti dell’animale uomo con gli occhi di uno scienziato che l’osserva come se si trattasse di una specie qualsiasi, sottolineandone i tic e le compulsioni dovuti ai condizionamenti biologici e culturali, ma anche l’unicità e la grande libertà di orizzonti, in un quadro di riferimento di tipo naturalistico. Desmond Morris, oggi settantaseienne, racconta la sua vita e la sua visione del mondo umano e animale in Linguaggio muto. L’uomo e gli altri animali , un piccolo, delizioso libretto della serie «Dialoghi» che l’Editore Di Renzo (pagine 96, 10) dedica da qualche anno a varie personalità di spicco, in campo scientifico e non. Morris vi delinea a grandi tratti la sua biografia e la sua carriera di etologo umano o, se si preferisce, di zoologo metropolitano, che partito dall’osservazione degli animali ha finito per fissare sempre più insistentemente la sua attenzione su quel particolarissimo animale che è l’uomo. In questo panorama non possono non risaltare gli elementi del confronto con le specie a noi più affini, le nostre cugine scimmie antropomorfe.
A nessuno piace l’idea di discendere dalle scimmie o, meglio, da un antenato che condividiamo con quelle. Che tutte le specie viventi derivino, per discendenza diretta, da un piccolo gruppo di organismi primordiali, viene oggi generalmente accettato. Ma conosco pochissimi italiani che abbiano una certa familiarità con i meccanismi evolutivi proposti dalla teoria attuale, il neodarwinismo, che li condividano e soprattutto che non invochino, come ha fatto del resto apertamente la Chiesa, l’esistenza di un «salto ontologico» fra l’uomo e i suoi antenati. Nell’opinione di queste persone, in sostanza, la teoria dell’evoluzione va bene per i tapiri, i pipistrelli e i formichieri, ma non per gli esseri umani, che preferiscono considerare come angeli decaduti piuttosto che come animali evoluti.
Può essere che abbiano ragione loro; in fondo l’uomo è l’animale più presuntuoso del creato. Comunque siano andate le cose, mi pare estremamente utile e direi illuminante cercare di capire che cosa, effettivamente, ci separa dalle scimmie. La domanda è più che appropriata in questo periodo di grandi novità biologiche, prima fra tutte la decifrazione e la comparazione dei genomi delle varie specie. Certo non possiamo pensare che la differenza fra noi e gli scimpanzè si riduca all’attività di un singolo gene, che si tratti di un gene che ha a che fare con il linguaggio, come FoxP2 o di una proteina muscolare, una miosina, che, divenuta più tenace e robusta, avrebbe liberato l’uomo dalla necessità di possedere potentissimi muscoli masticatori, per lasciare lo spazio necessario per il possesso di un cervello molto più grande. Ci vuole ben altro. Ma che cosa esattamente?
La biologia degli Anni Sessanta ci mostrò che moltissime proteine, presenti nel nostro corpo, sono straordinariamente simili a quelle delle scimmie antropomorfe. E' di quegli anni l’affermazione spesso ripetuta che uomo e scimpanzè si assomigliano biologicamente al 98% o più, anche se in realtà non è paragonando la struttura delle proteine che si può avere un’idea precisa della somiglianza e della differenza fra le specie. L’analisi dei geni corrispondenti ha confermato l’eccezionale grado di somiglianza biologica che ci lega ai grandi primati e l’imminente completamento del genoma dello scimpanzè non potrà che fornirci un’ulteriore conferma. E fornirci forse una nuova stima percentuale, per quello che può valere. Si pensi a tale proposito che la differenza di un solo nucleotide su tre miliardi, vale a dire uno scarto dello 0,00000003%, il minimo possibile, può separare un uomo vivo da un uomo morto.
I genomi di tutte le specie contengono regioni strutturali e regioni regolatrici. Le regioni strutturali specificano la composizione delle diverse proteine, le molecole delle quali siamo fatti tutti. Le regioni regolatrici controllano invece il quando, il quanto e il dove della produzione delle stesse. Una differenza in una regione strutturale può alterare la natura di una proteina e anche condurre a morte l’organismo interessato, ma non ne cambierà significativamente la morfologia e la fisiologia. Una differenza in una regione regolatrice può invece trasformare radicalmente un organismo, cambiandone la forma del cranio, la struttura della laringe, lo spessore della corteccia cerebrale, la disposizione di alcune sue regioni anatomo-funzionali, la distribuzione della peluria sul corpo o della dentatura nella bocca e via discorrendo. Si può passare così con continuità e quasi insensibilmente da una bertuccia a una Berta o a un Alberto. Prepariamoci a gustarci grosse novità su questo piano.
Ma ritorniamo a Desmond Morris e al suo aureo libretto. Vi si può trovare un gran numero di osservazioni, su quello che ci accomuna agli scimpanzè e su quello che ci differenzia da questi, sul significato dei nostri gesti e del nostro modo di vestire, sul clima delle manifestazioni sportive e sulla superstizione, sulla conflittualità e sui contrasti tra generazioni, sulla differenza dei sessi e sul turismo culturale.
Parlando degli aspetti tribali delle opposte tifoserie del calcio ci fa vedere, a esempio, come «metaforicamente, ogni settimana, i tifosi uccidono una grande preda e il momento dell’uccisione è rappresentato dal goal. Quando la palla colpisce la rete, è come se la tribù avesse ucciso un temibile animale e tutti allora possono festeggiare l'avvenimento». E che dire dei contrasti fra generazioni? Morris osserva che di necessità «i giovani di oggi, vestiti in modo così trasgressivo, diventeranno inevitabilmente gli ottusi tradizionalisti di domani e, a loro volta, resteranno inorriditi dalla nuova ondata che li seguirà».
Il bello è poi che si finisce sempre per affermare «che le abitudini delle nuove generazioni sono, in qualche misura, un decadente declino dei valori più nobili della generazione precedente». Sono almeno cinquemila anni che assistiamo impotenti alle stesse scene e dobbiamo ascoltare le stesse recriminazioni. Per deliziarci delle quali alcuni si fanno anche pagare. Occorrerebbe ogni tanto pensare a queste cose. O forse occorrerebbe solo pensare.
L’autore
Desmond Morris nasce a Purton, nel Wiltshire, in Inghilterra, il 24 gennaio 1928. Etologo e sociologo (ma anche grande appassionato di pittura e arte moderna), Morris ha raggiunto grande notorietà come conduttore di programmi sugli animali per conto della BBC e come divulgatore.
Il suo libro più celebre è «La scimmia nuda» (Mondadori, 1967 / Bompiani, 2001) ancora oggi considerato uno dei maggiori successi editoriali mondiali nel settore della divulgazione scientifica. In questo libro, Morris accentra la propria attenzione sull’uomo, osservato e indagato come una scimmia, l’unica sprovvista di peli.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia: «L’uomo e i suoi gesti» (Mondadori, 1978); «La tribù del calcio» (Mondadori, 1982); «Il cane» (Mondadori, 1988); «Capire il gatto» (Mondadori, 1991); «L’animale uomo» (Mondadori, 1994); «I gesti del mondo. Guida al linguaggio universale» (Mondadori, 1995); «Il comportamento intimo» (Mondadori, 2000); «Amuleti e talismani» (Hops Tecniche Nuove, 2000); «L’occhio nudo. Giro del mondo alla scoperta dell’uomo» (Mondadori, 2001).
PERSONAGGI
L’etologo inglese racconta la propria visione del mondo
«L’uomo è l’animale più presuntuoso del Creato»
Negli Anni Sessanta fece un certo scalpore e riscosse un enorme successo "La scimmia nuda" di Desmond Morris, uno zoologo inglese votatosi alla divulgazione. Vi si analizzavano i comportamenti dell’animale uomo con gli occhi di uno scienziato che l’osserva come se si trattasse di una specie qualsiasi, sottolineandone i tic e le compulsioni dovuti ai condizionamenti biologici e culturali, ma anche l’unicità e la grande libertà di orizzonti, in un quadro di riferimento di tipo naturalistico. Desmond Morris, oggi settantaseienne, racconta la sua vita e la sua visione del mondo umano e animale in Linguaggio muto. L’uomo e gli altri animali , un piccolo, delizioso libretto della serie «Dialoghi» che l’Editore Di Renzo (pagine 96, 10) dedica da qualche anno a varie personalità di spicco, in campo scientifico e non. Morris vi delinea a grandi tratti la sua biografia e la sua carriera di etologo umano o, se si preferisce, di zoologo metropolitano, che partito dall’osservazione degli animali ha finito per fissare sempre più insistentemente la sua attenzione su quel particolarissimo animale che è l’uomo. In questo panorama non possono non risaltare gli elementi del confronto con le specie a noi più affini, le nostre cugine scimmie antropomorfe.
A nessuno piace l’idea di discendere dalle scimmie o, meglio, da un antenato che condividiamo con quelle. Che tutte le specie viventi derivino, per discendenza diretta, da un piccolo gruppo di organismi primordiali, viene oggi generalmente accettato. Ma conosco pochissimi italiani che abbiano una certa familiarità con i meccanismi evolutivi proposti dalla teoria attuale, il neodarwinismo, che li condividano e soprattutto che non invochino, come ha fatto del resto apertamente la Chiesa, l’esistenza di un «salto ontologico» fra l’uomo e i suoi antenati. Nell’opinione di queste persone, in sostanza, la teoria dell’evoluzione va bene per i tapiri, i pipistrelli e i formichieri, ma non per gli esseri umani, che preferiscono considerare come angeli decaduti piuttosto che come animali evoluti.
Può essere che abbiano ragione loro; in fondo l’uomo è l’animale più presuntuoso del creato. Comunque siano andate le cose, mi pare estremamente utile e direi illuminante cercare di capire che cosa, effettivamente, ci separa dalle scimmie. La domanda è più che appropriata in questo periodo di grandi novità biologiche, prima fra tutte la decifrazione e la comparazione dei genomi delle varie specie. Certo non possiamo pensare che la differenza fra noi e gli scimpanzè si riduca all’attività di un singolo gene, che si tratti di un gene che ha a che fare con il linguaggio, come FoxP2 o di una proteina muscolare, una miosina, che, divenuta più tenace e robusta, avrebbe liberato l’uomo dalla necessità di possedere potentissimi muscoli masticatori, per lasciare lo spazio necessario per il possesso di un cervello molto più grande. Ci vuole ben altro. Ma che cosa esattamente?
La biologia degli Anni Sessanta ci mostrò che moltissime proteine, presenti nel nostro corpo, sono straordinariamente simili a quelle delle scimmie antropomorfe. E' di quegli anni l’affermazione spesso ripetuta che uomo e scimpanzè si assomigliano biologicamente al 98% o più, anche se in realtà non è paragonando la struttura delle proteine che si può avere un’idea precisa della somiglianza e della differenza fra le specie. L’analisi dei geni corrispondenti ha confermato l’eccezionale grado di somiglianza biologica che ci lega ai grandi primati e l’imminente completamento del genoma dello scimpanzè non potrà che fornirci un’ulteriore conferma. E fornirci forse una nuova stima percentuale, per quello che può valere. Si pensi a tale proposito che la differenza di un solo nucleotide su tre miliardi, vale a dire uno scarto dello 0,00000003%, il minimo possibile, può separare un uomo vivo da un uomo morto.
I genomi di tutte le specie contengono regioni strutturali e regioni regolatrici. Le regioni strutturali specificano la composizione delle diverse proteine, le molecole delle quali siamo fatti tutti. Le regioni regolatrici controllano invece il quando, il quanto e il dove della produzione delle stesse. Una differenza in una regione strutturale può alterare la natura di una proteina e anche condurre a morte l’organismo interessato, ma non ne cambierà significativamente la morfologia e la fisiologia. Una differenza in una regione regolatrice può invece trasformare radicalmente un organismo, cambiandone la forma del cranio, la struttura della laringe, lo spessore della corteccia cerebrale, la disposizione di alcune sue regioni anatomo-funzionali, la distribuzione della peluria sul corpo o della dentatura nella bocca e via discorrendo. Si può passare così con continuità e quasi insensibilmente da una bertuccia a una Berta o a un Alberto. Prepariamoci a gustarci grosse novità su questo piano.
Ma ritorniamo a Desmond Morris e al suo aureo libretto. Vi si può trovare un gran numero di osservazioni, su quello che ci accomuna agli scimpanzè e su quello che ci differenzia da questi, sul significato dei nostri gesti e del nostro modo di vestire, sul clima delle manifestazioni sportive e sulla superstizione, sulla conflittualità e sui contrasti tra generazioni, sulla differenza dei sessi e sul turismo culturale.
Parlando degli aspetti tribali delle opposte tifoserie del calcio ci fa vedere, a esempio, come «metaforicamente, ogni settimana, i tifosi uccidono una grande preda e il momento dell’uccisione è rappresentato dal goal. Quando la palla colpisce la rete, è come se la tribù avesse ucciso un temibile animale e tutti allora possono festeggiare l'avvenimento». E che dire dei contrasti fra generazioni? Morris osserva che di necessità «i giovani di oggi, vestiti in modo così trasgressivo, diventeranno inevitabilmente gli ottusi tradizionalisti di domani e, a loro volta, resteranno inorriditi dalla nuova ondata che li seguirà».
Il bello è poi che si finisce sempre per affermare «che le abitudini delle nuove generazioni sono, in qualche misura, un decadente declino dei valori più nobili della generazione precedente». Sono almeno cinquemila anni che assistiamo impotenti alle stesse scene e dobbiamo ascoltare le stesse recriminazioni. Per deliziarci delle quali alcuni si fanno anche pagare. Occorrerebbe ogni tanto pensare a queste cose. O forse occorrerebbe solo pensare.
L’autore
Desmond Morris nasce a Purton, nel Wiltshire, in Inghilterra, il 24 gennaio 1928. Etologo e sociologo (ma anche grande appassionato di pittura e arte moderna), Morris ha raggiunto grande notorietà come conduttore di programmi sugli animali per conto della BBC e come divulgatore.
Il suo libro più celebre è «La scimmia nuda» (Mondadori, 1967 / Bompiani, 2001) ancora oggi considerato uno dei maggiori successi editoriali mondiali nel settore della divulgazione scientifica. In questo libro, Morris accentra la propria attenzione sull’uomo, osservato e indagato come una scimmia, l’unica sprovvista di peli.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia: «L’uomo e i suoi gesti» (Mondadori, 1978); «La tribù del calcio» (Mondadori, 1982); «Il cane» (Mondadori, 1988); «Capire il gatto» (Mondadori, 1991); «L’animale uomo» (Mondadori, 1994); «I gesti del mondo. Guida al linguaggio universale» (Mondadori, 1995); «Il comportamento intimo» (Mondadori, 2000); «Amuleti e talismani» (Hops Tecniche Nuove, 2000); «L’occhio nudo. Giro del mondo alla scoperta dell’uomo» (Mondadori, 2001).
ancora sugli antidepressivi per i bambini
ricevuto da P.Cancellieri
Yahoo! Salute giovedì 29 aprile 2004
Dubbi sull‘uso di antidepressivi per i bambini
Il Pensiero Scientifico Editore
Sono numerosi gli studi che dimostrano un favorevole rapporto rischi-benefici quanto all’uso di inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina (SSRI) in caso di depressione infantile: uno studio dello University College di Londra mette in dubbio questo rapporto a causa di tutte quelle ricerche cliniche di cui non vengono pubblicati i risultati. Se ne parla sulla rivista specializzata The Lancet.
Sono tanti nella comunità internazionale i motivi di contrasto sull’uso di antidepressivi per bambini e adolescenti: recentemente l’agenzia sanitaria britannica e l’FDA (l‘ente per il controllo su farmaci e alimenti) statunitense hanno espresso preoccupazione per l’aumento dei casi di suicidio e il rischio di atti di violenza nei ragazzi in trattamento con antidepressivi. Farmaci principalmente imputati sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (anche se si salva la fluoxetina), comunemente impiegati per il trattamento della depressione dell’adulto: uno studio dell‘Istituto Mario Negri di Milano pubblicato di recente sul British Medical Journal riporta un aumento della prescrizione di questi farmaci tra gli adolescenti di ben 5 volte dal 2000 al 2002, anche se ancora non ci sono prove significative sulla loro sicurezza in età pediatrica. La questione rimane complessa: nonostante siano numerosi gli studi scientifici a riguardo, i risultati sono ancora troppo contrastanti per arrivare a conclusioni certe.
Il gruppo di ricerca inglese ha preso in considerazione una serie di studi sull’efficacia e la sicurezza degli SSRI in ragazzi tra i 5 e i 18 anni: tutti gli studi considerati confrontavano il farmaco con un placebo, un farmaco privo del principio attivo e quindi di qualsiasi azione farmacologica, mentre tra gli elementi di valutazione venivano considerati la risposta al trattamento, il miglioramento dei sintomi, la guarigione dalla malattia e la comparsa di effetti collaterali di tipo fisico e psicologico. L’analisi dei risultati di questi studi ha mostrato che spesso vengono pubblicati o vengono messi particolarmente in risalto solo dati a favore dell’uso degli SSRI nei bambini, mentre vengono taciuti quelli contrari. Tranne che per la fluoxetina, in molti casi l’insieme dei dati produrrebbe un rapporto rischi-benefici sfavorevole all’uso di questi farmaci in età pediatrica o comunque di dubbia significatività clinica, quindi non in grado di portare a indicazioni precise.
Secondo gli autori, gli studi di cui non vengono pubblicati pienamente i risultati minano alla base il sistema delle linee-guida, il che può in ultima analisi portare a raccomandazioni per trattamenti che possono risultare inefficaci, dannosi o entrambi. Non solo, raccomandare l’uso di farmaci inappropriati potrebbe portare a trascurare altri interventi sui bambini che potrebbero invece risultare più efficaci e con meno rischi. Da qui la raccomandazione per una maggior trasparenza degli studi clinici, i cui risultati dovrebbero essere interamente accessibili.
Bibliografia. Whittington C, Kendall T, Fonagy P et al. Selective serotonin reuptake inhibitors in childhood depression: systematic review of published versus unpublished data. Lancet 2004; 363:1341-1345.
Yahoo! Salute giovedì 29 aprile 2004
Dubbi sull‘uso di antidepressivi per i bambini
Il Pensiero Scientifico Editore
Sono numerosi gli studi che dimostrano un favorevole rapporto rischi-benefici quanto all’uso di inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina (SSRI) in caso di depressione infantile: uno studio dello University College di Londra mette in dubbio questo rapporto a causa di tutte quelle ricerche cliniche di cui non vengono pubblicati i risultati. Se ne parla sulla rivista specializzata The Lancet.
Sono tanti nella comunità internazionale i motivi di contrasto sull’uso di antidepressivi per bambini e adolescenti: recentemente l’agenzia sanitaria britannica e l’FDA (l‘ente per il controllo su farmaci e alimenti) statunitense hanno espresso preoccupazione per l’aumento dei casi di suicidio e il rischio di atti di violenza nei ragazzi in trattamento con antidepressivi. Farmaci principalmente imputati sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (anche se si salva la fluoxetina), comunemente impiegati per il trattamento della depressione dell’adulto: uno studio dell‘Istituto Mario Negri di Milano pubblicato di recente sul British Medical Journal riporta un aumento della prescrizione di questi farmaci tra gli adolescenti di ben 5 volte dal 2000 al 2002, anche se ancora non ci sono prove significative sulla loro sicurezza in età pediatrica. La questione rimane complessa: nonostante siano numerosi gli studi scientifici a riguardo, i risultati sono ancora troppo contrastanti per arrivare a conclusioni certe.
Il gruppo di ricerca inglese ha preso in considerazione una serie di studi sull’efficacia e la sicurezza degli SSRI in ragazzi tra i 5 e i 18 anni: tutti gli studi considerati confrontavano il farmaco con un placebo, un farmaco privo del principio attivo e quindi di qualsiasi azione farmacologica, mentre tra gli elementi di valutazione venivano considerati la risposta al trattamento, il miglioramento dei sintomi, la guarigione dalla malattia e la comparsa di effetti collaterali di tipo fisico e psicologico. L’analisi dei risultati di questi studi ha mostrato che spesso vengono pubblicati o vengono messi particolarmente in risalto solo dati a favore dell’uso degli SSRI nei bambini, mentre vengono taciuti quelli contrari. Tranne che per la fluoxetina, in molti casi l’insieme dei dati produrrebbe un rapporto rischi-benefici sfavorevole all’uso di questi farmaci in età pediatrica o comunque di dubbia significatività clinica, quindi non in grado di portare a indicazioni precise.
Secondo gli autori, gli studi di cui non vengono pubblicati pienamente i risultati minano alla base il sistema delle linee-guida, il che può in ultima analisi portare a raccomandazioni per trattamenti che possono risultare inefficaci, dannosi o entrambi. Non solo, raccomandare l’uso di farmaci inappropriati potrebbe portare a trascurare altri interventi sui bambini che potrebbero invece risultare più efficaci e con meno rischi. Da qui la raccomandazione per una maggior trasparenza degli studi clinici, i cui risultati dovrebbero essere interamente accessibili.
Bibliografia. Whittington C, Kendall T, Fonagy P et al. Selective serotonin reuptake inhibitors in childhood depression: systematic review of published versus unpublished data. Lancet 2004; 363:1341-1345.
Cina: un'intervista al Premier
Corriere della Sera 30.4.04
«La Cina combatterà la concorrenza sleale»
Il primo ministro Wen Jiabao parla alla vigilia del viaggio in Italia. E si impegna anche sul fronte dei diritti umani
PECHINO - «Quando parliamo dell'Italia il nostro pensiero va naturalmente a Marco Polo che più di 700 anni fa fu la prima persona a presentare all'Europa, anzi al mondo, la Cina. Fu il primo a stabilire un ponte amichevole tra Oriente e Occidente e fece l'esperienza di vivere per 17 anni nel nostro Paese. Ancora adesso la gente ricorda con piacere Il Milione che rappresenta una bella memoria della storia dei rapporti tra i due Paesi. Grazie anche a questi legami storici le relazioni bilaterali tra Italia e Cina conoscono un buon andamento e la visita del presidente Berlusconi l'anno scorso li ha promossi ulteriormente». Il primo ministro cinese Wen Jiabao è alla vigilia di un lungo viaggio in Europa che lo porterà a visitare cinque Paesi (Italia, Germania, Belgio, Inghilterra e Irlanda) e in questa intervista spiega cosa si aspetta dai colloqui nel Vecchio Continente e quali sono le scelte di politica internazionale ed economica che il suo governo intende attuare. Ma innanzitutto Wen Jiabao ci tiene a sottolineare, come per la citazione di Marco Polo, quale sia la considerazione che ha per la storia e la cultura del nostro Paese. «La Cina - dichiara il primo ministro - ha una storia molto lunga, abbiamo avuto legami storici con l'Italia, per questo motivo ho scelto Firenze come una delle tappe della mia visita in Italia. Firenze è la culla del Rinascimento che considero una grande scuola. I maestri d'arte come Leonardo, Raffaello e Michelangelo sono conosciuti dai cinesi così come Dante Alighieri e la sua Divina Commedia».
Quali sono i risultati politici ed economici che si aspetta dalla visita in Italia?
«Il primo obiettivo è rafforzare gli scambi tra i dirigenti ad alto livello, promuovere il dialogo strategico e accrescere la reciproca conoscenza e fiducia. Il comitato congiunto Italia-Cina che verrà istituito durante la mia visita svolgerà un importante ruolo nello sviluppo dei rapporti bilaterali, servirà a promuovere la cooperazione economica, soprattutto tra le piccole e medie imprese dei due Paesi. I nostri rapporti commerciali hanno conosciuto uno sviluppo veloce, il volume dell'interscambio ha raggiunto l'anno scorso 11,7 miliardi di dollari. Inoltre durante la mia visita si terrà a Roma un seminario sugli investimenti reciproci Italia-Cina, il primo di questo tipo in Europa con il coinvolgimento del governo cinese. Penso che servirà a favorire ulteriormente la cooperazione tra le nostre imprese».
Lei crede che l'Europa possa diventare un partner privilegiato della politica commerciale cinese?
«Lo sviluppo dei rapporti di cooperazione con l'Europa è buono, l'anno scorso il volume dell'interscambio è stato di 125 miliardi di dollari americani, più o meno lo stesso livello di quello tra Usa e Cina e tra Cina e Giappone. Il sesto vertice tra i dirigenti europei e cinesi che si è tenuto a Pechino nell'ottobre scorso ha stabilito l'obiettivo di raggiungere 200 miliardi di dollari entro l'anno 2013. Adesso constatiamo con soddisfazione che quell'obiettivo era troppo pessimista e possiamo raggiungerlo in anticipo. Vedo poi una grande potenzialità in campo tecnologico, i Paesi europei sono tra quelli che investono di più in Cina e trasferiscono le loro tecnologie. Numerose e famose imprese come la Fiat vengono in Cina per investire e stabilire le fabbriche, vengono portando non solo capitali ma anche tecnologie avanzate ed esperienze di management».
Il suo Paese ha investito parte delle riserve monetarie in euro. Pensa che quest'esperienza si possa ripetere?
«L'euro è un simbolo importante dell'integrazione europea a cui la Cina dà il pieno sostegno. Vediamo con favore la sua stabilità e la sua rivalutazione, perché riflette la ripresa dello sviluppo economico dell'Europa e questo fenomeno ha aumentato la nostra fiducia verso questa moneta».
Tra gli imprenditori italiani, specie piccoli e medi, si sta facendo largo un timore nei confronti della vostra espansione commerciale. E questo a causa del diffondersi della contraffazione dei marchi. Cosa pensa di fare il governo cinese per stroncare la concorrenza sleale?
«E' bene eliminare questi timori degli imprenditori italiani. E' vero che le esportazioni cinesi sono in costante aumento - l'anno scorso il volume complessivo è stato di 410 miliardi di dollari - ma fra i prodotti esportati il 55% proviene da imprese con capitale straniero che operano da noi e per il 60% si tratta di lavorazioni di materiale che viene dall'estero. La competitività dei prodotti cinesi deriva dalla tipologia e dalla qualità ma cosa più importante dalla manodopera di basso costo, anche se con lo sviluppo dei settori tecnologico, scientifico ed educativo è in ascesa anche la qualità della manodopera. Il governo presta grande importanza al problema della tutela della proprietà intellettuale e si impegna ad adottare quattro misure. Per prima cosa stiamo per istituire un apposito organismo capeggiato da un viceministro. Vogliamo poi punire più severamente la contraffazione e a questo scopo vogliamo ampliare la sfera dell'utilizzo del codice penale per perseguire questi reati. Inoltre vogliamo intraprendere campagne costanti e ininterrotte contro la violazione dei diritti intellettuali nei vari settori. Ci proponiamo anche di riprendere l'educazione popolare in merito. Sono convinto che con questi sforzi instancabili potremo ottenere dei progressi importanti».
Che bilancio fa a due anni di distanza dell'ingresso della Cina del Wto, ingresso che fu favorito anche dal governo italiano?
«Con l'adesione al Wto abbiamo goduto di diritti ma abbiamo anche adempiuto ai doveri. In soli due anni siamo riusciti a ridurre il livello del dazio doganale dal 15 al 10,4%, abbiamo annullato e revisionato circa 3 mila leggi e nel frattempo abbiamo rimosso altri tipi di barriere non commerciale. Per esempio l'anno prossimo elimineremo il contingentamento nell'acquisto dei prodotti automobilistici».
La vostra economia continua a crescere a ritmi incredibili. Non temete un effetto di surriscaldamento e cosa intendete fare per evitarlo?
«Adesso l'economia cinese si trova in una fase della crescita estremamente veloce, l'anno scorso è cresciuta del 9,1% e nel primo trimestre di quest'anno del 9,7%. I profitti derivanti dalla produzione industriale sono in aumento e la produzione agricola è in una fase di risanamento inoltre il commercio delle importazioni ed esportazioni ha conosciuto una notevole crescita e le entrate fiscali sono salite. Vedo con piacere che il reddito degli abitanti cinesi sia delle zone rurali sia di quelle urbane è in forte aumento. Ma oggettivamente nell'andamento economico cinese esistono problemi e contraddizioni, gli investimenti nel settore immobiliare crescono con velocità e dimensione eccessiva. Si verificano crescenti pressioni tra la domanda e l'offerta di energia, trasporto e materie prime, poi anche per quanto riguarda il credito e l'offerta monetaria c'è stato un eccessivo aumento, c'è inoltre una tendenza di forte inflazione soprattutto con la crescita dei prezzi delle materie prime. Questi problemi hanno suscitato l'attenzione del nostro governo e dobbiamo adottare delle misure severe ed efficaci per risolverli. Le misure saranno di carattere economico, giuridico e in caso necessario amministrativo in modo che l'economia cinese possa mantenere uno sviluppo stabile e relativamente veloce».
In Europa c'è grande attenzione sulle modifiche che state introducendo nella nuova Costituzione. In particolare per quanto riguarda la tutela dei diritti umani e il riconoscimento della proprietà privata.
«La revisione costituzionale prevede in maniera esplicita di rispettare e tutelare i diritti umani, diamo grande importanza alla tutela dei diritti umani e stiamo compiendo sforzi instancabili e a lungo termine. Per prima cosa persistiamo nello sviluppo per tutelare i diritti di sopravvivenza del nostro popolo che conta 1,3 miliardi di persone. Nel corso di questi venti anni siamo riusciti a risolvere il problema della povertà assoluta di più di 200 milioni di cinesi. Secondo, oltre la riforma economica non abbiamo mai smesso di intraprendere la riforma politica e cerchiamo di perfezionare la democrazia socialista e la legalità socialista. Soprattutto mettiamo l'accento sulla costruzione della democrazia delle unità di base con elezioni, controllo dal basso e gestione democratica. Terzo, abbiamo l'obiettivo di governare il Paese secondo la legge e di costruire un Paese di legalità socialista. Per quanto riguarda i diritti umani la Cina ha già aderito alla Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e nell'anno 2003 abbiamo presentato un rapporto sull'esecuzione. Adesso siamo facendo i preparativi per aderire alla Convenzione sui diritti civili e politici, siamo favorevoli al dialogo anziché all'antagonismo tra i Paesi a diverso sistema sociale, abbiamo avuto 17 round dei dialoghi Cina-Europa sui diritti umani e queste consultazioni sono fruttuose e sono servite ad aumentare la conoscenza reciproca. In questa revisione costituzionale abbiamo inserito anche la tutela della proprietà privata, indica non solo i beni per vivere ma anche i beni per produrre. Abbiamo due scopi, uno per tutelare effettivamente la proprietà privata del popolo cinese, secondo proteggere e promuovere la riforma del diritto».
Qual è la posizione del governo cinese sulla crisi in Iraq e quale impegno vi assumete nella lotta contro il terrorismo internazionale?
«Il governo cinese è preoccupato dell'instabilità della situazione in Iraq e simpatizza con il popolo iracheno che vive in miseria. C'è bisogno di fare tutti gli sforzi per ricostruire il Paese. In primo luogo occorre restituire la sovranità agli iracheni per un Iraq governato dagli iracheni tutelando l'integrità territoriale. L'Onu poi deve svolgere un ruolo direttivo nel ritorno della pace e della ricostruzione. Infine si deve creare l'ambiente in cui i vari Paesi possano partecipare alla ricostruzione e la Cina come membro permanente del Consiglio di sicurezza desidera dare il massimo contributo per la pace. Per quanto riguarda il terrorismo la nostra posizione è coerente perché ne siamo vittime anche noi, infatti le organizzazioni che operano nel Turkestan orientale hanno stretti legami con Al Qaeda. La Cina desidera intraprendere la cooperazione internazionale nella lotta contro il terrorismo».
«La Cina combatterà la concorrenza sleale»
Il primo ministro Wen Jiabao parla alla vigilia del viaggio in Italia. E si impegna anche sul fronte dei diritti umani
PECHINO - «Quando parliamo dell'Italia il nostro pensiero va naturalmente a Marco Polo che più di 700 anni fa fu la prima persona a presentare all'Europa, anzi al mondo, la Cina. Fu il primo a stabilire un ponte amichevole tra Oriente e Occidente e fece l'esperienza di vivere per 17 anni nel nostro Paese. Ancora adesso la gente ricorda con piacere Il Milione che rappresenta una bella memoria della storia dei rapporti tra i due Paesi. Grazie anche a questi legami storici le relazioni bilaterali tra Italia e Cina conoscono un buon andamento e la visita del presidente Berlusconi l'anno scorso li ha promossi ulteriormente». Il primo ministro cinese Wen Jiabao è alla vigilia di un lungo viaggio in Europa che lo porterà a visitare cinque Paesi (Italia, Germania, Belgio, Inghilterra e Irlanda) e in questa intervista spiega cosa si aspetta dai colloqui nel Vecchio Continente e quali sono le scelte di politica internazionale ed economica che il suo governo intende attuare. Ma innanzitutto Wen Jiabao ci tiene a sottolineare, come per la citazione di Marco Polo, quale sia la considerazione che ha per la storia e la cultura del nostro Paese. «La Cina - dichiara il primo ministro - ha una storia molto lunga, abbiamo avuto legami storici con l'Italia, per questo motivo ho scelto Firenze come una delle tappe della mia visita in Italia. Firenze è la culla del Rinascimento che considero una grande scuola. I maestri d'arte come Leonardo, Raffaello e Michelangelo sono conosciuti dai cinesi così come Dante Alighieri e la sua Divina Commedia».
Quali sono i risultati politici ed economici che si aspetta dalla visita in Italia?
«Il primo obiettivo è rafforzare gli scambi tra i dirigenti ad alto livello, promuovere il dialogo strategico e accrescere la reciproca conoscenza e fiducia. Il comitato congiunto Italia-Cina che verrà istituito durante la mia visita svolgerà un importante ruolo nello sviluppo dei rapporti bilaterali, servirà a promuovere la cooperazione economica, soprattutto tra le piccole e medie imprese dei due Paesi. I nostri rapporti commerciali hanno conosciuto uno sviluppo veloce, il volume dell'interscambio ha raggiunto l'anno scorso 11,7 miliardi di dollari. Inoltre durante la mia visita si terrà a Roma un seminario sugli investimenti reciproci Italia-Cina, il primo di questo tipo in Europa con il coinvolgimento del governo cinese. Penso che servirà a favorire ulteriormente la cooperazione tra le nostre imprese».
Lei crede che l'Europa possa diventare un partner privilegiato della politica commerciale cinese?
«Lo sviluppo dei rapporti di cooperazione con l'Europa è buono, l'anno scorso il volume dell'interscambio è stato di 125 miliardi di dollari americani, più o meno lo stesso livello di quello tra Usa e Cina e tra Cina e Giappone. Il sesto vertice tra i dirigenti europei e cinesi che si è tenuto a Pechino nell'ottobre scorso ha stabilito l'obiettivo di raggiungere 200 miliardi di dollari entro l'anno 2013. Adesso constatiamo con soddisfazione che quell'obiettivo era troppo pessimista e possiamo raggiungerlo in anticipo. Vedo poi una grande potenzialità in campo tecnologico, i Paesi europei sono tra quelli che investono di più in Cina e trasferiscono le loro tecnologie. Numerose e famose imprese come la Fiat vengono in Cina per investire e stabilire le fabbriche, vengono portando non solo capitali ma anche tecnologie avanzate ed esperienze di management».
Il suo Paese ha investito parte delle riserve monetarie in euro. Pensa che quest'esperienza si possa ripetere?
«L'euro è un simbolo importante dell'integrazione europea a cui la Cina dà il pieno sostegno. Vediamo con favore la sua stabilità e la sua rivalutazione, perché riflette la ripresa dello sviluppo economico dell'Europa e questo fenomeno ha aumentato la nostra fiducia verso questa moneta».
Tra gli imprenditori italiani, specie piccoli e medi, si sta facendo largo un timore nei confronti della vostra espansione commerciale. E questo a causa del diffondersi della contraffazione dei marchi. Cosa pensa di fare il governo cinese per stroncare la concorrenza sleale?
«E' bene eliminare questi timori degli imprenditori italiani. E' vero che le esportazioni cinesi sono in costante aumento - l'anno scorso il volume complessivo è stato di 410 miliardi di dollari - ma fra i prodotti esportati il 55% proviene da imprese con capitale straniero che operano da noi e per il 60% si tratta di lavorazioni di materiale che viene dall'estero. La competitività dei prodotti cinesi deriva dalla tipologia e dalla qualità ma cosa più importante dalla manodopera di basso costo, anche se con lo sviluppo dei settori tecnologico, scientifico ed educativo è in ascesa anche la qualità della manodopera. Il governo presta grande importanza al problema della tutela della proprietà intellettuale e si impegna ad adottare quattro misure. Per prima cosa stiamo per istituire un apposito organismo capeggiato da un viceministro. Vogliamo poi punire più severamente la contraffazione e a questo scopo vogliamo ampliare la sfera dell'utilizzo del codice penale per perseguire questi reati. Inoltre vogliamo intraprendere campagne costanti e ininterrotte contro la violazione dei diritti intellettuali nei vari settori. Ci proponiamo anche di riprendere l'educazione popolare in merito. Sono convinto che con questi sforzi instancabili potremo ottenere dei progressi importanti».
Che bilancio fa a due anni di distanza dell'ingresso della Cina del Wto, ingresso che fu favorito anche dal governo italiano?
«Con l'adesione al Wto abbiamo goduto di diritti ma abbiamo anche adempiuto ai doveri. In soli due anni siamo riusciti a ridurre il livello del dazio doganale dal 15 al 10,4%, abbiamo annullato e revisionato circa 3 mila leggi e nel frattempo abbiamo rimosso altri tipi di barriere non commerciale. Per esempio l'anno prossimo elimineremo il contingentamento nell'acquisto dei prodotti automobilistici».
La vostra economia continua a crescere a ritmi incredibili. Non temete un effetto di surriscaldamento e cosa intendete fare per evitarlo?
«Adesso l'economia cinese si trova in una fase della crescita estremamente veloce, l'anno scorso è cresciuta del 9,1% e nel primo trimestre di quest'anno del 9,7%. I profitti derivanti dalla produzione industriale sono in aumento e la produzione agricola è in una fase di risanamento inoltre il commercio delle importazioni ed esportazioni ha conosciuto una notevole crescita e le entrate fiscali sono salite. Vedo con piacere che il reddito degli abitanti cinesi sia delle zone rurali sia di quelle urbane è in forte aumento. Ma oggettivamente nell'andamento economico cinese esistono problemi e contraddizioni, gli investimenti nel settore immobiliare crescono con velocità e dimensione eccessiva. Si verificano crescenti pressioni tra la domanda e l'offerta di energia, trasporto e materie prime, poi anche per quanto riguarda il credito e l'offerta monetaria c'è stato un eccessivo aumento, c'è inoltre una tendenza di forte inflazione soprattutto con la crescita dei prezzi delle materie prime. Questi problemi hanno suscitato l'attenzione del nostro governo e dobbiamo adottare delle misure severe ed efficaci per risolverli. Le misure saranno di carattere economico, giuridico e in caso necessario amministrativo in modo che l'economia cinese possa mantenere uno sviluppo stabile e relativamente veloce».
In Europa c'è grande attenzione sulle modifiche che state introducendo nella nuova Costituzione. In particolare per quanto riguarda la tutela dei diritti umani e il riconoscimento della proprietà privata.
«La revisione costituzionale prevede in maniera esplicita di rispettare e tutelare i diritti umani, diamo grande importanza alla tutela dei diritti umani e stiamo compiendo sforzi instancabili e a lungo termine. Per prima cosa persistiamo nello sviluppo per tutelare i diritti di sopravvivenza del nostro popolo che conta 1,3 miliardi di persone. Nel corso di questi venti anni siamo riusciti a risolvere il problema della povertà assoluta di più di 200 milioni di cinesi. Secondo, oltre la riforma economica non abbiamo mai smesso di intraprendere la riforma politica e cerchiamo di perfezionare la democrazia socialista e la legalità socialista. Soprattutto mettiamo l'accento sulla costruzione della democrazia delle unità di base con elezioni, controllo dal basso e gestione democratica. Terzo, abbiamo l'obiettivo di governare il Paese secondo la legge e di costruire un Paese di legalità socialista. Per quanto riguarda i diritti umani la Cina ha già aderito alla Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e nell'anno 2003 abbiamo presentato un rapporto sull'esecuzione. Adesso siamo facendo i preparativi per aderire alla Convenzione sui diritti civili e politici, siamo favorevoli al dialogo anziché all'antagonismo tra i Paesi a diverso sistema sociale, abbiamo avuto 17 round dei dialoghi Cina-Europa sui diritti umani e queste consultazioni sono fruttuose e sono servite ad aumentare la conoscenza reciproca. In questa revisione costituzionale abbiamo inserito anche la tutela della proprietà privata, indica non solo i beni per vivere ma anche i beni per produrre. Abbiamo due scopi, uno per tutelare effettivamente la proprietà privata del popolo cinese, secondo proteggere e promuovere la riforma del diritto».
Qual è la posizione del governo cinese sulla crisi in Iraq e quale impegno vi assumete nella lotta contro il terrorismo internazionale?
«Il governo cinese è preoccupato dell'instabilità della situazione in Iraq e simpatizza con il popolo iracheno che vive in miseria. C'è bisogno di fare tutti gli sforzi per ricostruire il Paese. In primo luogo occorre restituire la sovranità agli iracheni per un Iraq governato dagli iracheni tutelando l'integrità territoriale. L'Onu poi deve svolgere un ruolo direttivo nel ritorno della pace e della ricostruzione. Infine si deve creare l'ambiente in cui i vari Paesi possano partecipare alla ricostruzione e la Cina come membro permanente del Consiglio di sicurezza desidera dare il massimo contributo per la pace. Per quanto riguarda il terrorismo la nostra posizione è coerente perché ne siamo vittime anche noi, infatti le organizzazioni che operano nel Turkestan orientale hanno stretti legami con Al Qaeda. La Cina desidera intraprendere la cooperazione internazionale nella lotta contro il terrorismo».
Iraq: sul Gazzettino
(non su Liberazione!)
Il Gazzettino Venerdì, 30 Aprile 2004
IL DIRITTO DI DIRE NO AI «LIBERATORI»
A Falluja gli americani, dopo un assedio di settimane, attaccano con decine di carri armati appoggiati da aerei I30U Spectre e da elicotteri da combattimento. La stessa cosa, anche se in dimensioni minori, avviene a Najaf. I morti iracheni in queste giornate sono già più di mille e anche gli americani hanno perdite ingenti per i loro standard.
E allora smettiamola, una volta per tutte, di mentire e di mentirci addosso dicendo che quella in Iraq è una lotta al terrorismo internazionale - e quindi una legittima risposta all'11 settembre e magari a qualche residuale seguace di Saddam Hussein. Quella in Iraq è una guerra a una popolazione che, nella sua maggioranza, sia della componente sunnita che sciita (Falluja è sunnita, Najaf è sciita), non ci sta alla "liberazione" americana. E non ci sta per la semplice ragione che è stata enunciata dal nunzio apostolico di Bagdad, da anni in Iraq, che spero nessuno vorrà accusare di estremismo, anche se la tendenza ormai invalsa in Italia è quella di bollare come terroristi, o quantomeno come loro simpatizzanti, tutti quelli che sono contrari a questa guerra (io mi sono preso della "quinta colonna" da don Gianni Baget Bozzo, un prete ferocemente antimusulmano che presumo starebbe bene in una teocrazia di tipo islamico visto che confonde la politica con la religione e incarna entrambe nella sua persona). Ha detto dunque il nunzio apostolico, monsignor Fernando Filoni: «Il fatto è che gli iracheni non vogliono essere occupati da eserciti stranieri».
È un'idea così stravagante, bizzarra, bislacca? È una cosa che può suonare così singolare e strana a noi italiani che nella nostra storia siamo vissuti tante volte sotto il tallone di ferro di eserciti e governi stranieri, si trattasse di francesi, spagnoli o tedeschi? È vero che il nostro motto era "Franza o Spagna purché se magna", ma qualche scatto d'orgoglio lo abbiamo avuto anche noi.
Ha detto uno dei guerriglieri di Falluja all'inviato del Corriere della Sera, Claudio Lazzaro, entrato in città con la Croce Rossa: «Gli americani bombardano, ammazzano e poi dicono che ci vogliono insegnare la democrazia. Loro vogliono comandare, ma questa è casa nostra, siamo noi che dobbiamo decidere chi ci rappresenta». Non si sarebbe potuto dir meglio.E c'è anche da aggiungere che mentre il ricatto delle Falangi Verdi di Maometto, oltre che turpe, è inaccettabile e non va accettato - come invece si è tentato di fare alla manifestazione di ieri, in modo surrettizio, subdolo, all'italiana, con la partecipazione "a titolo personale" di rappresentanti di quelle forze politiche che ufficialmente lo hanno sdegnosamente respinto - nel merito il loro comunicato è ineccepibile: "Annunciamo a voi e a tutti gli uomini liberi del mondo che la nostra è una causa giusta. Stiamo difendendo la nostra terra, il nostro onore, la nostra dignità e i nostri sacri valori, mentre le forze del male sono venute da oltre gli oceani per occupare la nostra terra. È dunque nostro diritto difendere le nostre terre e questo diritto è contemplato dalle leggi celesti e dalle leggi internazionali». Potrebbero essere, a parte qualche dettaglio, parole di un eroe del nostro Risorgimento.
Questi iracheni non si appellano all'irrazionalismo della Jhiad, alla Bin Laden, si appellano, con gli strumenti della ragione, a un diritto, che è sempre stato riconosciuto a ogni popolo: quello di resistere all'invasione e all'occupazione del proprio territorio da parte di truppe straniere. Il loro linguaggio è perfettamente razionale. Per questo si è insinuato che dietro quel comunicato c'è una mano occidentale. Ma non è così. Siamo noi occidentali che, calpestando tutti i nostri principi, stiamo chiamando una sorta di "guerra santa" in nome della democrazia.Che smacco, e, per quello che si è sempre autodefinito, compiacendosene, "il mondo libero" dover subire un appello del genere. Che in altri tempi - per esempio ai tempi in cui lord Byron andava a combattere per la libertà della Grecia - sarebbe stato firmato da ogni europeo. E che oggi, invece, è firmato da degli iracheni. Che vergogna.
IL DIRITTO DI DIRE NO AI «LIBERATORI»
A Falluja gli americani, dopo un assedio di settimane, attaccano con decine di carri armati appoggiati da aerei I30U Spectre e da elicotteri da combattimento. La stessa cosa, anche se in dimensioni minori, avviene a Najaf. I morti iracheni in queste giornate sono già più di mille e anche gli americani hanno perdite ingenti per i loro standard.
E allora smettiamola, una volta per tutte, di mentire e di mentirci addosso dicendo che quella in Iraq è una lotta al terrorismo internazionale - e quindi una legittima risposta all'11 settembre e magari a qualche residuale seguace di Saddam Hussein. Quella in Iraq è una guerra a una popolazione che, nella sua maggioranza, sia della componente sunnita che sciita (Falluja è sunnita, Najaf è sciita), non ci sta alla "liberazione" americana. E non ci sta per la semplice ragione che è stata enunciata dal nunzio apostolico di Bagdad, da anni in Iraq, che spero nessuno vorrà accusare di estremismo, anche se la tendenza ormai invalsa in Italia è quella di bollare come terroristi, o quantomeno come loro simpatizzanti, tutti quelli che sono contrari a questa guerra (io mi sono preso della "quinta colonna" da don Gianni Baget Bozzo, un prete ferocemente antimusulmano che presumo starebbe bene in una teocrazia di tipo islamico visto che confonde la politica con la religione e incarna entrambe nella sua persona). Ha detto dunque il nunzio apostolico, monsignor Fernando Filoni: «Il fatto è che gli iracheni non vogliono essere occupati da eserciti stranieri».
È un'idea così stravagante, bizzarra, bislacca? È una cosa che può suonare così singolare e strana a noi italiani che nella nostra storia siamo vissuti tante volte sotto il tallone di ferro di eserciti e governi stranieri, si trattasse di francesi, spagnoli o tedeschi? È vero che il nostro motto era "Franza o Spagna purché se magna", ma qualche scatto d'orgoglio lo abbiamo avuto anche noi.
Ha detto uno dei guerriglieri di Falluja all'inviato del Corriere della Sera, Claudio Lazzaro, entrato in città con la Croce Rossa: «Gli americani bombardano, ammazzano e poi dicono che ci vogliono insegnare la democrazia. Loro vogliono comandare, ma questa è casa nostra, siamo noi che dobbiamo decidere chi ci rappresenta». Non si sarebbe potuto dir meglio.E c'è anche da aggiungere che mentre il ricatto delle Falangi Verdi di Maometto, oltre che turpe, è inaccettabile e non va accettato - come invece si è tentato di fare alla manifestazione di ieri, in modo surrettizio, subdolo, all'italiana, con la partecipazione "a titolo personale" di rappresentanti di quelle forze politiche che ufficialmente lo hanno sdegnosamente respinto - nel merito il loro comunicato è ineccepibile: "Annunciamo a voi e a tutti gli uomini liberi del mondo che la nostra è una causa giusta. Stiamo difendendo la nostra terra, il nostro onore, la nostra dignità e i nostri sacri valori, mentre le forze del male sono venute da oltre gli oceani per occupare la nostra terra. È dunque nostro diritto difendere le nostre terre e questo diritto è contemplato dalle leggi celesti e dalle leggi internazionali». Potrebbero essere, a parte qualche dettaglio, parole di un eroe del nostro Risorgimento.
Questi iracheni non si appellano all'irrazionalismo della Jhiad, alla Bin Laden, si appellano, con gli strumenti della ragione, a un diritto, che è sempre stato riconosciuto a ogni popolo: quello di resistere all'invasione e all'occupazione del proprio territorio da parte di truppe straniere. Il loro linguaggio è perfettamente razionale. Per questo si è insinuato che dietro quel comunicato c'è una mano occidentale. Ma non è così. Siamo noi occidentali che, calpestando tutti i nostri principi, stiamo chiamando una sorta di "guerra santa" in nome della democrazia.Che smacco, e, per quello che si è sempre autodefinito, compiacendosene, "il mondo libero" dover subire un appello del genere. Che in altri tempi - per esempio ai tempi in cui lord Byron andava a combattere per la libertà della Grecia - sarebbe stato firmato da ogni europeo. E che oggi, invece, è firmato da degli iracheni. Che vergogna.
giovedì 29 aprile 2004
imprevisto successo della protesta
contro la cancellazione di Darwin dai programmi scolastici
due agenzie ricevute da Daniela Venanzi
ANSA
SCUOLA:DARWIN IN PERCORSI EDUCATIVI DOPO POLEMICHE E APPELLI
(ANSA) - ROMA, 28 APR - E’ stata accolta con soddisfazione dal mondo scientifico, l‘assicurazione del ministro dell‘Istruzione che la teoria evoluzionista di Darwin sara’ presente nei percorsi educativi fin dalle scuole elementari. Nei giorni scorsi ricercatori di tutta Italia avevano lanciato due appelli (sul sito di Repubblica.it) per chiedere la modifica del decreto ministeriale, firmati da migliaia di studiosi tra i quali l‘ex ministro della sanità Umberto Veronesi, i premi Nobel Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco, i genetisti Cavalli Sforza e Bruno Dallapiccola. Anche la piu’ antica istituzione scientifica italiana, l‘Accademia dei Lincei, tramite un gruppo di soci fra i quali Enrico Alleva, Carlo Alberto Redi, Ernesto Capanna e Stefano Turillazzi aveva deciso di scendere in campo. La protesta, unanime, era rivolta contro il rischio di vedere esclusa dalla scuola media la teoria che rappresenta il fondamento della biologia moderna. Il genetista Bruno Dallapiccola aveva definito senza mezzi termini '‘stupida e antistorica’’ la scelta di escludere l‘evoluzionismo dai programmi scolastici. Il rischio che piu’ di ogni altro temevano i ricercatori era una penalizzazione culturale dei giovani, ai quali si sarebbero negate conoscenze importantissime in un mondo nel quale la biologia e la genetica assumono un ruolo sempre piu’ importante. '‘Vogliamo ribadire l‘importanza dell‘evoluzionismo nell’ insegnamento scolastico - aveva dichiarato l‘etologo Alleva - anche perche’ e’ la base per lo sviluppo scientifico e tecnologico, in pratica del nostro futuro. Non si capisce come mai una commissione che si occupa dei programmi scolastici, presieduta dal professor Giuseppe Bertagna, non possa essere composta da specialisti di diverse discipline e non essere cosi‘unilaterale’’.(ANSA).
BG 28-APR-04 19:44 NNNN
SCUOLA: ACCIARINI (DS) CLAMOROSO PASSO INDIETRO MORATTI = (AGI) - Roma, 28 apr.-
“Sembrerebbe che il ministro dell‘istruzione non abbia le idee molto chiare su quanto sta preparando per la scuola primaria e la scuola media. Oggi sentiamo Letizia Moratti dichiarare che non corrisponde a verita’ l‘esclusione dell‘insegnamento delle teorie evoluzionistiche, in netto contrasto con quanto ha risposto all‘interrogazione presentata dai Ds al senato”. Lo afferma Acciarini (DS) ricordando che “nell‘intervista infatti, il ministro non solo diceva che la teoria di Darwin non si sarebbe insegnata, ma anche che in certi termini non era mai stata oggetto di udienza alle elementari. Del resto, anche nei giorni scorsi il ministro ha ripetuto che i bambini fino ai 10 anni hanno bisogno del mito e delle leggende e non delle teorie scientifiche”. “Prendiamo atto - conclude Acciarini - di questo clamoroso passo indietro del ministro che oggi addirittura fa assicurare che l‘evoluzionismo verra’ insegnato alle elementari”. “Incredibile - ribadisce Alba Sasso (DS) - anche la Moratti, di tanto in tanto fa marcia indietro. C‘e’ voluta una mobilitazione degli intellettuali, c‘e’ voluto un appello promosso da scienziati di fama internazionale e sottoscritto da oltre 40mila persone per convincere il Ministro, per ora, a istituire una commissione per reintrodurre lo studio delle teorie evoluzionistiche nei programmi scolastici”. “Quanti altri appelli ci vorranno per reintrodurre in Italia lo studio della rivoluzione industriale. Quanti altri appelli ci vorranno - conclude la Sasso - per smantellare l‘impianto ideologico di una riforma della scuola che antepone a un sapere critico e responsabile l‘obiettivo di un‘educazione morale e spirituale?”.
(AGI) Pal 281933 APR 04
ANSA
SCUOLA:DARWIN IN PERCORSI EDUCATIVI DOPO POLEMICHE E APPELLI
(ANSA) - ROMA, 28 APR - E’ stata accolta con soddisfazione dal mondo scientifico, l‘assicurazione del ministro dell‘Istruzione che la teoria evoluzionista di Darwin sara’ presente nei percorsi educativi fin dalle scuole elementari. Nei giorni scorsi ricercatori di tutta Italia avevano lanciato due appelli (sul sito di Repubblica.it) per chiedere la modifica del decreto ministeriale, firmati da migliaia di studiosi tra i quali l‘ex ministro della sanità Umberto Veronesi, i premi Nobel Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco, i genetisti Cavalli Sforza e Bruno Dallapiccola. Anche la piu’ antica istituzione scientifica italiana, l‘Accademia dei Lincei, tramite un gruppo di soci fra i quali Enrico Alleva, Carlo Alberto Redi, Ernesto Capanna e Stefano Turillazzi aveva deciso di scendere in campo. La protesta, unanime, era rivolta contro il rischio di vedere esclusa dalla scuola media la teoria che rappresenta il fondamento della biologia moderna. Il genetista Bruno Dallapiccola aveva definito senza mezzi termini '‘stupida e antistorica’’ la scelta di escludere l‘evoluzionismo dai programmi scolastici. Il rischio che piu’ di ogni altro temevano i ricercatori era una penalizzazione culturale dei giovani, ai quali si sarebbero negate conoscenze importantissime in un mondo nel quale la biologia e la genetica assumono un ruolo sempre piu’ importante. '‘Vogliamo ribadire l‘importanza dell‘evoluzionismo nell’ insegnamento scolastico - aveva dichiarato l‘etologo Alleva - anche perche’ e’ la base per lo sviluppo scientifico e tecnologico, in pratica del nostro futuro. Non si capisce come mai una commissione che si occupa dei programmi scolastici, presieduta dal professor Giuseppe Bertagna, non possa essere composta da specialisti di diverse discipline e non essere cosi‘unilaterale’’.(ANSA).
BG 28-APR-04 19:44 NNNN
SCUOLA: ACCIARINI (DS) CLAMOROSO PASSO INDIETRO MORATTI = (AGI) - Roma, 28 apr.-
“Sembrerebbe che il ministro dell‘istruzione non abbia le idee molto chiare su quanto sta preparando per la scuola primaria e la scuola media. Oggi sentiamo Letizia Moratti dichiarare che non corrisponde a verita’ l‘esclusione dell‘insegnamento delle teorie evoluzionistiche, in netto contrasto con quanto ha risposto all‘interrogazione presentata dai Ds al senato”. Lo afferma Acciarini (DS) ricordando che “nell‘intervista infatti, il ministro non solo diceva che la teoria di Darwin non si sarebbe insegnata, ma anche che in certi termini non era mai stata oggetto di udienza alle elementari. Del resto, anche nei giorni scorsi il ministro ha ripetuto che i bambini fino ai 10 anni hanno bisogno del mito e delle leggende e non delle teorie scientifiche”. “Prendiamo atto - conclude Acciarini - di questo clamoroso passo indietro del ministro che oggi addirittura fa assicurare che l‘evoluzionismo verra’ insegnato alle elementari”. “Incredibile - ribadisce Alba Sasso (DS) - anche la Moratti, di tanto in tanto fa marcia indietro. C‘e’ voluta una mobilitazione degli intellettuali, c‘e’ voluto un appello promosso da scienziati di fama internazionale e sottoscritto da oltre 40mila persone per convincere il Ministro, per ora, a istituire una commissione per reintrodurre lo studio delle teorie evoluzionistiche nei programmi scolastici”. “Quanti altri appelli ci vorranno per reintrodurre in Italia lo studio della rivoluzione industriale. Quanti altri appelli ci vorranno - conclude la Sasso - per smantellare l‘impianto ideologico di una riforma della scuola che antepone a un sapere critico e responsabile l‘obiettivo di un‘educazione morale e spirituale?”.
(AGI) Pal 281933 APR 04
«psico-conflitti di interesse»
una segnalazione di Roberto Martina
Repubblica Donna 24.4.04
Gaia Scienza
Psico-conflitti di interesse
Solo un ricercatore scientifico su 5 ammette pubblicamente i suoi legami con l'industria
di Silvie Coyaud
Giovanni Fava insegna psicoterapia all'università di Bologna, e dirige la rivista Psychotherapy and Psychosomatics. È famosa perché, oltre ai soliti testi di ricerca, pubblica editoriali e indagini che altrove non escono: farebbero fuggire gli inserzionisti. Dimostrano che nonostante le riviste scientifiche serie chiedano agli autori degli articoli di dichiarare eventuali conflitti d'interesse, soltanto uno su cinque lo fa. Chissà perché, gli altri quattro si scordano di aver brevettato la molecola di cui vantano l'efficacia, oppure di essere stati retribuiti con denaro, azioni, vacanze omaggio ecc. dall'azienda che la vende.
La settimana scorsa l'Associazione europea degli psichiatri teneva a Ginevra il suo congresso, spesato, come tanti altri, da multinazionali dei farmaci. Il professor Fava ci è andato a elencare scandali, risultati censurati o ritoccati, prescrizioni di medicinali che s'impennano in funzione delle elargizioni aziendali. A dire che così la ricerca ci rimette e i pazienti pure. A proporre che dai direttivi delle società scientifiche, dai comitati che decidono i finanziamenti pubblici, dalla direzione dei giornali importanti sia escluso chi è legato e imbavagliato da interessi economici. La sua doveva essere una tavola rotonda con "ricercatori vicini alle case farmaceutiche", ma tutti quelli contattati dall'Associazione si sono rifiutati di partecipare. Eppure erano spesati anche loro. Viaggio, vitto, alloggio, tutto compreso salvo minibar, telefono e libertà di parola.
Repubblica Donna 24.4.04
Gaia Scienza
Psico-conflitti di interesse
Solo un ricercatore scientifico su 5 ammette pubblicamente i suoi legami con l'industria
di Silvie Coyaud
Giovanni Fava insegna psicoterapia all'università di Bologna, e dirige la rivista Psychotherapy and Psychosomatics. È famosa perché, oltre ai soliti testi di ricerca, pubblica editoriali e indagini che altrove non escono: farebbero fuggire gli inserzionisti. Dimostrano che nonostante le riviste scientifiche serie chiedano agli autori degli articoli di dichiarare eventuali conflitti d'interesse, soltanto uno su cinque lo fa. Chissà perché, gli altri quattro si scordano di aver brevettato la molecola di cui vantano l'efficacia, oppure di essere stati retribuiti con denaro, azioni, vacanze omaggio ecc. dall'azienda che la vende.
La settimana scorsa l'Associazione europea degli psichiatri teneva a Ginevra il suo congresso, spesato, come tanti altri, da multinazionali dei farmaci. Il professor Fava ci è andato a elencare scandali, risultati censurati o ritoccati, prescrizioni di medicinali che s'impennano in funzione delle elargizioni aziendali. A dire che così la ricerca ci rimette e i pazienti pure. A proporre che dai direttivi delle società scientifiche, dai comitati che decidono i finanziamenti pubblici, dalla direzione dei giornali importanti sia escluso chi è legato e imbavagliato da interessi economici. La sua doveva essere una tavola rotonda con "ricercatori vicini alle case farmaceutiche", ma tutti quelli contattati dall'Associazione si sono rifiutati di partecipare. Eppure erano spesati anche loro. Viaggio, vitto, alloggio, tutto compreso salvo minibar, telefono e libertà di parola.
Friedrich Nietzsche
ricevuto da P.Cancellieri
Il Mattino 29.4.04
NIETZSCHE DA RISCOPRIRE
Tesi psicologiche di un filosofo molto esplosivo
Oggi alle 16, a «Oltre il chiostro» in Santa Maria La Nova, Sossio Giametta parlerà su «L’aforisma 23 di ”Al di là del bene e del male”, o come Nietzsche trasformò la filosofia in psicologia».
di Sossio Giametta
Nell’aforisma 23 di Al di là del bene e del male Nietzsche dice che i buoni sentimenti fanno la cattiva psicologia e incita a eliminare l’impedimento che i pregiudizi morali costituiscono per il suo sviluppo come «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza». Solo così, afferma, «la psicologia ridiventerà signora delle scienze e la via che porta ai problemi fondamentali». Da Copernico in poi, afferma, «l’uomo scivola dal centro verso una x». Questa x è la realtà, che non è più costruita cupolarmente intorno all’uomo, come nella scienza e nella filosofia pre-copernicane, per effetto di un’inconscia proiezione nell’universo caotico e indefinito dell’unità, razionalità e centralità delle «estetiche nature umane». Ma caduta l’idea della realtà come stabile costituzione delle cose, divenuta cioè la realtà un enigma, una x, diviene una x anche l’Uomo. L’Uomo non c’è più, ci sono solo gli uomini, che hanno una diversa visione della vita secondo la diversa misura della loro forza. È il cosiddetto prospettivismo, che è anche un relativismo.
«Quanta verità sopporta, quanta verità osa uno spirito?» Questo diventa il criterio di misura dell’uomo. «L’errore» dice Nietzsche in Ecce homo «non è cecità, l’errore è viltà... Ogni conquista, ogni passo avanti nella conoscenza seguono dal coraggio, dalla durezza con se stessi». La ragione è dunque soppiantata dalla psicologia come principale strumento di ricerca. E qui Nietzsche, che era un genio della psicologia e non della filosofia, intesa come creazione concettuale sistematica, logica, fa il cammino che lo porta alla sua conquista principale: il nichilismo. Comincia cioè, come un nuovo Machiavelli, con lo psicologizzare l’individuo, mostrando gli istinti e i bisogni fisiologici dietro le pretese spirituali.
Quest’operazione si trasforma in una grande rivendicazione della libertà e dell’indipendenza umane. Dagli individui passa poi alle «formazioni di potenza»: la famiglia, le tribù, le classi, i popoli, per psicologizzare infine quel grande individuo che è l’umanità stessa, la specie. Scorge allora che, al pari che per l’individuo singolo, la morale, anche quella della rinuncia, degli ideali ascetici, ha sempre un fine di autoconservazione e un carattere antropomorfico, finge ordine nel disordine, è un bastione innalzato contro l’onda caotica dell’universo. Con ciò avviene quello che Emerson diceva che avveniva quando sorgeva all’orizzonte un nuovo pensatore: tutti gli ordini costituiti possono saltare da un giorno all’altro, perché un vero filosofo è un esplosivo. Per tutta la vita, Nietzsche ha continuato a proclamare: «Io non sono un uomo, sono dinamite». Non si sbagliava, perché egli aveva psicologizzato la décadence e, come forma principale di essa, il cristianesimo e tutta la civiltà cristiano-europea, annunciando «guerre come non ce ne sono mai state» e predicando quell’antifilosofia, quell’antisistema che è la volontà di potenza, con la riduzione dei valori spirituali a valori fisiologici.
Il Mattino 29.4.04
NIETZSCHE DA RISCOPRIRE
Tesi psicologiche di un filosofo molto esplosivo
Oggi alle 16, a «Oltre il chiostro» in Santa Maria La Nova, Sossio Giametta parlerà su «L’aforisma 23 di ”Al di là del bene e del male”, o come Nietzsche trasformò la filosofia in psicologia».
di Sossio Giametta
Nell’aforisma 23 di Al di là del bene e del male Nietzsche dice che i buoni sentimenti fanno la cattiva psicologia e incita a eliminare l’impedimento che i pregiudizi morali costituiscono per il suo sviluppo come «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza». Solo così, afferma, «la psicologia ridiventerà signora delle scienze e la via che porta ai problemi fondamentali». Da Copernico in poi, afferma, «l’uomo scivola dal centro verso una x». Questa x è la realtà, che non è più costruita cupolarmente intorno all’uomo, come nella scienza e nella filosofia pre-copernicane, per effetto di un’inconscia proiezione nell’universo caotico e indefinito dell’unità, razionalità e centralità delle «estetiche nature umane». Ma caduta l’idea della realtà come stabile costituzione delle cose, divenuta cioè la realtà un enigma, una x, diviene una x anche l’Uomo. L’Uomo non c’è più, ci sono solo gli uomini, che hanno una diversa visione della vita secondo la diversa misura della loro forza. È il cosiddetto prospettivismo, che è anche un relativismo.
«Quanta verità sopporta, quanta verità osa uno spirito?» Questo diventa il criterio di misura dell’uomo. «L’errore» dice Nietzsche in Ecce homo «non è cecità, l’errore è viltà... Ogni conquista, ogni passo avanti nella conoscenza seguono dal coraggio, dalla durezza con se stessi». La ragione è dunque soppiantata dalla psicologia come principale strumento di ricerca. E qui Nietzsche, che era un genio della psicologia e non della filosofia, intesa come creazione concettuale sistematica, logica, fa il cammino che lo porta alla sua conquista principale: il nichilismo. Comincia cioè, come un nuovo Machiavelli, con lo psicologizzare l’individuo, mostrando gli istinti e i bisogni fisiologici dietro le pretese spirituali.
Quest’operazione si trasforma in una grande rivendicazione della libertà e dell’indipendenza umane. Dagli individui passa poi alle «formazioni di potenza»: la famiglia, le tribù, le classi, i popoli, per psicologizzare infine quel grande individuo che è l’umanità stessa, la specie. Scorge allora che, al pari che per l’individuo singolo, la morale, anche quella della rinuncia, degli ideali ascetici, ha sempre un fine di autoconservazione e un carattere antropomorfico, finge ordine nel disordine, è un bastione innalzato contro l’onda caotica dell’universo. Con ciò avviene quello che Emerson diceva che avveniva quando sorgeva all’orizzonte un nuovo pensatore: tutti gli ordini costituiti possono saltare da un giorno all’altro, perché un vero filosofo è un esplosivo. Per tutta la vita, Nietzsche ha continuato a proclamare: «Io non sono un uomo, sono dinamite». Non si sbagliava, perché egli aveva psicologizzato la décadence e, come forma principale di essa, il cristianesimo e tutta la civiltà cristiano-europea, annunciando «guerre come non ce ne sono mai state» e predicando quell’antifilosofia, quell’antisistema che è la volontà di potenza, con la riduzione dei valori spirituali a valori fisiologici.
storia:
la congiura dei Pazzi
Corriere della Sera 29.4.04
Lauro Martines ricostruisce il tentativo di assassinare Lorenzo il Magnifico compiuto nel 1478 durante una messa solenne
Un aprile insanguinato nella Firenze medicea
di ROSARIO VILLARI
Uno dei punti fermi e dominanti del pensiero politico europeo tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo è la condanna della ribellione. Spesso si è attribuito questo atteggiamento di condanna al diffuso conservatorismo della cosiddetta età barocca. Però anche personaggi inquieti e «desiderosi di novità», come allora si diceva, coltivarono in quel periodo la stessa opinione. Tommaso Campanella, per esempio: «Il nome di ribellione - scrisse in una delle sue opere politiche più importanti - porta seco infamia e odio». Già prima di lui, Niccolò Machiavelli aveva dedicato alcune pagine famose all'analisi e alla condanna delle congiure: ma allora il giudizio negativo non era così diffuso e generalizzato come sarebbe diventato in seguito. Al tempo di Machiavelli e nella seconda metà del secolo precedente, alla quale si riferisce l'affascinante libro di Lauro Martines tradotto ora in italiano ("La congiura dei Pazzi. Intrighi politici, sangue e vendetta nella Firenze dei Medici", Mondadori), la parte più rilevante della cultura aveva idee diverse e anzi opposte: l'esaltazione del tirannicidio, della ribellione violenta contro il tiranno, era un luogo comune della cultura politica e letteraria. Accompagnandosi allo spirito di fazione, a una illimitata spregiudicatezza politica (praticata, ovviamente, anche dalla Corte pontificia) e alla volontà di consolidare la ricchezza con il potere, questo luogo comune servì in qualche misura a dare una giustificazione ideale a quell'intreccio di congiure, colpi di Stato e rivolte che si oppose ai processi di sviluppo e di consolidamento degli Stati che alla fine del Medioevo si erano formati nella Penisola italiana.
Il mutamento di giudizio sulla ribellione fu favorito, nel caso particolare dell'Italia, dalla riflessione sulle cause che condussero il nostro Paese alla perdita della sua libertà e all'instaurazione di un dominio straniero esteso a gran parte della Penisola. Le congiure e i complotti della seconda metà del XV secolo furono appunto considerati come una delle cause più importanti dell'indebolimento dei singoli Stati e dell'instabilità del sistema politico, che provocarono dapprima l'invasione francese di Carlo VIII, successivamente lo svolgimento delle lunghe e strazianti guerre tra Francia e Spagna sul suolo italiano e infine l'instaurazione del secolare dominio spagnolo.
Insieme alla congiura dei Porcari a Roma contro il Papa Niccolò V (1453), a quella ispirata dall'umanista Cola Montano a Milano nel 1476 e alla grande sollevazione dei baroni napoletani contro il re naturale e legittimo Ferdinando d'Aragona nel 1484, un episodio particolarmente importante e comunque, per certi aspetti, il più spettacolare, fu il tentativo fiorentino, ordito nel 1478 dalla famiglia dei Pazzi con ampi e ben noti appoggi esterni, di rovesciare la signoria dei Medici.
Stranamente, la storiografia dei tempi a noi più vicini ha dedicato poco impegno al ripensamento e all'approfondimento di queste vicende, sia nel loro insieme (come episodi che, pur nella loro diversità, hanno dei tratti in comune) sia singolarmente. E' una bella e stimolante novità, quindi, l'opera che Martines ha dedicato all'episodio fiorentino e che si raccomanda anche per la qualità della scrittura e per l'originalità dell'impianto storico. L’autore ha esitato a intraprendere l'impresa, ci ha pensato per una ventina d'anni e, finalmente, ha sentito che il clima era adatto per un bloody tale , una storia di sangue; ha sentito che la sensibilità storica era cambiata in modo da rendere più agevole la ricostruzione della vicenda. L’autore ha dato rilievo non solo ai contenuti e significati politici, ma anche all'aspetto spettacolare dell'episodio. Lo spettacolo, che ebbe caratteri di terribile ed estrema violenza, fu intimamente connesso con la sostanza dell’azione politica: e forse episodi come questi, allora frequenti e diffusi, non furono estranei alla formazione degli aspetti più duramente pessimistici della concezione di Machiavelli. Il titolo originale inglese ("April blood"), che mette in più immediata evidenza i caratteri e i contenuti di violenza, si riferisce non tanto all'azione dei congiurati, che provocò la morte di Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, quanto invece al bagno di sangue della repressione che seguì all’attentato. L’analisi della congiura non è certo trascurata nel libro, è anzi esauriente e profonda; ma il significato storico della repressione appare in qualche misura sovrastante.
Ciò potrebbe essere anche un po’ inquietante per il lettore italiano, se non si tenesse presente il quadro generale della storia europea di quel periodo. Si può forse fare una distinzione, sia pure schematicamente e senza la pretesa di rispecchiare in sintesi il significato complessivo dell'opera: la congiura è l'elemento arcaico, medioevale, che viene sconfitto; la repressione è la modernità, che prevale e si afferma nella figura del principe, con il consolidamento del suo potere e di quello dei suoi sostenitori. Ma il modo in cui il principe fiorentino, peraltro colto e raffinato umanista, raggiunse questo risultato solleva interrogativi e problemi che riguardano tutta la storia moderna della nostra nazione.
Lauro Martines ricostruisce il tentativo di assassinare Lorenzo il Magnifico compiuto nel 1478 durante una messa solenne
Un aprile insanguinato nella Firenze medicea
di ROSARIO VILLARI
Uno dei punti fermi e dominanti del pensiero politico europeo tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo è la condanna della ribellione. Spesso si è attribuito questo atteggiamento di condanna al diffuso conservatorismo della cosiddetta età barocca. Però anche personaggi inquieti e «desiderosi di novità», come allora si diceva, coltivarono in quel periodo la stessa opinione. Tommaso Campanella, per esempio: «Il nome di ribellione - scrisse in una delle sue opere politiche più importanti - porta seco infamia e odio». Già prima di lui, Niccolò Machiavelli aveva dedicato alcune pagine famose all'analisi e alla condanna delle congiure: ma allora il giudizio negativo non era così diffuso e generalizzato come sarebbe diventato in seguito. Al tempo di Machiavelli e nella seconda metà del secolo precedente, alla quale si riferisce l'affascinante libro di Lauro Martines tradotto ora in italiano ("La congiura dei Pazzi. Intrighi politici, sangue e vendetta nella Firenze dei Medici", Mondadori), la parte più rilevante della cultura aveva idee diverse e anzi opposte: l'esaltazione del tirannicidio, della ribellione violenta contro il tiranno, era un luogo comune della cultura politica e letteraria. Accompagnandosi allo spirito di fazione, a una illimitata spregiudicatezza politica (praticata, ovviamente, anche dalla Corte pontificia) e alla volontà di consolidare la ricchezza con il potere, questo luogo comune servì in qualche misura a dare una giustificazione ideale a quell'intreccio di congiure, colpi di Stato e rivolte che si oppose ai processi di sviluppo e di consolidamento degli Stati che alla fine del Medioevo si erano formati nella Penisola italiana.
Il mutamento di giudizio sulla ribellione fu favorito, nel caso particolare dell'Italia, dalla riflessione sulle cause che condussero il nostro Paese alla perdita della sua libertà e all'instaurazione di un dominio straniero esteso a gran parte della Penisola. Le congiure e i complotti della seconda metà del XV secolo furono appunto considerati come una delle cause più importanti dell'indebolimento dei singoli Stati e dell'instabilità del sistema politico, che provocarono dapprima l'invasione francese di Carlo VIII, successivamente lo svolgimento delle lunghe e strazianti guerre tra Francia e Spagna sul suolo italiano e infine l'instaurazione del secolare dominio spagnolo.
Insieme alla congiura dei Porcari a Roma contro il Papa Niccolò V (1453), a quella ispirata dall'umanista Cola Montano a Milano nel 1476 e alla grande sollevazione dei baroni napoletani contro il re naturale e legittimo Ferdinando d'Aragona nel 1484, un episodio particolarmente importante e comunque, per certi aspetti, il più spettacolare, fu il tentativo fiorentino, ordito nel 1478 dalla famiglia dei Pazzi con ampi e ben noti appoggi esterni, di rovesciare la signoria dei Medici.
Stranamente, la storiografia dei tempi a noi più vicini ha dedicato poco impegno al ripensamento e all'approfondimento di queste vicende, sia nel loro insieme (come episodi che, pur nella loro diversità, hanno dei tratti in comune) sia singolarmente. E' una bella e stimolante novità, quindi, l'opera che Martines ha dedicato all'episodio fiorentino e che si raccomanda anche per la qualità della scrittura e per l'originalità dell'impianto storico. L’autore ha esitato a intraprendere l'impresa, ci ha pensato per una ventina d'anni e, finalmente, ha sentito che il clima era adatto per un bloody tale , una storia di sangue; ha sentito che la sensibilità storica era cambiata in modo da rendere più agevole la ricostruzione della vicenda. L’autore ha dato rilievo non solo ai contenuti e significati politici, ma anche all'aspetto spettacolare dell'episodio. Lo spettacolo, che ebbe caratteri di terribile ed estrema violenza, fu intimamente connesso con la sostanza dell’azione politica: e forse episodi come questi, allora frequenti e diffusi, non furono estranei alla formazione degli aspetti più duramente pessimistici della concezione di Machiavelli. Il titolo originale inglese ("April blood"), che mette in più immediata evidenza i caratteri e i contenuti di violenza, si riferisce non tanto all'azione dei congiurati, che provocò la morte di Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, quanto invece al bagno di sangue della repressione che seguì all’attentato. L’analisi della congiura non è certo trascurata nel libro, è anzi esauriente e profonda; ma il significato storico della repressione appare in qualche misura sovrastante.
Ciò potrebbe essere anche un po’ inquietante per il lettore italiano, se non si tenesse presente il quadro generale della storia europea di quel periodo. Si può forse fare una distinzione, sia pure schematicamente e senza la pretesa di rispecchiare in sintesi il significato complessivo dell'opera: la congiura è l'elemento arcaico, medioevale, che viene sconfitto; la repressione è la modernità, che prevale e si afferma nella figura del principe, con il consolidamento del suo potere e di quello dei suoi sostenitori. Ma il modo in cui il principe fiorentino, peraltro colto e raffinato umanista, raggiunse questo risultato solleva interrogativi e problemi che riguardano tutta la storia moderna della nostra nazione.
mercoledì 28 aprile 2004
giustizia, un'anticipazione sul nuovo Codice Penale:
i paradigmi di imputabilità e l'"infermità" mentale
Il Gazzettino 28.4.04 Mercoledì, 28 Aprile 2004
NEL NUOVO CODICE
Nordio: «L'infermità mentale da valutare caso per caso e da curare»
di Maria Pia Codato
Padova. Carlo Nordio, presidente della Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale, incaricato di redigere il nuovo progetto, ha dato un'anticipazione sul testo che sarà discusso fra qualche giorno. L'occasione gli è stata offerta dal simposio organizzato (nell'archivio antico del Bo) dall'Università di Padova- Dipartimento di Psicologia generale - sul tema "I paradigmi dell'imputabilità alla luce anche delle nuove acquisizioni della neuropsicologia".«Bisogna innanzitutto premettere il concetto di "punizione". Esistono diverse teorie sul "perchè" si punisce: perchè è stato commesso un reato, al male deve seguire il male, al delitto l'espiazione; per dare un esempio di che cosa accade a chi viola la legge; perchè una persona capisca che ad un reato segue la pena; perchè possa emendarsi sia dal punto di vista morale che da quello sociale; per placare l'allarme sociale altrimenti i cittadini si fanno giustizia da soli. Queste teorie hanno una cosa in comune: presuppongono che vi sia nel soggetto la capacità d'intendere e di volere».Quando si pone, allora, il problema dell'impunibilità?
«Quando il soggetto, nell'attimo in cui compie un reato, non sa quello che fa e non può fare diversamente. In questo caso la punizione è ingiustificata dal punto di vista etico. Un tempo si ricorreva a misure di sicurezza, oggi a quelle di controllo, cura, sostegno. Il Codice Rocco del 1930, anche se è stato modificato in alcuni punti, è ancora attuale. Sostiene che se una persona ha commesso un reato grave e in quel momento era capace d'intendere e di volere è imputabile, altrimenti deve essere mandata in un manicomio, isolata dalla società perchè socialmente pericolosa. Questa rigorosità si è dissolta dalla separazione dei due giudizi: si ritiene che una persona possa essere incapace di intendere e di volere però non essere socialmente pericolosa. Di qui la necessità che il giudice accerti, caso per caso, se vi sia pericolosità sociale e infermità».
Termine, quest'ultimo, che gli psichiatri forensi vorrebbero fosse sostituito con formule alternative come, per esempio, "anomalia psichica", "disturbo psichico". Dottor Nordio, lei per quale ha optato?
«Mi sono attenuto al parere della Società italiana di medicina legale, di Criminologia e di Psichiatria forense le quali, all'unanimità, hanno indicato come unica espressione "infermità". Ho adottato questo termine, anche se un noto psichiatra forense sostiene che è improprio».
Il magistrato veneziano ha concluso sostenendo che la pericolosità di un individuo va valutata volta per volta, che l'infermità deve essere sempre messa in correlazione con il fatto compiuto e ha ribadito che si fa ricorso ad un sistema di controllo, di cura, di sostegno, avendo come obiettivo la guarigione e la rieducazione del soggetto.
NEL NUOVO CODICE
Nordio: «L'infermità mentale da valutare caso per caso e da curare»
di Maria Pia Codato
Padova. Carlo Nordio, presidente della Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale, incaricato di redigere il nuovo progetto, ha dato un'anticipazione sul testo che sarà discusso fra qualche giorno. L'occasione gli è stata offerta dal simposio organizzato (nell'archivio antico del Bo) dall'Università di Padova- Dipartimento di Psicologia generale - sul tema "I paradigmi dell'imputabilità alla luce anche delle nuove acquisizioni della neuropsicologia".«Bisogna innanzitutto premettere il concetto di "punizione". Esistono diverse teorie sul "perchè" si punisce: perchè è stato commesso un reato, al male deve seguire il male, al delitto l'espiazione; per dare un esempio di che cosa accade a chi viola la legge; perchè una persona capisca che ad un reato segue la pena; perchè possa emendarsi sia dal punto di vista morale che da quello sociale; per placare l'allarme sociale altrimenti i cittadini si fanno giustizia da soli. Queste teorie hanno una cosa in comune: presuppongono che vi sia nel soggetto la capacità d'intendere e di volere».Quando si pone, allora, il problema dell'impunibilità?
«Quando il soggetto, nell'attimo in cui compie un reato, non sa quello che fa e non può fare diversamente. In questo caso la punizione è ingiustificata dal punto di vista etico. Un tempo si ricorreva a misure di sicurezza, oggi a quelle di controllo, cura, sostegno. Il Codice Rocco del 1930, anche se è stato modificato in alcuni punti, è ancora attuale. Sostiene che se una persona ha commesso un reato grave e in quel momento era capace d'intendere e di volere è imputabile, altrimenti deve essere mandata in un manicomio, isolata dalla società perchè socialmente pericolosa. Questa rigorosità si è dissolta dalla separazione dei due giudizi: si ritiene che una persona possa essere incapace di intendere e di volere però non essere socialmente pericolosa. Di qui la necessità che il giudice accerti, caso per caso, se vi sia pericolosità sociale e infermità».
Termine, quest'ultimo, che gli psichiatri forensi vorrebbero fosse sostituito con formule alternative come, per esempio, "anomalia psichica", "disturbo psichico". Dottor Nordio, lei per quale ha optato?
«Mi sono attenuto al parere della Società italiana di medicina legale, di Criminologia e di Psichiatria forense le quali, all'unanimità, hanno indicato come unica espressione "infermità". Ho adottato questo termine, anche se un noto psichiatra forense sostiene che è improprio».
Il magistrato veneziano ha concluso sostenendo che la pericolosità di un individuo va valutata volta per volta, che l'infermità deve essere sempre messa in correlazione con il fatto compiuto e ha ribadito che si fa ricorso ad un sistema di controllo, di cura, di sostegno, avendo come obiettivo la guarigione e la rieducazione del soggetto.
esoterismo 2000
Corriere della Sera 28.4.04
Il Graal, un enigma da 20 secoli. Con decine di teorie
Per la tradizione è il calice in cui venne raccolto il sangue di Gesù. Per alcuni studiosi di esoterismo è un segreto sulla vita di Cristo e significa «sangue reale»
La Storia
di Ranieri Polese
Più di sette milioni di copie negli Stati Uniti; oltre mezzo milione in Italia (Mondadori), vicino al milione in Germania, ecc. ecc. In un solo anno, "Il Codice da Vinci" di Dan Brown si è affermato come il bestseller mondiale numero uno. Che ha appassionato lettori dovunque, ma insieme ha portato al pubblico più vasto argomenti di una discussione storico-teologica che non accenna a finire. Cos’è il mistero del Graal? Perché la Chiesa ha tenuto nascosti gli altri Vangeli? E perché ha sminuito il ruolo di Maria Maddalena, e della donna in genere? Accanto alle folle choccate dalla Passione secondo Mel Gibson, i lettori di Dan Brown costituiscono una variopinta legione di credenti in cerca di nuove verità. Vediamo i punti del Codice da Vinci che hanno suscitato tante domande.
IL GRAAL - Tradizionalmente è identificato con la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo sulla croce, e che poi portò in Francia. La parola, secondo l'interpretazione più diffusa, verrebbe dal latino gradalis : piatto, coppa. Assente nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli, questo oggetto carico di sacralità appare fra XII e XIII secolo, in poemi scritti nel filone di Re Artù. Delle molte versioni della leggenda, due sono le più importanti, Perceval di Chrétien de Troyes ( prima del 1190) e il Parzivaldel tedesc o Wolfram von Eschenbach (circa 1200-1210). Quest’ultimo introduce una variante: il Graal sarebbe una gemma preziosa; inoltre, nella descrizione dei cavalieri-monaci, Eschenbach appare ispirato dall’esempio dei Templari. Il suo contemporaneo francese Robert de Boron aggiunge un dettaglio: il vaso di Giuseppe d’Arimatea è il calice dell’Ultima Cena.
Riscoperti in età romantica, i poemi del Graal ispirano il poeta Tennyson e i pittori Preraffaelliti. Ma soprattutto è Richard Wagner che con l'ultima sua opera, "Parsifal" (1882), ridà vita alla leggenda. Da Wagner muove le sue ricerche il tedesco Otto Rahn [cfr un altro articolo su Otto Rahn già inserito in "segnalazioni".Ndr], i cui scritti furono usati dalla propaganda nazista. Nel 1920, l’antropologa inglese Jessie Weston descrive il Graal come il lascito di antichi riti pagani della fertilità, travestiti nel Medioevo con elementi cristiani. Dal suo studio avrebbe tratto ispirazione T. S. Eliot per "La terra desolata" (1922).
Nel 1982, tre giornalisti inglesi - Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln - pubblicano "Il Santo Graal". Il testo contiene molte «novità»: a) Graal deriverebbe da Sang Réal, ovvero Sangue Reale; b) non è una coppa o una gemma, ma un segreto che la Chiesa di Roma cercò di occultare: Cristo sposò Maria Maddalena, ne ebbe una figlia, non morì sulla croce, si trasferì con la famiglia in Provenza, da lui deriverebbero i re Merovingi; c) la prima Crociata, guidata da Goffredo di Buglione (discendente dai Merovingi e quindi da Cristo), aveva lo scopo di trovare il segreto nascosto sotto le rovine del Tempio di Gerusalemme; d) custodi del segreto sono stati i Catari, i Templari, i Rosacroce e infine gli adepti della società segreta, il Priorato di Sion (fra i cui maestri figurano Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Victor Hugo e Jean Cocteau). Sei anni dopo, Umberto Eco pubblica "Il pendolo di Foucault". Nel 2003, negli Stati Uniti, esce "Il Codice da Vinci" che attinge a piene mani al libro di Baigent-Leigh-Lincoln.
I TEMPLARI - Monaci combattenti, i Cavalieri del Tempio fondarono il loro ordine a Gerusalemme nel 1118, 19 anni dopo la conquista della Città santa. Potenti e temuti, ricchi per lasciti e donazioni, si espansero in tutta Europa. Nel 1307, il re di Francia Filippo il Bello con l’appoggio del Papa, accusò i Templari di eresia, sodomia e riti satanici. Catturati, sottoposti a tortura, molti cavalieri finirono sul rogo. Nel ’700, massoni e illuministi li rivalutarono come martiri del libero pensiero. Secondo vari autori, il segreto dei Templari sarebbe passato ai costruttori di cattedrali (i maçons, da cui la Massoneria) e poi ai Rosacroce del ’600. Anche i Catari, gli eretici del XII-XIII secolo, molto forti in Linguadoca e Provenza, conoscevano il segreto.
GLI ALTRI VANGELI - L'idea di un Cristo diverso dalla tradizione della Chiesa sembrò trovare conferma grazie a due scoperte, quella dei papiri di Nag-Hammadi in Egitto (1945) e poi dei Rotoli del Mar Morto (1947). Si tratta di testi dell’età di Gesù, in particolare quelli egiziani propongono narrazioni della vita del Messia di cui il canone del Nuovo Testamento non serba traccia. C’è un Gesù molto più umano, e Maria Maddalena ha molta più importanza. I Rotoli del Mar Morto, solo da pochi anni messi a disposizione di tutti, addirittura hanno fatto credere a un Gesù affiliato alla setta degli Esseni. Baigent, Leigh e Lincoln usano queste scritture «apocrife» nel loro libro; e lo stesso farà Dan Brown.
MISTERI E BESTSELLER - Con Il Santo Graal del 1982, un nuovo filone d’oro si è aperto per l’editoria mondiale: la storia segreta del mondo, tutto quello che la Chiesa non ci ha mai raccontato, i Quattro Vangeli non sempre avevano ragione. Un fiume in piena che si è arricchito delle riletture della Leggenda del Graal, ha riaperto i processi dei Catari e dei Templari, ha incontrato le rivendicazioni femministe, ha incrociato riti new age. «E’ il filone inarrestabile del Grande Complotto, della Storia Segreta che soddisfa il desiderio di ciascuno di noi di pensare che dietro a ogni avvenimento c’è un direttorio occulto» dice Mario Baudino, che ha da poco pubblicato da Longanesi "Il mito che uccide", documentatissima ricostruzione sulla bizzarra figura di Otto Rahn, che credeva di aver individuato il segreto del Graal nelle grotte dei Pirenei, accanto alle rovine dei castelli catari distrutti dalla Crociata del 1208-29.
Ma cosa c’è di certo? «Niente» risponde Baudino. «Documenti veri non esistono, solo qualche falso ormai smascherato. C’è questo fenomeno di letteratura romanzesca, di avventure, che fa presa sul grande pubblico e produce una serie di seguaci e imitatori». Ma perché il libro sul Graal dell’82 ha avuto meno successo del "Codice da Vinci"? «Penso per la scelta di Leonardo, un pittore e un artista conosciuto da tutti. I tre inglesi, invece, usavano il quadro di Poussin, Pastori d’Arcadia: troppo sofisticato. Dopo che Bill Gates ha ricomprato uno dei codici, Leonardo è diventato famoso come una popstar».
Il Graal, un enigma da 20 secoli. Con decine di teorie
Per la tradizione è il calice in cui venne raccolto il sangue di Gesù. Per alcuni studiosi di esoterismo è un segreto sulla vita di Cristo e significa «sangue reale»
La Storia
di Ranieri Polese
Più di sette milioni di copie negli Stati Uniti; oltre mezzo milione in Italia (Mondadori), vicino al milione in Germania, ecc. ecc. In un solo anno, "Il Codice da Vinci" di Dan Brown si è affermato come il bestseller mondiale numero uno. Che ha appassionato lettori dovunque, ma insieme ha portato al pubblico più vasto argomenti di una discussione storico-teologica che non accenna a finire. Cos’è il mistero del Graal? Perché la Chiesa ha tenuto nascosti gli altri Vangeli? E perché ha sminuito il ruolo di Maria Maddalena, e della donna in genere? Accanto alle folle choccate dalla Passione secondo Mel Gibson, i lettori di Dan Brown costituiscono una variopinta legione di credenti in cerca di nuove verità. Vediamo i punti del Codice da Vinci che hanno suscitato tante domande.
IL GRAAL - Tradizionalmente è identificato con la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo sulla croce, e che poi portò in Francia. La parola, secondo l'interpretazione più diffusa, verrebbe dal latino gradalis : piatto, coppa. Assente nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli, questo oggetto carico di sacralità appare fra XII e XIII secolo, in poemi scritti nel filone di Re Artù. Delle molte versioni della leggenda, due sono le più importanti, Perceval di Chrétien de Troyes ( prima del 1190) e il Parzivaldel tedesc o Wolfram von Eschenbach (circa 1200-1210). Quest’ultimo introduce una variante: il Graal sarebbe una gemma preziosa; inoltre, nella descrizione dei cavalieri-monaci, Eschenbach appare ispirato dall’esempio dei Templari. Il suo contemporaneo francese Robert de Boron aggiunge un dettaglio: il vaso di Giuseppe d’Arimatea è il calice dell’Ultima Cena.
Riscoperti in età romantica, i poemi del Graal ispirano il poeta Tennyson e i pittori Preraffaelliti. Ma soprattutto è Richard Wagner che con l'ultima sua opera, "Parsifal" (1882), ridà vita alla leggenda. Da Wagner muove le sue ricerche il tedesco Otto Rahn [cfr un altro articolo su Otto Rahn già inserito in "segnalazioni".Ndr], i cui scritti furono usati dalla propaganda nazista. Nel 1920, l’antropologa inglese Jessie Weston descrive il Graal come il lascito di antichi riti pagani della fertilità, travestiti nel Medioevo con elementi cristiani. Dal suo studio avrebbe tratto ispirazione T. S. Eliot per "La terra desolata" (1922).
Nel 1982, tre giornalisti inglesi - Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln - pubblicano "Il Santo Graal". Il testo contiene molte «novità»: a) Graal deriverebbe da Sang Réal, ovvero Sangue Reale; b) non è una coppa o una gemma, ma un segreto che la Chiesa di Roma cercò di occultare: Cristo sposò Maria Maddalena, ne ebbe una figlia, non morì sulla croce, si trasferì con la famiglia in Provenza, da lui deriverebbero i re Merovingi; c) la prima Crociata, guidata da Goffredo di Buglione (discendente dai Merovingi e quindi da Cristo), aveva lo scopo di trovare il segreto nascosto sotto le rovine del Tempio di Gerusalemme; d) custodi del segreto sono stati i Catari, i Templari, i Rosacroce e infine gli adepti della società segreta, il Priorato di Sion (fra i cui maestri figurano Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Victor Hugo e Jean Cocteau). Sei anni dopo, Umberto Eco pubblica "Il pendolo di Foucault". Nel 2003, negli Stati Uniti, esce "Il Codice da Vinci" che attinge a piene mani al libro di Baigent-Leigh-Lincoln.
I TEMPLARI - Monaci combattenti, i Cavalieri del Tempio fondarono il loro ordine a Gerusalemme nel 1118, 19 anni dopo la conquista della Città santa. Potenti e temuti, ricchi per lasciti e donazioni, si espansero in tutta Europa. Nel 1307, il re di Francia Filippo il Bello con l’appoggio del Papa, accusò i Templari di eresia, sodomia e riti satanici. Catturati, sottoposti a tortura, molti cavalieri finirono sul rogo. Nel ’700, massoni e illuministi li rivalutarono come martiri del libero pensiero. Secondo vari autori, il segreto dei Templari sarebbe passato ai costruttori di cattedrali (i maçons, da cui la Massoneria) e poi ai Rosacroce del ’600. Anche i Catari, gli eretici del XII-XIII secolo, molto forti in Linguadoca e Provenza, conoscevano il segreto.
GLI ALTRI VANGELI - L'idea di un Cristo diverso dalla tradizione della Chiesa sembrò trovare conferma grazie a due scoperte, quella dei papiri di Nag-Hammadi in Egitto (1945) e poi dei Rotoli del Mar Morto (1947). Si tratta di testi dell’età di Gesù, in particolare quelli egiziani propongono narrazioni della vita del Messia di cui il canone del Nuovo Testamento non serba traccia. C’è un Gesù molto più umano, e Maria Maddalena ha molta più importanza. I Rotoli del Mar Morto, solo da pochi anni messi a disposizione di tutti, addirittura hanno fatto credere a un Gesù affiliato alla setta degli Esseni. Baigent, Leigh e Lincoln usano queste scritture «apocrife» nel loro libro; e lo stesso farà Dan Brown.
MISTERI E BESTSELLER - Con Il Santo Graal del 1982, un nuovo filone d’oro si è aperto per l’editoria mondiale: la storia segreta del mondo, tutto quello che la Chiesa non ci ha mai raccontato, i Quattro Vangeli non sempre avevano ragione. Un fiume in piena che si è arricchito delle riletture della Leggenda del Graal, ha riaperto i processi dei Catari e dei Templari, ha incontrato le rivendicazioni femministe, ha incrociato riti new age. «E’ il filone inarrestabile del Grande Complotto, della Storia Segreta che soddisfa il desiderio di ciascuno di noi di pensare che dietro a ogni avvenimento c’è un direttorio occulto» dice Mario Baudino, che ha da poco pubblicato da Longanesi "Il mito che uccide", documentatissima ricostruzione sulla bizzarra figura di Otto Rahn, che credeva di aver individuato il segreto del Graal nelle grotte dei Pirenei, accanto alle rovine dei castelli catari distrutti dalla Crociata del 1208-29.
Ma cosa c’è di certo? «Niente» risponde Baudino. «Documenti veri non esistono, solo qualche falso ormai smascherato. C’è questo fenomeno di letteratura romanzesca, di avventure, che fa presa sul grande pubblico e produce una serie di seguaci e imitatori». Ma perché il libro sul Graal dell’82 ha avuto meno successo del "Codice da Vinci"? «Penso per la scelta di Leonardo, un pittore e un artista conosciuto da tutti. I tre inglesi, invece, usavano il quadro di Poussin, Pastori d’Arcadia: troppo sofisticato. Dopo che Bill Gates ha ricomprato uno dei codici, Leonardo è diventato famoso come una popstar».
lo sguardo, il vedere, il potere:
Umberto Curi a Firenze
Repubblica Ed. di Firenze 28.4.04
La filosofia come visione il libro di Umberto Curi
Dalla Grecia classica a Orwell l'eterno primato della vista
Una pluralità di testi occidentali che confermano la relazione che esiste fra potere e vedere
Consegnato a miti, filosofie, letterature e arti, il primato della vista si identifica da sempre con il possesso del sapere e l'esercizio del potere. Se in greco antico il lessico del vedere e quello del conoscere sono tutt'uno, e per Platone è "filosofo" chi ama "lo spettacolo della verità", l'equivalenza di teoria e visione che fonda la metafisica occidentale non ha nulla del dato acquietante, anzi si configura come una dolorosa drammaturgia. In un libro che compie un'escursione dalla tragedia a Freud e Orwell, Umberto Curi, storico della filosofia, ospite di "Leggere per non dimenticare" oggi alla Biblioteca comunale (via Sant'Egidio 21, ore 17.30) indaga le ragioni che rendono lo sguardo così potente. Introducono Bruno Accarino e Fabrizio Desideri.
Il testo spazia, in un ampio percorso, dalla mitologia greca a Jeremy Bentham, dal saggio di Freud sul perturbante fino al Big Brother: dalle prime pagine ho scelto le righe che anticipano come il vedere sia sempre carico di potere.
"Nel mondo greco classico, la superiorità della vista rispetto agli altri sensi, e in particolare rispetto all'udito, risulta immediatamente dalla sostanziale identità sussistente fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere. Direttamente dalla radice greca, o più spesso attraverso la mediazione della lingua latina, quest'uso sopravvive ed è largamente diffuso nelle lingue moderne, dove ciò che è originariamente pertinente alla visione diventa ben presto anche requisito della conoscenza. Così è, ad esempio, per termini italiani come la "chiarezza" o la "perspicuità", o (ancor più nettamente) l'"e-videnza", o per coppie oppositive come "brillante-oscuro", o per metafore come "panoramica" o "illuminazione". Il privilegiamento dell'universo del vedere può essere attribuito ad una convinzione che è profondamente radicata nella tradizione occidentale, fin dalle sue origini nella Grecia arcaica, e che raggiunge poi, sebbene attraverso un itinerario non lineare e assumendo forme differenti, l'età moderna e contemporanea. È possibile attraversare la storia della cultura occidentale soffermandosi su alcune "stazioni", nelle quali più evidente, oltre che teoreticamente più significativo, è l'emergere della forza dello sguardo. Non si tratta soltanto di alcuni importanti documenti del grande repertorio mitologico antico, come quelli riguardanti l'enigmatica figura della Medusa o l'esemplare vicenda del pastore Gige, ma di una pluralità di altri testi - letterari e filosofici, figurativi e cinematografici - i quali pure testimoniano, se adeguatamente interrogati, la persistenza della concezione che riconosce l'inerenza del potere nell'esercizio stesso del vedere. Testi filosofici come la Repubblica di Platone o il Panopticon di Bentham, ma anche scritti come quelli di Freud o il romanzo di Orwell sul Big Brother, possono essere interpretati in questa chiave".
Umberto Curi: La forza dello sguardo, ed. Bollati Boringhieri 2004 € 25,00
La filosofia come visione il libro di Umberto Curi
Dalla Grecia classica a Orwell l'eterno primato della vista
Una pluralità di testi occidentali che confermano la relazione che esiste fra potere e vedere
Consegnato a miti, filosofie, letterature e arti, il primato della vista si identifica da sempre con il possesso del sapere e l'esercizio del potere. Se in greco antico il lessico del vedere e quello del conoscere sono tutt'uno, e per Platone è "filosofo" chi ama "lo spettacolo della verità", l'equivalenza di teoria e visione che fonda la metafisica occidentale non ha nulla del dato acquietante, anzi si configura come una dolorosa drammaturgia. In un libro che compie un'escursione dalla tragedia a Freud e Orwell, Umberto Curi, storico della filosofia, ospite di "Leggere per non dimenticare" oggi alla Biblioteca comunale (via Sant'Egidio 21, ore 17.30) indaga le ragioni che rendono lo sguardo così potente. Introducono Bruno Accarino e Fabrizio Desideri.
Il testo spazia, in un ampio percorso, dalla mitologia greca a Jeremy Bentham, dal saggio di Freud sul perturbante fino al Big Brother: dalle prime pagine ho scelto le righe che anticipano come il vedere sia sempre carico di potere.
"Nel mondo greco classico, la superiorità della vista rispetto agli altri sensi, e in particolare rispetto all'udito, risulta immediatamente dalla sostanziale identità sussistente fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere. Direttamente dalla radice greca, o più spesso attraverso la mediazione della lingua latina, quest'uso sopravvive ed è largamente diffuso nelle lingue moderne, dove ciò che è originariamente pertinente alla visione diventa ben presto anche requisito della conoscenza. Così è, ad esempio, per termini italiani come la "chiarezza" o la "perspicuità", o (ancor più nettamente) l'"e-videnza", o per coppie oppositive come "brillante-oscuro", o per metafore come "panoramica" o "illuminazione". Il privilegiamento dell'universo del vedere può essere attribuito ad una convinzione che è profondamente radicata nella tradizione occidentale, fin dalle sue origini nella Grecia arcaica, e che raggiunge poi, sebbene attraverso un itinerario non lineare e assumendo forme differenti, l'età moderna e contemporanea. È possibile attraversare la storia della cultura occidentale soffermandosi su alcune "stazioni", nelle quali più evidente, oltre che teoreticamente più significativo, è l'emergere della forza dello sguardo. Non si tratta soltanto di alcuni importanti documenti del grande repertorio mitologico antico, come quelli riguardanti l'enigmatica figura della Medusa o l'esemplare vicenda del pastore Gige, ma di una pluralità di altri testi - letterari e filosofici, figurativi e cinematografici - i quali pure testimoniano, se adeguatamente interrogati, la persistenza della concezione che riconosce l'inerenza del potere nell'esercizio stesso del vedere. Testi filosofici come la Repubblica di Platone o il Panopticon di Bentham, ma anche scritti come quelli di Freud o il romanzo di Orwell sul Big Brother, possono essere interpretati in questa chiave".
Umberto Curi: La forza dello sguardo, ed. Bollati Boringhieri 2004 € 25,00
un salto a Barcellona?
La Stampa 28 Aprile 2004
CINQUE MESI DI EVENTI, MOSTRE E SPETTACOLI
Le voci e il Gigante
di Rocco Moliterni
inviato a BARCELLONA
A vederla a pochi giorni dall’apertura del Forum è una grande sfera di metallo che si apre a spicchi sull’acqua come un’arancia: sarà la struttura portante del Gigante dei Sette Mari, uno dei sei spettacoli permanenti che animeranno fino al 26 settembre la kermesse catalana. Quattro sono invece le grandi mostre allestite nell’area del Forum. La prima, sul tema della diversità, uno degli assi portanti della manifestazione, si chiama Voci, è curata da Vicenç Villatoro, e fa, tra l’altro, sentire come suonano le lingue dei vari paesi del mondo. Dalla Cina arrivano i Guerrieri di Xi’An: la mostra si divide in due sezioni che corrispondono ai due periodi fondamentali della formazione e del consolidamento delle dinastie Qin (221-207 a. C.) e Han (206 a. C.- 220 d.C.). Si vedranno 140 statue che mostrano come la cultura cinese dell’epoca si trasforma nel passare da un periodo di guerra a uno di pace.
Abitare il mondo è la maxi-mostra che su oltre 4 mila metri quadrati cerca di percorrere i vari modi in cui l’uomo ha creato il suo habitat sul nostro pianeta, con i problemi connessi. Vuole evidenziare infatti come le risorse della terra non siano infinite (la sostenibilità è un altro dei temi portanti del Forum) e come questa sia una delle ragioni di conflitto fra i popoli. Alla città come luogo di incontro di culture è infine dedicata la quarta esposizione, con grandi scenografie che ricreeranno angoli di New York, Tokyo e Strasburgo.
Ma il Forum non si esaurirà nell’area lungo il mare, tutta Barcellona ospiterà oltre venti mostre. La più grande, al Museo di storia della città, nel barrio gotico, vedrà arrivare capolavori da tutto il mondo. Si chiama La condizione umana, Il sogno di un’ombra è curata da Pedro Azara, e vuole raccontare come l’umanità nel corso dei secoli ha rappresentato se stessa attraverso le grandi opere d’arte. Tra le centinaia di opere frontoni dei templi greci e De Chirico, statue d’arte africana e fotografie di Cindy Sherman, quadri di Gaspare Traversi e installazioni di Louise Bourgeois.
Tra le altre esposizioni al Centro di Cultura Contemporanea (CCCB) La guerra, racconta come i conflitti sono stati rappresentati dall’uomo. al Museo Picasso Picasso. Guerra e pace. Harald Szeemann è il curatore al Museo Mirò de La bellezza della sconfitta, la sconfitta della bellezza. Bob Wilson ha invece creato le scenografie per l’Immagine del corpo, al museo di cultura precolombiana.
CINQUE MESI DI EVENTI, MOSTRE E SPETTACOLI
Le voci e il Gigante
di Rocco Moliterni
inviato a BARCELLONA
A vederla a pochi giorni dall’apertura del Forum è una grande sfera di metallo che si apre a spicchi sull’acqua come un’arancia: sarà la struttura portante del Gigante dei Sette Mari, uno dei sei spettacoli permanenti che animeranno fino al 26 settembre la kermesse catalana. Quattro sono invece le grandi mostre allestite nell’area del Forum. La prima, sul tema della diversità, uno degli assi portanti della manifestazione, si chiama Voci, è curata da Vicenç Villatoro, e fa, tra l’altro, sentire come suonano le lingue dei vari paesi del mondo. Dalla Cina arrivano i Guerrieri di Xi’An: la mostra si divide in due sezioni che corrispondono ai due periodi fondamentali della formazione e del consolidamento delle dinastie Qin (221-207 a. C.) e Han (206 a. C.- 220 d.C.). Si vedranno 140 statue che mostrano come la cultura cinese dell’epoca si trasforma nel passare da un periodo di guerra a uno di pace.
Abitare il mondo è la maxi-mostra che su oltre 4 mila metri quadrati cerca di percorrere i vari modi in cui l’uomo ha creato il suo habitat sul nostro pianeta, con i problemi connessi. Vuole evidenziare infatti come le risorse della terra non siano infinite (la sostenibilità è un altro dei temi portanti del Forum) e come questa sia una delle ragioni di conflitto fra i popoli. Alla città come luogo di incontro di culture è infine dedicata la quarta esposizione, con grandi scenografie che ricreeranno angoli di New York, Tokyo e Strasburgo.
Ma il Forum non si esaurirà nell’area lungo il mare, tutta Barcellona ospiterà oltre venti mostre. La più grande, al Museo di storia della città, nel barrio gotico, vedrà arrivare capolavori da tutto il mondo. Si chiama La condizione umana, Il sogno di un’ombra è curata da Pedro Azara, e vuole raccontare come l’umanità nel corso dei secoli ha rappresentato se stessa attraverso le grandi opere d’arte. Tra le centinaia di opere frontoni dei templi greci e De Chirico, statue d’arte africana e fotografie di Cindy Sherman, quadri di Gaspare Traversi e installazioni di Louise Bourgeois.
Tra le altre esposizioni al Centro di Cultura Contemporanea (CCCB) La guerra, racconta come i conflitti sono stati rappresentati dall’uomo. al Museo Picasso Picasso. Guerra e pace. Harald Szeemann è il curatore al Museo Mirò de La bellezza della sconfitta, la sconfitta della bellezza. Bob Wilson ha invece creato le scenografie per l’Immagine del corpo, al museo di cultura precolombiana.
Henri Poincaré nasceva 150 anni fa
La Stampa Tuttoscienze 28.4.04
Difese la teoria dei quanti
Poincaré, matematico che tifava per Planck
Fu pioniere della topologia, in meccanica celeste si occupò del problema dei tre corpi, e con Einstein fu un padre della relatività ristretta
Francesco De Pretis (*)
IL 29 aprile saranno centocinquant'anni dalla nascita di Jules Henri Poincaré, una delle più brillanti menti matematiche che la storia della scienza abbia mai conosciuto. Nato a Nancy, città della Lorraine, contesa in quegli anni da francesi e tedeschi, Poincaré dimostrò fin da giovane la sua brillante indole scientifica: discepolo di Charles Hermite, completò gli studi nel 1879 con una memorabile tesi di dottorato sulle equazioni differenziali. Queste equazioni - le cui incognite sono funzioni - erano state trattate sin dalla nascita dell'analisi, già dai suoi fondatori Newton e Leibniz: erano noti metodi di soluzione esatta per particolari classi di queste equazioni ma nessun matematico si era mai posto il problema di creare una teoria che ne affrontasse una trattazione generale: la moderna teoria qualitativa delle equazioni differenziali venne fondata da Poincaré proprio per rispondere a questa esigenza. Il matematico francese introdusse, come soluzioni di equazioni differenziali, nuovi tipi di funzioni trascendenti che chiamò funzioni fuchsiane - in ricordo di Lazarus Fuchs che per primo le aveva studiate - caratterizzate dall'essere invarianti sotto un particolare gruppo di trasformazioni che - con sorpresa dello stesso Poincaré - era identico a quello della geometria non euclidea di Lobatchevsky (della quale, in seguito, fornì un celebre modello bidimensionale): un insospettato legame fra analisi e geometria andava profilandosi. L'approccio geometrico al problema divenne così una costante, un modus operandi che guidò Poincaré nelle sue scoperte: conscio delle importanti ricadute che la geometria aveva avuto nelle proprie ricerche di analisi, per il matematico francese assunse allora importanza determinate l'analysis situs - la moderna topologia - che, nello scritto omonimo del 1895, definì come "la scienza che ci fa conoscere le proprietà qualitative delle figure geometriche, non soltanto nello spazio ordinario ma nello spazio a più di tre dimensioni". La modernità della sua visione è impressionante: Poincaré ridusse i problemi topologici all'algebra, introducendo la nozione di gruppo fondamentale, utilizzato per distinguere le differenti categorie di superfici n-dimensionali: da questa classificazione deriva una congettura che è ancora al centro delle ricerche odierne. Sono da ricordare poi suoi importanti apporti alla teoria dei numeri; con uno scritto del 1883, Poincaré è anche considerato il fondatore dell'Analisi complessa a più variabili: i suoi multiformi interessi però valicarono ben presto la ricerca strettamente matematica per approdare nel campo della fisica. Interessatosi al problema dei tre corpi (come determinare la traiettoria di tre punti materiali - ad esempio il sistema Sole, Terra e Luna - che si attraggono vicendevolmente secondo la legge di gravitazione universale?), lo generalizzò e grazie agli strumenti di analisi che egli stesso aveva approntato, investigò i problemi di stabilità dei modelli che descrivevano il sistema solare: la sua opera "Les méthodes nouvelles de la Mécanique Céleste" (1892-99) è una pietra miliare di quella che oggi definiremo fisica-matematica. Poincaré sostenne con forza e autorevolezza l'ipotesi quantistica di Planck sin dal suo esordio: già nel 1898 si interrogava sulla simultaneità di due eventi temporali e, con lo storico scritto del 1905 "Sur la dynamique de l'éléctron", è considerato, con Einstein e Lorentz, tra i fondatori della relatività ristretta. Consapevole del suo ruolo di uomo di scienza e sempre pronto a interrogarsi sulla ricerca (celebri i suoi saggi di carattere epistemologico) e sul modo di fare ricerca (collaborò anche con psicologi sul tema della "creatività" matematica), Poincaré fu anche pioniere del giornalismo scientifico: scrisse molti articoli di carattere divulgativo quando scrivere di scienza per il grande pubblico non era certo usuale.
(*)Università di Modena
Difese la teoria dei quanti
Poincaré, matematico che tifava per Planck
Fu pioniere della topologia, in meccanica celeste si occupò del problema dei tre corpi, e con Einstein fu un padre della relatività ristretta
Francesco De Pretis (*)
IL 29 aprile saranno centocinquant'anni dalla nascita di Jules Henri Poincaré, una delle più brillanti menti matematiche che la storia della scienza abbia mai conosciuto. Nato a Nancy, città della Lorraine, contesa in quegli anni da francesi e tedeschi, Poincaré dimostrò fin da giovane la sua brillante indole scientifica: discepolo di Charles Hermite, completò gli studi nel 1879 con una memorabile tesi di dottorato sulle equazioni differenziali. Queste equazioni - le cui incognite sono funzioni - erano state trattate sin dalla nascita dell'analisi, già dai suoi fondatori Newton e Leibniz: erano noti metodi di soluzione esatta per particolari classi di queste equazioni ma nessun matematico si era mai posto il problema di creare una teoria che ne affrontasse una trattazione generale: la moderna teoria qualitativa delle equazioni differenziali venne fondata da Poincaré proprio per rispondere a questa esigenza. Il matematico francese introdusse, come soluzioni di equazioni differenziali, nuovi tipi di funzioni trascendenti che chiamò funzioni fuchsiane - in ricordo di Lazarus Fuchs che per primo le aveva studiate - caratterizzate dall'essere invarianti sotto un particolare gruppo di trasformazioni che - con sorpresa dello stesso Poincaré - era identico a quello della geometria non euclidea di Lobatchevsky (della quale, in seguito, fornì un celebre modello bidimensionale): un insospettato legame fra analisi e geometria andava profilandosi. L'approccio geometrico al problema divenne così una costante, un modus operandi che guidò Poincaré nelle sue scoperte: conscio delle importanti ricadute che la geometria aveva avuto nelle proprie ricerche di analisi, per il matematico francese assunse allora importanza determinate l'analysis situs - la moderna topologia - che, nello scritto omonimo del 1895, definì come "la scienza che ci fa conoscere le proprietà qualitative delle figure geometriche, non soltanto nello spazio ordinario ma nello spazio a più di tre dimensioni". La modernità della sua visione è impressionante: Poincaré ridusse i problemi topologici all'algebra, introducendo la nozione di gruppo fondamentale, utilizzato per distinguere le differenti categorie di superfici n-dimensionali: da questa classificazione deriva una congettura che è ancora al centro delle ricerche odierne. Sono da ricordare poi suoi importanti apporti alla teoria dei numeri; con uno scritto del 1883, Poincaré è anche considerato il fondatore dell'Analisi complessa a più variabili: i suoi multiformi interessi però valicarono ben presto la ricerca strettamente matematica per approdare nel campo della fisica. Interessatosi al problema dei tre corpi (come determinare la traiettoria di tre punti materiali - ad esempio il sistema Sole, Terra e Luna - che si attraggono vicendevolmente secondo la legge di gravitazione universale?), lo generalizzò e grazie agli strumenti di analisi che egli stesso aveva approntato, investigò i problemi di stabilità dei modelli che descrivevano il sistema solare: la sua opera "Les méthodes nouvelles de la Mécanique Céleste" (1892-99) è una pietra miliare di quella che oggi definiremo fisica-matematica. Poincaré sostenne con forza e autorevolezza l'ipotesi quantistica di Planck sin dal suo esordio: già nel 1898 si interrogava sulla simultaneità di due eventi temporali e, con lo storico scritto del 1905 "Sur la dynamique de l'éléctron", è considerato, con Einstein e Lorentz, tra i fondatori della relatività ristretta. Consapevole del suo ruolo di uomo di scienza e sempre pronto a interrogarsi sulla ricerca (celebri i suoi saggi di carattere epistemologico) e sul modo di fare ricerca (collaborò anche con psicologi sul tema della "creatività" matematica), Poincaré fu anche pioniere del giornalismo scientifico: scrisse molti articoli di carattere divulgativo quando scrivere di scienza per il grande pubblico non era certo usuale.
(*)Università di Modena
martedì 27 aprile 2004
LA REGISTRAZIONE DEL
TERZO INCONTRO DI RICERCA PSICHIATRICA
2003 - 2004
svoltosi
nella Aula Magna della "Sapienza" di Roma
Sabato 24 Aprile 2004
È DISPONIBILE SUL SITO DI
WWW.MAWIVIDEO.IT
_________________________
la violenza contro le donne
La Stampa 27 Aprile 2004
Crescono gli abusi in casa
A Mirafiori storie di ordinari maltrattamenti
di Lodovico Poletto
La violenza sulle donne ha il sapore di una cosa di casa. Si pratica in famiglia e gli «aguzzini» sono mariti o genitori. E quando si parla di violenza non è soltanto una questione di abusi sessuali, ma ci sono le botte e le pressioni psicologiche, che spesso sono così forti da far più male dei lividi. Da lasciare ferite che si rimargineranno con grande fatica.
Mirafiori Nord non è certo il quartiere più violento di Torino. E proprio per questo Il Cirsde (il centro interdisciplinare di ricerca e studi delle donne dell’Università) lo ha scelto come area tipo per una ricerca da titolo «Violenze Urbane», realizzata nell’ambito del progetto Urban sulle periferie in collaborazione con il Comune di Torino. La densità della popolazione in questa zona rispecchia l’andamento urbano, anche se, forse, è un po’ più anziana di altri angoli di Torino. Per tutto il resto Mirafiori Nord potrebbe essere un qualunque angolo periferia: i reati consumati sono nettamente in media con il resto della città, i problemi sono quelli comuni a molte altre zone.
Qui, in un quartiere percepito sostanzialmente come «sicuro», dove la gente non ha paura a camminare sola per strada la sera, lo scorso anno 161 donne hanno denunciato violenze. Lo hanno fatto tra mille difficoltà e ripensamenti, aiutate e convinte spesso da un’amica oppure da una persona loro molto vicina. Le statistiche che i ricercatori del Cirsde, con una certa fatica, hanno stilato raccogliendo le denunce presentate alle forze dell’ordine, ai pronto soccorso, ai Sert, ai consultori e alle strutture di servizio sociale raccontano che su 54 casi di violenza sessuale 38 si sono consumati tra le mura domestiche. Trentadue sono ad opera del coniuge, il resto da parte di un genitore. E non sfuggono a questa regola neppure i maltrattamenti: 84 su 107 hanno avuto come scenario le stanze di casa, e la mano che ha colpito è stata quella del marito.
Dati che fanno riflettere Franca Balsamo, docente universitario e responsabile scientifica del gruppo di ricerca del Cirsde e che dice: «Non c’è più violenza che in passato, ma il numero delle denunce dimostra che, tra le donne, è cresciuta la consapevolezza, è aumentata l’intolleranza verso quelle forme di abuso che prima erano considerate quasi fisiologiche. Subite come eventi inevitabili». E c’è ancora un altro fatto «anomalo»: la percezione della sicurezza. «Se il quartiere è considerato sicuro - dice ancora Franca Balsamo - la casa è quasi considerata uno spazio extraterritoriale. Lì capitano fatti che non rientrano nella vita della zona e le mura domestiche sono viste come uno spazio autonomo».
Riflessioni che, ieri, hanno animato a Torino Incontra il primo dei due giorni di dibattito sulle violenze urbane (si prosegue oggi con gruppi di lavoro a tema e con la partecipazione del coordinamento cittadino contro la violenza alle donne). E che serviranno come spunto anche per indagini future.
Ed è ancora Franca Balsamo a sottolineare un altro aspetto della questione: «I servizi sociali non sono ancora punti di riferimento per le donne, sebbene la loro presenza sul territorio sia molto diffusa. E questo perché sono poco conosciuti. Si sa della presenza di alcuni servizi telefonici, ma non di tutte le altre strutture».
E i violenti, chi sono? L’indagine del Cirsde - che ha interessato anche un campione di di mille donne e 300 uomini, intervistati telefonicamente - non traccia un profilo univoco. Il 24 per cento pensa che siano persone violente di natura; il 13 che siano «poco sani di mente» mentre il 12% li ritiene drogati oppure ubriachi. Di certo, in gran parte, erano familiari: mariti, fratelli, parenti prossimi o addirittura padri. Gli estranei sono una minoranza esigua dal punto di vista statistico. Eppure, nell’immaginario collettivo, sono proprio loro quelli che fanno più paura.
Crescono gli abusi in casa
A Mirafiori storie di ordinari maltrattamenti
di Lodovico Poletto
La violenza sulle donne ha il sapore di una cosa di casa. Si pratica in famiglia e gli «aguzzini» sono mariti o genitori. E quando si parla di violenza non è soltanto una questione di abusi sessuali, ma ci sono le botte e le pressioni psicologiche, che spesso sono così forti da far più male dei lividi. Da lasciare ferite che si rimargineranno con grande fatica.
Mirafiori Nord non è certo il quartiere più violento di Torino. E proprio per questo Il Cirsde (il centro interdisciplinare di ricerca e studi delle donne dell’Università) lo ha scelto come area tipo per una ricerca da titolo «Violenze Urbane», realizzata nell’ambito del progetto Urban sulle periferie in collaborazione con il Comune di Torino. La densità della popolazione in questa zona rispecchia l’andamento urbano, anche se, forse, è un po’ più anziana di altri angoli di Torino. Per tutto il resto Mirafiori Nord potrebbe essere un qualunque angolo periferia: i reati consumati sono nettamente in media con il resto della città, i problemi sono quelli comuni a molte altre zone.
Qui, in un quartiere percepito sostanzialmente come «sicuro», dove la gente non ha paura a camminare sola per strada la sera, lo scorso anno 161 donne hanno denunciato violenze. Lo hanno fatto tra mille difficoltà e ripensamenti, aiutate e convinte spesso da un’amica oppure da una persona loro molto vicina. Le statistiche che i ricercatori del Cirsde, con una certa fatica, hanno stilato raccogliendo le denunce presentate alle forze dell’ordine, ai pronto soccorso, ai Sert, ai consultori e alle strutture di servizio sociale raccontano che su 54 casi di violenza sessuale 38 si sono consumati tra le mura domestiche. Trentadue sono ad opera del coniuge, il resto da parte di un genitore. E non sfuggono a questa regola neppure i maltrattamenti: 84 su 107 hanno avuto come scenario le stanze di casa, e la mano che ha colpito è stata quella del marito.
Dati che fanno riflettere Franca Balsamo, docente universitario e responsabile scientifica del gruppo di ricerca del Cirsde e che dice: «Non c’è più violenza che in passato, ma il numero delle denunce dimostra che, tra le donne, è cresciuta la consapevolezza, è aumentata l’intolleranza verso quelle forme di abuso che prima erano considerate quasi fisiologiche. Subite come eventi inevitabili». E c’è ancora un altro fatto «anomalo»: la percezione della sicurezza. «Se il quartiere è considerato sicuro - dice ancora Franca Balsamo - la casa è quasi considerata uno spazio extraterritoriale. Lì capitano fatti che non rientrano nella vita della zona e le mura domestiche sono viste come uno spazio autonomo».
Riflessioni che, ieri, hanno animato a Torino Incontra il primo dei due giorni di dibattito sulle violenze urbane (si prosegue oggi con gruppi di lavoro a tema e con la partecipazione del coordinamento cittadino contro la violenza alle donne). E che serviranno come spunto anche per indagini future.
Ed è ancora Franca Balsamo a sottolineare un altro aspetto della questione: «I servizi sociali non sono ancora punti di riferimento per le donne, sebbene la loro presenza sul territorio sia molto diffusa. E questo perché sono poco conosciuti. Si sa della presenza di alcuni servizi telefonici, ma non di tutte le altre strutture».
E i violenti, chi sono? L’indagine del Cirsde - che ha interessato anche un campione di di mille donne e 300 uomini, intervistati telefonicamente - non traccia un profilo univoco. Il 24 per cento pensa che siano persone violente di natura; il 13 che siano «poco sani di mente» mentre il 12% li ritiene drogati oppure ubriachi. Di certo, in gran parte, erano familiari: mariti, fratelli, parenti prossimi o addirittura padri. Gli estranei sono una minoranza esigua dal punto di vista statistico. Eppure, nell’immaginario collettivo, sono proprio loro quelli che fanno più paura.
Cina
ricevuto da P.Cancellieri
Mdm/Rs/Adnkronos 26-APR-04 - 13:19
GENERAL MOTORS: LE VENDITE IN CINA SALGONO DEL 70% NEL PRIMO TRIMESTRE
Roma, 26 apr. - (Adnkronos/Marketwatch) - Il colosso statunitense General Motors, primo produttore di auto al mondo, ha annunciato di aver messo a segno un rialzo di quasi il 70% (69,9%) per le vendite di veicoli in Cina. Come si legge in un comunicato stampa pubblicato sul sito web www.gmchina.com, il gruppo ha venduto 122.097 veicoli nei primi tre mesi del 2004 attraverso le numerose joint venture nel paese. L'ottimo risultato dovrebbe aiutare il colosso di Detroit a strappare fette di mercato ai rivali, specialmente alla tedesca Volkswagen, che attualmente domina il mercato cinese con una quota del 33% a fine 2003.
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il manifesto 27.4.04
Viaggio nella Zona economica speciale, cuore del boom economico cinese
La furia domata di Shenzhen
Un modello seguito da tutta la Cina, ormai. Ma Shenzhen resta un luogo straordinario, una frontiera interna dove i tre quarti degli abitanti sono «in transito» e i lavoratori sono tutti giovanissimi, spremuti fino all'osso dalle mille aziende attirate dagli sconti fiscali e poi ributtati nella Cina «vera»
di ANGELA PASCUCCI
SHENZHEN Il suono di un Big Ben si alza a fatica sopra il rumore del traffico, congestionato sin dal primo mattino. Una Tour Eiffel illuminata di rosso, a grandezza quasi naturale, si staglia nella notte insieme a un David di Michelangelo. Eccola qua Shenzhen, dove la nuova Cina all'ennesima potenza si offre con un frullato di immaginario globale che vuol essere accattivante e invece lascia inquieti. Come il «Cafe di Napoli»: dipinti che fanno il verso al Rinascimento italiano, palle e stelle da addobbo di Natale che pendono dal soffitto, musica tirolese, menù dal gazpacho alla pizza margherita, all'apple pie; caffè «come a casa tua» (in italiano). Quale casa? In questa énclave del sud della Cina, scelta a metà degli anni `80 come prima Zona economica speciale e prima sperimentazione di denghismo puro, nessuno dei suoi ormai molti milioni di abitanti (tra i 5 e i 7 a seconda delle statistiche) può dirsi a casa. Perché questa è una città abitata al 95% da immigrati, giunti da ogni parte della Cina: fino a 25 anni fa era solo un piccolo centro di 30mila anime, contadini e pescatori, affacciato sul confine con Hong Kong. Il già allora vecchio Deng puntò qui il dito e decise un esperimento di ingegneria economica e sociale inaudito. L'inizio fu stentato, e nell'89 arrivò Tien Anmen, che parve segnare una battuta d'arresto: invece non fermò niente. Anzi, proprio da quel massacro si capì la determinazione dei leader che lo avevano ordinato ad andare fino in fondo nella strada intrapresa: riforme economiche radicali e apertura alla globalizzazione nascente. Così tutto ripartì di slancio, nel 1992, e il nuovo colpo d'avvio Deng Xiaoping lo sparò proprio da qui, avviando un golden rush da nuova frontiera. Perché questo è Shenzhen, un non-luogo di frontiera, selvaggio East senza storia né identità che proprio per questo coltiva il suo mito di nuova civiltà, «terra dei sogni del futuro».
Provate a parlare con chi ci vive, e ne fa parte integrante, beninteso. Come i cittadini a pieno titolo, poco meno di 1,4 milioni di persone che ottengono la residenza permanente per meriti professionali e politici speciali, per intercessione della compagnia da cui dipendono (che, se paga abbastanza tasse, matura il diritto ad un «pacchetto» di residenze) o perché, se sono dipendenti pubblici, superano un esame che comprende fra l'altro teoria marxista-leninista e materialismo dialettico. E' un drappello di eletti, che accede ai servizi pubblici, sanità, scuola, pagandoli meno dei comuni mortali, detentori solo di un permesso di soggiorno da rinnovare ogni anno. Quanto alla popolazione definita «di passaggio» - un fiume di braccia e menti a prezzi stracciati che arriva e se ne va - ammonta in media a quasi quattro milioni di anime. Ma se si contano i clandestini, numerosi dopo l'allentamento dei controlli alle frontiere che separano Shenzhen dal resto della Cina, si va ben oltre i 5 milioni ufficiali.
La funzionaria del governo municipale di Shenzhen, che accetta di incontrare la giornalista straniera a patto di non farlo nel suo ufficio e restare anonima, anche se non dirà nulla di compromettente, fa parte del primo drappello e si vede. Lavora in un dipartimento cruciale, quello che si occupa di attirare gli investimenti. Quarantenne, stretta nella giacca rosso fiamma che accentua la sua vivacità, racconta la vita di una pioniera che, grazie a buone entrature, è approdata qui fresca di laurea vent'anni fa dal lontano Shaanxi. Il Cafè di Napoli fa da sfondo appropriato al racconto soddisfatto di una vita che, condotta in un luogo concepito per dimostrare all'intera Cina che il nuovo corso era possibile e auspicabile, doveva essa stessa essere un modello. Nessuna nostalgia della provincia natia, dove sarebbe impossibile tornare dopo aver vissuto in una città così straordinaria. La signora adora questa metropoli ambiziosa, esagitata, che vuole battere ogni record, anche se ha una sovranità molto limitata. Ma, si intuisce, già non è più come una volta.
Intanto, non è più così straordinaria. Shenzhen doveva essere il primo sasso gettato nel fiume per attraversarlo, secondo la metafora di Deng, ma ormai tutta la Cina è un unico, enorme ponte di pietre ben più grandi, come la megagalattica Shanghai, che non ha i limiti territoriali di Shenzhen e gode di più favori a Pechino. Così il municipio si arrovella per escogitare nuovi incentivi. Strumento primo restano le tasse, il cui livello, tra esenzioni totali per i primi due anni e tassi ridotti nei successivi, attrae ancora molto, come si evince dalla lunga lista di multinazionali investitrici - tutte quelle che contano tra le 500 di Fortune, soprattutto giapponesi e americane, con scarsa ma qualificata presenza europea. Adesso la parola d'ordine è incoraggiare l'alta tecnologia: elettronica, comunicazione, chips, biotech.
L'obiettivo primario del nuovo piano decennale è attrarre dall'interno e dall'estero 300mila cervelli, tecnici altamente specializzati. Di fatto, arriveranno anche altre ondate di migranti, a calmierare i prezzi della manodopera di base. Per gli operai, la municipalità ha fissato un salario minimo di 600 yuan al mese (poco più di 60 dollari), comunque più alto della media cinese. Perché sono i migliori che si vogliono attirare: «diligente, avventuroso, di mentalità aperta, adattabile a nuovi modi e concetti», è l'identikit del cittadino modello di Shenzhen. La nuova frontiera è già tracciata. La funzionaria, anche per obbligo d'ufficio, sprizza ottimismo. E comunque ha in serbo anche altri orizzonti: suo figlio, 17 anni, sta finendo gli studi superiori in Australia (le scuole australiane vengono in Cina a reclutare nuovi allievi). Ma il sogno del ragazzo, dice, sono gli Stati uniti.
Sono vent'anni che Shenzhen cresce a rotta di collo. Ancora nel `92 c'era un'unica grande strada, la Shennan Lu, costeggiata dai primi grattacieli oltre i quali c'erano solo strade sterrate che finivano in campagna. Oggi intorno a questo cardine originario si è estesa a tempo di record una metropoli immensa che non smette di crescere, anche se presto non avrà più suolo per farlo, visto che dispone di poco più di 2.000 kmq (metà del Molise). L'ombra del limite grava su questa frenesia, aggrappata al sogno di un'eterna transizione, come d'altra parte è oggi tutta la Cina, che nasconde dietro questa parola chiave tutte le storture della sua eccezionale metamorfosi. E chi meglio di una popolazione «in transito» può sostenere una transizione? Anche in questo Shenzhen è un caso unico al mondo. L'età media della sua popolazione è inferiore ai 30 anni. Incontrare per strada un anziano è rarissimo. La mezza età è sporadica, apparentemente invisibile: o è rinchiusa nei posti di comando e nei luoghi della ricchezza o sta nel margine oscuro. Come il gruppo di uomini ben oltre la trentina, che l'aria timida e guardinga segnala come clandestini, che a mezzanotte cominciano a caricarsi pesanti ceste piene di malta sulla schiena per portarle dentro un edificio in ristrutturazione. Ma chi riempie i marciapiedi, i negozi, i locali, in un colpo d'occhio irreale, è una folla immensa di poco più che adolescenti, ingoiati ed espulsi con rapidità dalla «fabbrica del mondo» che ha bisogno in continuazione di sangue e mani giovanissime per continuare a pieno ritmo, per essere sempre più competitiva.
La fabbrica qui è ovunque. Al sesto piano di un edificio in un intrico di strade che costeggia una delle grande arterie c'è la Shenzhen Jingyi Electronic Co. Ltd che produce circuiti integrati. Qui 180 operai (80% donne) si avvicendano in due turni. Volti impenetrabili quasi di bambini, diversi l'uno dall'altro perché le provenienze sono diverse, lavorano chini sui banconi, in lunghe file, e montano gli elementi dei circuiti. Giovani mani armate di lunghe pinze incollano rapide e precise componenti minuscole sui wafer che saranno il cuore elettronico di tutti i nuovi oggetti della nostra vita, dai telefonini ai lettori cd. Fa da sfondo sonoro il tonfo delle presse che stampano i circuiti, 24 ore su 24. Il calcolo sul carico di lavoro degli addetti è presto fatto, anche se il proprietario, signor Jin, 48 anni, parla di otto ore al giorno. Decine di tazze da tè, una diversa dall'altra, in fila su un ripiano parlano ancora di vecchia Cina; e per la verità anche i bagni, già fatiscenti anche se l'edificio non è vecchio. Il salario è di 1.000 yuan (100 dollari più o meno): ma comprende l'assicurazione sanitaria, 300 yuan, e un contributo per il dormitorio. Un letto in cui dormire è parte integrante di questo sistema di produzione basato sui migranti, e tutte le fabbriche ne dispongono. Quando si lascia il lavoro, si perde tutto. Licenziare non è difficile; ma c'è anche chi decide di andarsene di propria volontà, visto che il mercato del lavoro è sempre in movimento. In questo quadro di mobilità spinta, la domanda sulle coperture per la gravidanza, vista l'alta percentuale femminile, viene recepita come un non senso. Nessuna operaia arriva alla gravidanza, risponde il proprietario. Sono tutte troppo giovani, e se ne vanno in fretta: il turn over medio è del 10% al mese.
(1-continua)
il manifesto 27.4.04
TORO SCATENATO
Il vero simbolo di Shenzhen non sono i cartelloni e le statue del «fondatore» Deng, innalzati ai crocevia o nei parchi, ma la scultura di un toro in posizione d'attacco collocato davanti all'attuale sede del municipio, peraltro in via di trasloco verso un edificio più grandioso. E forza e furia non sono mancate alla Zona economica speciale, che nei primi vent'anni, in termini di sviluppo economico, è cresciuta al passo del 32% l'anno. Nel 2003, l'aumento del Pil è stato del 17,3% (quando la Cina nel suo complesso ha vagato intorno all'8%). Sempre nel 2003, questa énclave grande quanto metà del Molise si è piazzata al quarto posto tra le città cinesi per Pil realizzato (poco più di 28 miliardi di dollari) e al terzo come percettrice di investimenti esteri (intorno ai 6 miliardi di dollari), ma al primo posto quanto a valore delle merci esportate (circa 62 miliardi di dollari). Tanto che il suo porto per movimentazione è il quarto nel mondo. Il Pil medio pro capite è di 5.558 dollari. Ma il capolinea pare avvicinarsi. Il suolo utile per lo sviluppo si sta esaurendo: restano poco più di 200 kmq in periferia, e 30 in centro. Con la crescita a dismisura, aumentano i problemi sociali, molto legati alla spropositata percentuale della popolazione fluttuante, circa 4 milioni di persone, più molti «illegali». Lo scorso anno i crimini sono aumentati del 57%, i rapimenti del 75%. I tassisti guidano chiusi dentro gabbie di ferro, le finestre delle abitazioni sono chiuse da sbarre, dal primo all'ultimo piano. La corruzione è endemica anche se ufficialmente negata. Ha fatto scalpore questo mese la proposta di dare ai funzionari pubblici «onesti» una liquidazione da due milioni di yuan (oltre 200mila dollari) come premio a una carriera pulita . Essere «speciali» costa caro.
il manifesto 27.4.04
TERRATERRA
Sviluppo insostenibile sul Mekong
di MARINA FORTI
Sembra un compendio dello «sviluppo in-sostenibile». L'elenco comincia con decine di grandi dighe, continua con il progetto di far saltare una serie di rapide con la dinamite per rendere navigabile il fiume, finisce con la scomparsa delle foreste... Il fiume in questione è il Mekong, che nel suo corso tra l'altopiano del Tibet e il Mar Cinese meridionale tocca sei paesi e forma un bacino abitato da 250 milioni di persone. E il «compendio» del suo degrado è nell'Atlante dell'ambiente della sub-regione del grande Mekong, appena pubblicato dal Programma per l'ambiente delle Nazioni unite (Unep) insieme alla Banca asiatica di sviluppo (gli organismi internazionali vanno pazzi per definizioni come «sub-regione»: nel caso del Mekong è in voga dalla metà degli anni `90, quando Banca Mondiale e Banca Asiatica di Sviluppo hanno cominciato a lanciare grandi progetti di infrastrutture e di sviluppo tra i paesi rivieraschi). Il Greater Mekong Subregion Atlas of Environment raccoglie per la prima volta informazioni sulle risorse naturali e lo stato dell'ambiente lungo tutto il fiume, e in questo senso è un primo esperimento di cooperazione regionale. Dice che il degrado ambientale è il problema più pressante a cui debbano confrontarsi i paesi rivieraschi. L'elenco dunque comincia dalle dighe: ce ne sono decine in cantiere, sul Mekong stesso e sui suoi affluenti. La prima a buttarsi sui grandi progetti idroelettrici è stata la Cina, fin dai primi anni `80, nella più grande discrezione. Nello Yunnan il Mekong scorre tra grandi gole con dislivelli notevoli, si presta bene: così la prima diga è stata ultimata nel `96, la seconda nel 2003, la terza è in cantiere e altre cinque sono in fase di progettazione - le autorità cinesi la chiamano «cascata di dighe». Tutto questo ha provocato apprensione a valle, perché così la Cina potrà controllare in larga misura la portata d'acqua del fiume. Del resto anche il Laos ha costruito le sue dighe su due importanti affluenti, che contribuiscono per circa un terzo dell'acqua che scorre verso la Cambogia e il delta.
Soprattutto, l'Atlante guarda le proiezioni demografiche nella regione, e si allarma. Nel 2015 si attende che la popolazione del Mekong sarà salita a 290 milioni, e questo basta di per sé ad aumentare la pressione sulle risorse naturali. Oggi la maggioranza della popolazione nel bacino del Mekong è rurale (il 70% nella parte bassa, dal Laos e Thailandia a Cambogia e Vietnam), e l'agricoltura è praticata sul 21 percento della terra. Con l'aumento della popolazione e (si spera) del livello di benessere di paesi poverissimi come il Laos e la Cambogia, è ovvio che aumenterà la domanda di cibo. La Thailandia, il paese più sviluppato della regione, potrebbe raddoppiare la sua domanda di materie prime nei prossimi 25 anni. Allo stesso tempo è da attendersi una forte emigrazione verso i centri urbani. I fenomeni di inquinamento urbano e industriale, per ora localizzati, potrebbero diventare gravi.
Non solo: la necessità di produrre più cibo spingerà a prosciugare molte zone umide e acquitrinose attorno al fiume per coltivarle, e a colonizzare le foreste per guadagnare altra terra da arare. Aumenteranno problemi già visibili, dall'erosione di pendici montagnose denudate alla salinizzazione. Il bacino del Mekong, in particolare dal Laos a valle, vive di un ciclo stagionale unico: il fiume si gonfia nella stagione delle piogge e straripa, allagando le pianure su cui lascerà un buonissimo limo. Nonostante l'alluvione il fiume si gonfia a tal punto, la corrente è così impetuosa, che l'acqua comincia a risalire lungo alcuni affluenti: è il caso del Tonle Sap, che inverte la sua corrente e risale fino al lago omonimo. Poi le acque si ritirano, il Tonle Sap si svuota, la corrente torna a scorrere verso valle. I pesci che avevano risalito la corrente appena nati tornano a valle cresciuti: è la stagione migliore per la pesca. E il pesce è la principale se non unica fonte di proteine nella regione, soprattutto per la popolazione rurale - e l'industria peschiera interna, poco contabilizata, è la base della sopravvivenza dell'Indocina intera. Tutto questo è minacciato.
Mdm/Rs/Adnkronos 26-APR-04 - 13:19
GENERAL MOTORS: LE VENDITE IN CINA SALGONO DEL 70% NEL PRIMO TRIMESTRE
Roma, 26 apr. - (Adnkronos/Marketwatch) - Il colosso statunitense General Motors, primo produttore di auto al mondo, ha annunciato di aver messo a segno un rialzo di quasi il 70% (69,9%) per le vendite di veicoli in Cina. Come si legge in un comunicato stampa pubblicato sul sito web www.gmchina.com, il gruppo ha venduto 122.097 veicoli nei primi tre mesi del 2004 attraverso le numerose joint venture nel paese. L'ottimo risultato dovrebbe aiutare il colosso di Detroit a strappare fette di mercato ai rivali, specialmente alla tedesca Volkswagen, che attualmente domina il mercato cinese con una quota del 33% a fine 2003.
il manifesto 27.4.04
Viaggio nella Zona economica speciale, cuore del boom economico cinese
La furia domata di Shenzhen
Un modello seguito da tutta la Cina, ormai. Ma Shenzhen resta un luogo straordinario, una frontiera interna dove i tre quarti degli abitanti sono «in transito» e i lavoratori sono tutti giovanissimi, spremuti fino all'osso dalle mille aziende attirate dagli sconti fiscali e poi ributtati nella Cina «vera»
di ANGELA PASCUCCI
SHENZHEN Il suono di un Big Ben si alza a fatica sopra il rumore del traffico, congestionato sin dal primo mattino. Una Tour Eiffel illuminata di rosso, a grandezza quasi naturale, si staglia nella notte insieme a un David di Michelangelo. Eccola qua Shenzhen, dove la nuova Cina all'ennesima potenza si offre con un frullato di immaginario globale che vuol essere accattivante e invece lascia inquieti. Come il «Cafe di Napoli»: dipinti che fanno il verso al Rinascimento italiano, palle e stelle da addobbo di Natale che pendono dal soffitto, musica tirolese, menù dal gazpacho alla pizza margherita, all'apple pie; caffè «come a casa tua» (in italiano). Quale casa? In questa énclave del sud della Cina, scelta a metà degli anni `80 come prima Zona economica speciale e prima sperimentazione di denghismo puro, nessuno dei suoi ormai molti milioni di abitanti (tra i 5 e i 7 a seconda delle statistiche) può dirsi a casa. Perché questa è una città abitata al 95% da immigrati, giunti da ogni parte della Cina: fino a 25 anni fa era solo un piccolo centro di 30mila anime, contadini e pescatori, affacciato sul confine con Hong Kong. Il già allora vecchio Deng puntò qui il dito e decise un esperimento di ingegneria economica e sociale inaudito. L'inizio fu stentato, e nell'89 arrivò Tien Anmen, che parve segnare una battuta d'arresto: invece non fermò niente. Anzi, proprio da quel massacro si capì la determinazione dei leader che lo avevano ordinato ad andare fino in fondo nella strada intrapresa: riforme economiche radicali e apertura alla globalizzazione nascente. Così tutto ripartì di slancio, nel 1992, e il nuovo colpo d'avvio Deng Xiaoping lo sparò proprio da qui, avviando un golden rush da nuova frontiera. Perché questo è Shenzhen, un non-luogo di frontiera, selvaggio East senza storia né identità che proprio per questo coltiva il suo mito di nuova civiltà, «terra dei sogni del futuro».
Provate a parlare con chi ci vive, e ne fa parte integrante, beninteso. Come i cittadini a pieno titolo, poco meno di 1,4 milioni di persone che ottengono la residenza permanente per meriti professionali e politici speciali, per intercessione della compagnia da cui dipendono (che, se paga abbastanza tasse, matura il diritto ad un «pacchetto» di residenze) o perché, se sono dipendenti pubblici, superano un esame che comprende fra l'altro teoria marxista-leninista e materialismo dialettico. E' un drappello di eletti, che accede ai servizi pubblici, sanità, scuola, pagandoli meno dei comuni mortali, detentori solo di un permesso di soggiorno da rinnovare ogni anno. Quanto alla popolazione definita «di passaggio» - un fiume di braccia e menti a prezzi stracciati che arriva e se ne va - ammonta in media a quasi quattro milioni di anime. Ma se si contano i clandestini, numerosi dopo l'allentamento dei controlli alle frontiere che separano Shenzhen dal resto della Cina, si va ben oltre i 5 milioni ufficiali.
La funzionaria del governo municipale di Shenzhen, che accetta di incontrare la giornalista straniera a patto di non farlo nel suo ufficio e restare anonima, anche se non dirà nulla di compromettente, fa parte del primo drappello e si vede. Lavora in un dipartimento cruciale, quello che si occupa di attirare gli investimenti. Quarantenne, stretta nella giacca rosso fiamma che accentua la sua vivacità, racconta la vita di una pioniera che, grazie a buone entrature, è approdata qui fresca di laurea vent'anni fa dal lontano Shaanxi. Il Cafè di Napoli fa da sfondo appropriato al racconto soddisfatto di una vita che, condotta in un luogo concepito per dimostrare all'intera Cina che il nuovo corso era possibile e auspicabile, doveva essa stessa essere un modello. Nessuna nostalgia della provincia natia, dove sarebbe impossibile tornare dopo aver vissuto in una città così straordinaria. La signora adora questa metropoli ambiziosa, esagitata, che vuole battere ogni record, anche se ha una sovranità molto limitata. Ma, si intuisce, già non è più come una volta.
Intanto, non è più così straordinaria. Shenzhen doveva essere il primo sasso gettato nel fiume per attraversarlo, secondo la metafora di Deng, ma ormai tutta la Cina è un unico, enorme ponte di pietre ben più grandi, come la megagalattica Shanghai, che non ha i limiti territoriali di Shenzhen e gode di più favori a Pechino. Così il municipio si arrovella per escogitare nuovi incentivi. Strumento primo restano le tasse, il cui livello, tra esenzioni totali per i primi due anni e tassi ridotti nei successivi, attrae ancora molto, come si evince dalla lunga lista di multinazionali investitrici - tutte quelle che contano tra le 500 di Fortune, soprattutto giapponesi e americane, con scarsa ma qualificata presenza europea. Adesso la parola d'ordine è incoraggiare l'alta tecnologia: elettronica, comunicazione, chips, biotech.
L'obiettivo primario del nuovo piano decennale è attrarre dall'interno e dall'estero 300mila cervelli, tecnici altamente specializzati. Di fatto, arriveranno anche altre ondate di migranti, a calmierare i prezzi della manodopera di base. Per gli operai, la municipalità ha fissato un salario minimo di 600 yuan al mese (poco più di 60 dollari), comunque più alto della media cinese. Perché sono i migliori che si vogliono attirare: «diligente, avventuroso, di mentalità aperta, adattabile a nuovi modi e concetti», è l'identikit del cittadino modello di Shenzhen. La nuova frontiera è già tracciata. La funzionaria, anche per obbligo d'ufficio, sprizza ottimismo. E comunque ha in serbo anche altri orizzonti: suo figlio, 17 anni, sta finendo gli studi superiori in Australia (le scuole australiane vengono in Cina a reclutare nuovi allievi). Ma il sogno del ragazzo, dice, sono gli Stati uniti.
Sono vent'anni che Shenzhen cresce a rotta di collo. Ancora nel `92 c'era un'unica grande strada, la Shennan Lu, costeggiata dai primi grattacieli oltre i quali c'erano solo strade sterrate che finivano in campagna. Oggi intorno a questo cardine originario si è estesa a tempo di record una metropoli immensa che non smette di crescere, anche se presto non avrà più suolo per farlo, visto che dispone di poco più di 2.000 kmq (metà del Molise). L'ombra del limite grava su questa frenesia, aggrappata al sogno di un'eterna transizione, come d'altra parte è oggi tutta la Cina, che nasconde dietro questa parola chiave tutte le storture della sua eccezionale metamorfosi. E chi meglio di una popolazione «in transito» può sostenere una transizione? Anche in questo Shenzhen è un caso unico al mondo. L'età media della sua popolazione è inferiore ai 30 anni. Incontrare per strada un anziano è rarissimo. La mezza età è sporadica, apparentemente invisibile: o è rinchiusa nei posti di comando e nei luoghi della ricchezza o sta nel margine oscuro. Come il gruppo di uomini ben oltre la trentina, che l'aria timida e guardinga segnala come clandestini, che a mezzanotte cominciano a caricarsi pesanti ceste piene di malta sulla schiena per portarle dentro un edificio in ristrutturazione. Ma chi riempie i marciapiedi, i negozi, i locali, in un colpo d'occhio irreale, è una folla immensa di poco più che adolescenti, ingoiati ed espulsi con rapidità dalla «fabbrica del mondo» che ha bisogno in continuazione di sangue e mani giovanissime per continuare a pieno ritmo, per essere sempre più competitiva.
La fabbrica qui è ovunque. Al sesto piano di un edificio in un intrico di strade che costeggia una delle grande arterie c'è la Shenzhen Jingyi Electronic Co. Ltd che produce circuiti integrati. Qui 180 operai (80% donne) si avvicendano in due turni. Volti impenetrabili quasi di bambini, diversi l'uno dall'altro perché le provenienze sono diverse, lavorano chini sui banconi, in lunghe file, e montano gli elementi dei circuiti. Giovani mani armate di lunghe pinze incollano rapide e precise componenti minuscole sui wafer che saranno il cuore elettronico di tutti i nuovi oggetti della nostra vita, dai telefonini ai lettori cd. Fa da sfondo sonoro il tonfo delle presse che stampano i circuiti, 24 ore su 24. Il calcolo sul carico di lavoro degli addetti è presto fatto, anche se il proprietario, signor Jin, 48 anni, parla di otto ore al giorno. Decine di tazze da tè, una diversa dall'altra, in fila su un ripiano parlano ancora di vecchia Cina; e per la verità anche i bagni, già fatiscenti anche se l'edificio non è vecchio. Il salario è di 1.000 yuan (100 dollari più o meno): ma comprende l'assicurazione sanitaria, 300 yuan, e un contributo per il dormitorio. Un letto in cui dormire è parte integrante di questo sistema di produzione basato sui migranti, e tutte le fabbriche ne dispongono. Quando si lascia il lavoro, si perde tutto. Licenziare non è difficile; ma c'è anche chi decide di andarsene di propria volontà, visto che il mercato del lavoro è sempre in movimento. In questo quadro di mobilità spinta, la domanda sulle coperture per la gravidanza, vista l'alta percentuale femminile, viene recepita come un non senso. Nessuna operaia arriva alla gravidanza, risponde il proprietario. Sono tutte troppo giovani, e se ne vanno in fretta: il turn over medio è del 10% al mese.
(1-continua)
il manifesto 27.4.04
TORO SCATENATO
Il vero simbolo di Shenzhen non sono i cartelloni e le statue del «fondatore» Deng, innalzati ai crocevia o nei parchi, ma la scultura di un toro in posizione d'attacco collocato davanti all'attuale sede del municipio, peraltro in via di trasloco verso un edificio più grandioso. E forza e furia non sono mancate alla Zona economica speciale, che nei primi vent'anni, in termini di sviluppo economico, è cresciuta al passo del 32% l'anno. Nel 2003, l'aumento del Pil è stato del 17,3% (quando la Cina nel suo complesso ha vagato intorno all'8%). Sempre nel 2003, questa énclave grande quanto metà del Molise si è piazzata al quarto posto tra le città cinesi per Pil realizzato (poco più di 28 miliardi di dollari) e al terzo come percettrice di investimenti esteri (intorno ai 6 miliardi di dollari), ma al primo posto quanto a valore delle merci esportate (circa 62 miliardi di dollari). Tanto che il suo porto per movimentazione è il quarto nel mondo. Il Pil medio pro capite è di 5.558 dollari. Ma il capolinea pare avvicinarsi. Il suolo utile per lo sviluppo si sta esaurendo: restano poco più di 200 kmq in periferia, e 30 in centro. Con la crescita a dismisura, aumentano i problemi sociali, molto legati alla spropositata percentuale della popolazione fluttuante, circa 4 milioni di persone, più molti «illegali». Lo scorso anno i crimini sono aumentati del 57%, i rapimenti del 75%. I tassisti guidano chiusi dentro gabbie di ferro, le finestre delle abitazioni sono chiuse da sbarre, dal primo all'ultimo piano. La corruzione è endemica anche se ufficialmente negata. Ha fatto scalpore questo mese la proposta di dare ai funzionari pubblici «onesti» una liquidazione da due milioni di yuan (oltre 200mila dollari) come premio a una carriera pulita . Essere «speciali» costa caro.
il manifesto 27.4.04
TERRATERRA
Sviluppo insostenibile sul Mekong
di MARINA FORTI
Sembra un compendio dello «sviluppo in-sostenibile». L'elenco comincia con decine di grandi dighe, continua con il progetto di far saltare una serie di rapide con la dinamite per rendere navigabile il fiume, finisce con la scomparsa delle foreste... Il fiume in questione è il Mekong, che nel suo corso tra l'altopiano del Tibet e il Mar Cinese meridionale tocca sei paesi e forma un bacino abitato da 250 milioni di persone. E il «compendio» del suo degrado è nell'Atlante dell'ambiente della sub-regione del grande Mekong, appena pubblicato dal Programma per l'ambiente delle Nazioni unite (Unep) insieme alla Banca asiatica di sviluppo (gli organismi internazionali vanno pazzi per definizioni come «sub-regione»: nel caso del Mekong è in voga dalla metà degli anni `90, quando Banca Mondiale e Banca Asiatica di Sviluppo hanno cominciato a lanciare grandi progetti di infrastrutture e di sviluppo tra i paesi rivieraschi). Il Greater Mekong Subregion Atlas of Environment raccoglie per la prima volta informazioni sulle risorse naturali e lo stato dell'ambiente lungo tutto il fiume, e in questo senso è un primo esperimento di cooperazione regionale. Dice che il degrado ambientale è il problema più pressante a cui debbano confrontarsi i paesi rivieraschi. L'elenco dunque comincia dalle dighe: ce ne sono decine in cantiere, sul Mekong stesso e sui suoi affluenti. La prima a buttarsi sui grandi progetti idroelettrici è stata la Cina, fin dai primi anni `80, nella più grande discrezione. Nello Yunnan il Mekong scorre tra grandi gole con dislivelli notevoli, si presta bene: così la prima diga è stata ultimata nel `96, la seconda nel 2003, la terza è in cantiere e altre cinque sono in fase di progettazione - le autorità cinesi la chiamano «cascata di dighe». Tutto questo ha provocato apprensione a valle, perché così la Cina potrà controllare in larga misura la portata d'acqua del fiume. Del resto anche il Laos ha costruito le sue dighe su due importanti affluenti, che contribuiscono per circa un terzo dell'acqua che scorre verso la Cambogia e il delta.
Soprattutto, l'Atlante guarda le proiezioni demografiche nella regione, e si allarma. Nel 2015 si attende che la popolazione del Mekong sarà salita a 290 milioni, e questo basta di per sé ad aumentare la pressione sulle risorse naturali. Oggi la maggioranza della popolazione nel bacino del Mekong è rurale (il 70% nella parte bassa, dal Laos e Thailandia a Cambogia e Vietnam), e l'agricoltura è praticata sul 21 percento della terra. Con l'aumento della popolazione e (si spera) del livello di benessere di paesi poverissimi come il Laos e la Cambogia, è ovvio che aumenterà la domanda di cibo. La Thailandia, il paese più sviluppato della regione, potrebbe raddoppiare la sua domanda di materie prime nei prossimi 25 anni. Allo stesso tempo è da attendersi una forte emigrazione verso i centri urbani. I fenomeni di inquinamento urbano e industriale, per ora localizzati, potrebbero diventare gravi.
Non solo: la necessità di produrre più cibo spingerà a prosciugare molte zone umide e acquitrinose attorno al fiume per coltivarle, e a colonizzare le foreste per guadagnare altra terra da arare. Aumenteranno problemi già visibili, dall'erosione di pendici montagnose denudate alla salinizzazione. Il bacino del Mekong, in particolare dal Laos a valle, vive di un ciclo stagionale unico: il fiume si gonfia nella stagione delle piogge e straripa, allagando le pianure su cui lascerà un buonissimo limo. Nonostante l'alluvione il fiume si gonfia a tal punto, la corrente è così impetuosa, che l'acqua comincia a risalire lungo alcuni affluenti: è il caso del Tonle Sap, che inverte la sua corrente e risale fino al lago omonimo. Poi le acque si ritirano, il Tonle Sap si svuota, la corrente torna a scorrere verso valle. I pesci che avevano risalito la corrente appena nati tornano a valle cresciuti: è la stagione migliore per la pesca. E il pesce è la principale se non unica fonte di proteine nella regione, soprattutto per la popolazione rurale - e l'industria peschiera interna, poco contabilizata, è la base della sopravvivenza dell'Indocina intera. Tutto questo è minacciato.
antidepressivi e rischio cardiovascolare
ricevuto da P.Cancellieri
Yahoo! Salute 26.4.04
Antidepressivi e rischio cardiovascolare
da Il Pensiero Scientifico Editore
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Pharmacology and Therapy alti dosaggi (superiori a 100mg/dì) dei vecchi farmaci antidepressivi (i cosiddetti triciclici) sarebbero associati a mortalità cardiaca improvvisa. Tale rischio non esisterebbe, invece per gli inibitori del reuptake della serotonina (SSRI), la nuova classe di antidepressivi attualmente disponibili.
La depressione è una condizione patologica, a cui va incontro nel corso della sua esistenza tra il 5 e il 15 per cento degli esseri umani. Essa può insorgere anche del tutto spontaneamente (cioè, può non essere preceduta da alcun evento spiacevole). In altri casi, un evento scatenante c’è, ma la reazione della persona appare sproporzionata, per intensità e/o durata, rispetto all’evento. Il quadro clinico non comprende soltanto la tristezza, ma anche diversi altri aspetti.
Il funzionamento sociale e lavorativo è compromesso in maniera più o meno significativa. Le distrazioni e i viaggi non hanno alcun effetto sullo stato d’animo della persona oppure hanno un effetto molto limitato. Un adeguato trattamento farmacologico e/o psicoterapeutico è in grado invece, nella grande maggioranza dei casi, di migliorare in maniera molto significativa o di risolvere la situazione.
I ricercatori della Vanderbilt University di Nashville (USA), coordinati da Wayne Ray, hanno esaminato il database del Tennesse Medicaid, in cui erano contenuti i dati relativi ai ricoveri occorsi nel periodo compreso fra il 1988 e il 1993. L’obiettivo era quello di indagare la relazione tra uso di antidepressivi e rischio di morte cardiaca improvvisa. Durante il periodo in esame sono state registrate 1487 morti improvvise. I ricercatori hanno osservato che il rischio di mortalità improvvisa aumentava all’aumentare del dosaggio dei farmaci. In particolare per chi assumeva i triciclici tale rischio non aumentava per dosaggi inferiori ai 100 mg giornalieri, mentre raddoppiava per dosi superiori ai 300 mg/dì. "Questi risultati", commentano i ricercatori, "dovrebbero indurre gli specialisti ad adottare cautela nel prescrivere dosaggi particolarmente alti di questi farmaci in pazienti al di sopra dei 65 anni d’età o con preesistenti malattie cardiovascolari".
Bibliografia. Ray WA, Meredith S, Thapa PB et al. Cyclic antidepressants and the risk of sudden cardiac death. Clin Pharmacol Ther 2004;75:234-41.
Yahoo! Salute 26.4.04
Antidepressivi e rischio cardiovascolare
da Il Pensiero Scientifico Editore
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Pharmacology and Therapy alti dosaggi (superiori a 100mg/dì) dei vecchi farmaci antidepressivi (i cosiddetti triciclici) sarebbero associati a mortalità cardiaca improvvisa. Tale rischio non esisterebbe, invece per gli inibitori del reuptake della serotonina (SSRI), la nuova classe di antidepressivi attualmente disponibili.
La depressione è una condizione patologica, a cui va incontro nel corso della sua esistenza tra il 5 e il 15 per cento degli esseri umani. Essa può insorgere anche del tutto spontaneamente (cioè, può non essere preceduta da alcun evento spiacevole). In altri casi, un evento scatenante c’è, ma la reazione della persona appare sproporzionata, per intensità e/o durata, rispetto all’evento. Il quadro clinico non comprende soltanto la tristezza, ma anche diversi altri aspetti.
Il funzionamento sociale e lavorativo è compromesso in maniera più o meno significativa. Le distrazioni e i viaggi non hanno alcun effetto sullo stato d’animo della persona oppure hanno un effetto molto limitato. Un adeguato trattamento farmacologico e/o psicoterapeutico è in grado invece, nella grande maggioranza dei casi, di migliorare in maniera molto significativa o di risolvere la situazione.
I ricercatori della Vanderbilt University di Nashville (USA), coordinati da Wayne Ray, hanno esaminato il database del Tennesse Medicaid, in cui erano contenuti i dati relativi ai ricoveri occorsi nel periodo compreso fra il 1988 e il 1993. L’obiettivo era quello di indagare la relazione tra uso di antidepressivi e rischio di morte cardiaca improvvisa. Durante il periodo in esame sono state registrate 1487 morti improvvise. I ricercatori hanno osservato che il rischio di mortalità improvvisa aumentava all’aumentare del dosaggio dei farmaci. In particolare per chi assumeva i triciclici tale rischio non aumentava per dosaggi inferiori ai 100 mg giornalieri, mentre raddoppiava per dosi superiori ai 300 mg/dì. "Questi risultati", commentano i ricercatori, "dovrebbero indurre gli specialisti ad adottare cautela nel prescrivere dosaggi particolarmente alti di questi farmaci in pazienti al di sopra dei 65 anni d’età o con preesistenti malattie cardiovascolari".
Bibliografia. Ray WA, Meredith S, Thapa PB et al. Cyclic antidepressants and the risk of sudden cardiac death. Clin Pharmacol Ther 2004;75:234-41.
Paul Auster
una segnalazione di Paolo Izzo
Corriere dela Sera 26.4.04
Auster, se l'irrazionale irrompe nel quotidiano
Il caso è uno dei temi ricorrenti nella sua narrativa Come in «Oracle Night», ispirato al «Falcone Maltese»
ANTICIPAZIONI. Il nuovo romanzo dell'autore di «Trilogia di New York» uscirà in Italia a giugno
di Fernanda Pivano
Quanto tempo è passato, non ricordo neanche più quanto, da quella mattina che Paul Auster è venuto a cercarmi in albergo a New York, e io sono rimasta commossa dalla sua bellezza, con la sua giovinezza silenziosa e insieme esplosiva, con gli occhi verdi, così verdi che sembravano finti, e lui sommesso, quasi timido, che mi parlava di un suo libro che non era ancora uscito, illuminato di speranze inferiori perfino al successo che quel libro ha accolto, come avrebbe accolto tutti gli altri usciti da allora, e sono undici e ormai nessuno ha più problemi a definirli: ormai tutti parlano del suo espressionismo astratto e peggio per chi non capisce che cos'è. Paul Auster continua ad avere i suoi occhi verdi, anche se in una recensione hanno scritto chissà perché che i suoi occhi sono neri, continua a essere l' eroe di Brooklyn, continua a incantare milioni di lettori in tutto il mondo raccontando le sue storie a volte difficili da comprendere con la logica ma sempre facilissime a impegnare emozioni tremanti e paure segrete. La celebrità prorompente gli è venuta col cinema, quando ha fatto la sceneggiatura e ha diretto con il regista cinese Wayne Wang il film Smoke, creando vera sensazione tra lettori e spettatori con un improvviso atteggiamento di apertura alla comprensione; e forse creando una sensazione a se stesso, con quel racconto che sfiorava l' illusione della chiarezza nel costruire una Brooklyn come lui l' ha sognata tutta la vita ma in modo da farla sognare a chiunque la vedesse lì sullo schermo, senza possibili trucchi. Nella leggenda di Smoke ha fatto altri due film, ma poi, chi lo sa, forse il ricordo dello zio Allen Mandelbaum e della sua traduzione della Divina Commedia e del baule di libri che ha affidato in Francia a Paul ragazzo (che però li ha letti), chi lo sa cos'è stato a riportarlo al suo tavolo dove passa tutte le sue giornate a scrivere, cancellare, buttare via fogli strappati, scrivere da capo per cancellare ogni traccia di chiarezza logica; ma qualunque cosa sia stata, eccoci qua tutti attenti alle sue pagine di un libro nuovo che in Italia Einaudi farà uscire il 1° giugno, sbalorditi dal fatto che il libro sia ispirato da uno scrittore tutt' altro che espressionista e tutt'altro che astratto qual è stato Dashiell Hammett, che tra una prigione antifascista e l'altra ha occupato anime e memorie con le sue favole assurde e bellissime. Dashiell Hammett è presente in questo libro con una storia assurda e bellissima, vagamente ispirata al suo Falcone Maltese e al suo protagonista Flitcroft, che ha occupato la mente di Paul Auster dal 1990 quando il regista tedesco Wim Wenders gli ha telefonato all' improvviso e gli ha offerto di collaborare a un film che usava la versione di Hammett come punto di partenza. L'offerta del film è caduta nel nulla, ma per dieci anni Paul Auster ha costruito una biografia sul personaggio di Hammett e gli ha dato un altro nome. Così è nato Sidney Orr, narratore della storia nel romanzo Oracle Night; Sidney Orr che il 18 settembre 1982 alle dieci del mattino ha lasciato l'appartamento dove viveva con la moglie a Brooklyn e ha camminato, camminato, camminato. In quel cambiamento delle sue abitudini il protagonista Orr avvia una serie di avvenimenti che cominciano con l' acquisto di un taccuino azzurro in una cartoleria e finiscono 200 pagine dopo in un terribile atto di violenza che trasforma la sua vita e il suo modo di vedere il mondo. Questa trasformazione Orr la racconta venti anni dopo che è accaduta, mentre è ancora immerso nella frattura della sua vita. E' tipico della scrittura di Paul Auster che il narratore di una storia narri insieme a quella storia anche la storia propria, e qui è su questa storia propria che è basato il personaggio ispirato a Dashiell Hammett. Questa idea della narrazione sopra la narrazione, i lettori di Auster certamente lo ricordano, è tipica della narrativa dell' autore e ci siamo abituati a ritrovarla fin dai suoi primissimi romanzi: sottolinea il metodo stilistico di Auster nella sua serie di romanzi apparentemente realistici ma che sono in realtà racconti irreali. In questo romanzo uno dei personaggi si chiama John Trause, che è un anagramma del nome di Auster, e ha la stessa età di Auster; e mentre ne parla, Paul Auster dice che in realtà né John Trause né Sidney Orr gli somigliano, eppure messi insieme, dice Auster, rappresentano «qualche cosa di me anche se non so precisare che cos' è quel qualche cosa. La maggior parte di quello che faccio è inconscio, non so da dove mi vengono le idee, non so spiegare il lavoro che faccio, ma lo posso difendere, posso soltanto difenderlo. Al di là di questo non so niente». Le sue tendenze postmoderne sono chiare. Auster non perde occasione per insistere che la vita degli individui è governata da interventi casuali del destino, dal caso e dalla coincidenza oltre che dall' educazione del personaggio. «Cerco di rappresentare nei miei racconti il mondo che conosco - dice Paul Auster -, la realtà nella quale ho vissuto e che è così piena di sorprese, del tutto imprevedibile». Ha scritto anche un racconto dove ha cercato di scoprire «se la vita di altre persone era strana come la sua»: tutto questo spiega anche la definizione della sua scrittura come metanarrativa, cioè di uno stile che racconta una storia raccontando insieme il racconto di quella storia. Ma quello che forse bisognerebbe ricordare è la possibile influenza nella sua narrativa di episodi autobiografici. Per esempio nel 1998 il figlio Daniele che ha avuto dalla prima moglie, la poetessa Lydia Davis, è stato condannato a vent'anni di prigione per aver rubato 3.000 dollari da uno spacciatore di droga morto, e si era detto che era stato presente all' uccisione dello spacciatore. Un fatto abbastanza strano è che il terzo romanzo dell'attuale moglie di Paul Auster, Siri Hustved, racconta la storia di una coppia di artisti con un figliastro che rimane inguaiato con l'assassino di un tale: e anche in questo Oracle Night (La notte dell'Oracolo) l'omologo di Auster, John Trause, ha un figlio strano, Jacob, che si presenta nel romanzo come un angelo vendicatore ma è ricoverato in una clinica per nascondersi da spacciatori di droga ai quali deve 5.000 dollari e finisce assassinato. Sicché si può anche leggere l'opera di Paul Auster scoprendovi dei riflessi della sua vita; ma tra gli avvenimenti violenti delle storie ci si deve sempre basare su proposte di sopportazione, di sopravvivenza, di resistenza. Paul Auster, quando parla della madre morta qualche mese prima di questo romanzo, dice: «Ci volevamo molto bene ed è morta all'improvviso, e per qualche tempo mi ha angosciato. Il dolore è qualcosa alla quale nessuno vuole rivolgersi, e occorrono anni, anni, per superare una grande perdita». La vita di Paul Auster non è stata priva di dolori. Il padre ha abbandonato la famiglia ma la sua assenza era stata accettata anche prima della sua morte avvenuta di recente e Paul Auster lo ricorda con tenerezza pensando a gesti gentili che ha fatto per aiutare la povera gente e che lo scrittore ha scoperto quasi per caso. Ma soprattutto lo ha impressionato la scoperta di una sua scatola con ritagli di giornale, che riferiscono l' assassinio del nonno eseguito dalla nonna il 23 gennaio 1919. «Giusto sessant'anni prima che morisse mio padre», dice Paul Auster. Paul Auster fa notare che in quella generazione simili avvenimenti non venivano raccontati, tutti li tenevano chiusi dentro di sé; ed è contro questo senso di totale anonimità che Auster si rivolge quando scrive: ormai è chiaro che scrive all' ombra di dolori e sofferenze e contro la sua stessa mortalità, ricostruendo la vita di personaggi danneggiati dalla sfortuna, da errori, da tragedie incalzanti, al punto che, gli pare, è impossibile ricostruire vite vere che sono state lacerate da circostanze simili. E ora, acclamato scrittore di metanarrativa, di espressionismo astratto, di dolori in realtà inesprimibili, pensa che l'unica ragione per vivere è di vivere la sua vita soltanto come scrittore.
BIOGRAFIA L'autore e il libro Paul Auster è nato nel 1947 a Newark, in New Jersey. Dopo la laurea alla Columbia, dal 1970 trascorre quattro anni in Francia. Al ritorno esordisce, usando lo pseudonimo Paul Benjamin (il suo secondo nome), con la detective story Squeeze Play, ma è la Trilogia di New York ('87) a dargli la celebrità. Gli ultimi suoi testi tradotti in Italia sono Il libro delle illusioni e Leviatano (Einaudi).
Oracle Night edito dalla Henry Holt di New York uscirà il 1° giugno 2004 da Einaudi col titolo: La notte dell' oracolo, tradotto da Massimo Bocchiola (pagine 208, euro 16,50).
Corriere dela Sera 26.4.04
Auster, se l'irrazionale irrompe nel quotidiano
Il caso è uno dei temi ricorrenti nella sua narrativa Come in «Oracle Night», ispirato al «Falcone Maltese»
ANTICIPAZIONI. Il nuovo romanzo dell'autore di «Trilogia di New York» uscirà in Italia a giugno
di Fernanda Pivano
Quanto tempo è passato, non ricordo neanche più quanto, da quella mattina che Paul Auster è venuto a cercarmi in albergo a New York, e io sono rimasta commossa dalla sua bellezza, con la sua giovinezza silenziosa e insieme esplosiva, con gli occhi verdi, così verdi che sembravano finti, e lui sommesso, quasi timido, che mi parlava di un suo libro che non era ancora uscito, illuminato di speranze inferiori perfino al successo che quel libro ha accolto, come avrebbe accolto tutti gli altri usciti da allora, e sono undici e ormai nessuno ha più problemi a definirli: ormai tutti parlano del suo espressionismo astratto e peggio per chi non capisce che cos'è. Paul Auster continua ad avere i suoi occhi verdi, anche se in una recensione hanno scritto chissà perché che i suoi occhi sono neri, continua a essere l' eroe di Brooklyn, continua a incantare milioni di lettori in tutto il mondo raccontando le sue storie a volte difficili da comprendere con la logica ma sempre facilissime a impegnare emozioni tremanti e paure segrete. La celebrità prorompente gli è venuta col cinema, quando ha fatto la sceneggiatura e ha diretto con il regista cinese Wayne Wang il film Smoke, creando vera sensazione tra lettori e spettatori con un improvviso atteggiamento di apertura alla comprensione; e forse creando una sensazione a se stesso, con quel racconto che sfiorava l' illusione della chiarezza nel costruire una Brooklyn come lui l' ha sognata tutta la vita ma in modo da farla sognare a chiunque la vedesse lì sullo schermo, senza possibili trucchi. Nella leggenda di Smoke ha fatto altri due film, ma poi, chi lo sa, forse il ricordo dello zio Allen Mandelbaum e della sua traduzione della Divina Commedia e del baule di libri che ha affidato in Francia a Paul ragazzo (che però li ha letti), chi lo sa cos'è stato a riportarlo al suo tavolo dove passa tutte le sue giornate a scrivere, cancellare, buttare via fogli strappati, scrivere da capo per cancellare ogni traccia di chiarezza logica; ma qualunque cosa sia stata, eccoci qua tutti attenti alle sue pagine di un libro nuovo che in Italia Einaudi farà uscire il 1° giugno, sbalorditi dal fatto che il libro sia ispirato da uno scrittore tutt' altro che espressionista e tutt'altro che astratto qual è stato Dashiell Hammett, che tra una prigione antifascista e l'altra ha occupato anime e memorie con le sue favole assurde e bellissime. Dashiell Hammett è presente in questo libro con una storia assurda e bellissima, vagamente ispirata al suo Falcone Maltese e al suo protagonista Flitcroft, che ha occupato la mente di Paul Auster dal 1990 quando il regista tedesco Wim Wenders gli ha telefonato all' improvviso e gli ha offerto di collaborare a un film che usava la versione di Hammett come punto di partenza. L'offerta del film è caduta nel nulla, ma per dieci anni Paul Auster ha costruito una biografia sul personaggio di Hammett e gli ha dato un altro nome. Così è nato Sidney Orr, narratore della storia nel romanzo Oracle Night; Sidney Orr che il 18 settembre 1982 alle dieci del mattino ha lasciato l'appartamento dove viveva con la moglie a Brooklyn e ha camminato, camminato, camminato. In quel cambiamento delle sue abitudini il protagonista Orr avvia una serie di avvenimenti che cominciano con l' acquisto di un taccuino azzurro in una cartoleria e finiscono 200 pagine dopo in un terribile atto di violenza che trasforma la sua vita e il suo modo di vedere il mondo. Questa trasformazione Orr la racconta venti anni dopo che è accaduta, mentre è ancora immerso nella frattura della sua vita. E' tipico della scrittura di Paul Auster che il narratore di una storia narri insieme a quella storia anche la storia propria, e qui è su questa storia propria che è basato il personaggio ispirato a Dashiell Hammett. Questa idea della narrazione sopra la narrazione, i lettori di Auster certamente lo ricordano, è tipica della narrativa dell' autore e ci siamo abituati a ritrovarla fin dai suoi primissimi romanzi: sottolinea il metodo stilistico di Auster nella sua serie di romanzi apparentemente realistici ma che sono in realtà racconti irreali. In questo romanzo uno dei personaggi si chiama John Trause, che è un anagramma del nome di Auster, e ha la stessa età di Auster; e mentre ne parla, Paul Auster dice che in realtà né John Trause né Sidney Orr gli somigliano, eppure messi insieme, dice Auster, rappresentano «qualche cosa di me anche se non so precisare che cos' è quel qualche cosa. La maggior parte di quello che faccio è inconscio, non so da dove mi vengono le idee, non so spiegare il lavoro che faccio, ma lo posso difendere, posso soltanto difenderlo. Al di là di questo non so niente». Le sue tendenze postmoderne sono chiare. Auster non perde occasione per insistere che la vita degli individui è governata da interventi casuali del destino, dal caso e dalla coincidenza oltre che dall' educazione del personaggio. «Cerco di rappresentare nei miei racconti il mondo che conosco - dice Paul Auster -, la realtà nella quale ho vissuto e che è così piena di sorprese, del tutto imprevedibile». Ha scritto anche un racconto dove ha cercato di scoprire «se la vita di altre persone era strana come la sua»: tutto questo spiega anche la definizione della sua scrittura come metanarrativa, cioè di uno stile che racconta una storia raccontando insieme il racconto di quella storia. Ma quello che forse bisognerebbe ricordare è la possibile influenza nella sua narrativa di episodi autobiografici. Per esempio nel 1998 il figlio Daniele che ha avuto dalla prima moglie, la poetessa Lydia Davis, è stato condannato a vent'anni di prigione per aver rubato 3.000 dollari da uno spacciatore di droga morto, e si era detto che era stato presente all' uccisione dello spacciatore. Un fatto abbastanza strano è che il terzo romanzo dell'attuale moglie di Paul Auster, Siri Hustved, racconta la storia di una coppia di artisti con un figliastro che rimane inguaiato con l'assassino di un tale: e anche in questo Oracle Night (La notte dell'Oracolo) l'omologo di Auster, John Trause, ha un figlio strano, Jacob, che si presenta nel romanzo come un angelo vendicatore ma è ricoverato in una clinica per nascondersi da spacciatori di droga ai quali deve 5.000 dollari e finisce assassinato. Sicché si può anche leggere l'opera di Paul Auster scoprendovi dei riflessi della sua vita; ma tra gli avvenimenti violenti delle storie ci si deve sempre basare su proposte di sopportazione, di sopravvivenza, di resistenza. Paul Auster, quando parla della madre morta qualche mese prima di questo romanzo, dice: «Ci volevamo molto bene ed è morta all'improvviso, e per qualche tempo mi ha angosciato. Il dolore è qualcosa alla quale nessuno vuole rivolgersi, e occorrono anni, anni, per superare una grande perdita». La vita di Paul Auster non è stata priva di dolori. Il padre ha abbandonato la famiglia ma la sua assenza era stata accettata anche prima della sua morte avvenuta di recente e Paul Auster lo ricorda con tenerezza pensando a gesti gentili che ha fatto per aiutare la povera gente e che lo scrittore ha scoperto quasi per caso. Ma soprattutto lo ha impressionato la scoperta di una sua scatola con ritagli di giornale, che riferiscono l' assassinio del nonno eseguito dalla nonna il 23 gennaio 1919. «Giusto sessant'anni prima che morisse mio padre», dice Paul Auster. Paul Auster fa notare che in quella generazione simili avvenimenti non venivano raccontati, tutti li tenevano chiusi dentro di sé; ed è contro questo senso di totale anonimità che Auster si rivolge quando scrive: ormai è chiaro che scrive all' ombra di dolori e sofferenze e contro la sua stessa mortalità, ricostruendo la vita di personaggi danneggiati dalla sfortuna, da errori, da tragedie incalzanti, al punto che, gli pare, è impossibile ricostruire vite vere che sono state lacerate da circostanze simili. E ora, acclamato scrittore di metanarrativa, di espressionismo astratto, di dolori in realtà inesprimibili, pensa che l'unica ragione per vivere è di vivere la sua vita soltanto come scrittore.
BIOGRAFIA L'autore e il libro Paul Auster è nato nel 1947 a Newark, in New Jersey. Dopo la laurea alla Columbia, dal 1970 trascorre quattro anni in Francia. Al ritorno esordisce, usando lo pseudonimo Paul Benjamin (il suo secondo nome), con la detective story Squeeze Play, ma è la Trilogia di New York ('87) a dargli la celebrità. Gli ultimi suoi testi tradotti in Italia sono Il libro delle illusioni e Leviatano (Einaudi).
Oracle Night edito dalla Henry Holt di New York uscirà il 1° giugno 2004 da Einaudi col titolo: La notte dell' oracolo, tradotto da Massimo Bocchiola (pagine 208, euro 16,50).
Hans Magnus Enzensberger
secondo Alberto Oliverio
Il Messaggero Martedì 27 Aprile 2004
Saggi/ Le riflessioni liriche e in prosa dello scrittore, che guarda alla ricerca come uno dei multiformi aspetti dell’umanesimo
Enzensberger, quanta poesia nella scienza
di ALBERTO OLIVERIO
«LA POESIA della scienza non è palese. Scaturisce da strati più profondi. E’ una questione aperta se la letteratura sia in grado di praticarla alla stessa altezza. Alla fin fine, al mondo può essere indifferente dove si manifesti la forza d'immaginazione della specie, purché continui a restare viva». Così afferma Hans Magnus Enzensberger nel suo ultimo libro, Gli elisir della scienza pubblicato in italiano da Einaudi (245 pagine, 21 euro), che si conclude con l’affermazione che «la poesia è all’opera là dove nessuno l’immagina».
Lo scrittore tedesco ha sempre manifestato un forte interesse per il mondo della scienza e delle tecnologie come testimoniano opere come Mausoleum (che reca il sottotitolo Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso , 1979), il visionario La fine del Titanic (1990) o quel fortunatissimo divertimento, solo in apparenza dedicato esclusivamente ai bambini, che è Il mago dei numeri (1997), opera che ha conosciuto una grandissima popolarità grazie alla leggerezza e alla dimensione fantastica con cui tratta un tema apparentemente “arido”, quello appunto dei numeri. Gli elisir della scienza , che ha il sottotitolo indicativo Sguardi trasversali in poesia e prosa , è una raccolta di poesie e interventi in prosa assemblati in modo molto personale: come quando enuclea alcuni brani della testimonianza di Ugo Cerletti, che nel 1938 sperimentò per la prima volta gli effetti dell’elettroshock su un povero paziente di cui vengono raccolte le stupefatte, terrorizzate parole. Ma accanto a questo brano drammatico, centrato sulla disumanità e violenza di quell’intervento psichiatrico la cui giustificazione scientifica «manca purtroppo tuttora» ne figurano altri di grande lirismo, come la cronaca della visita al Cern di Ginevra, la gigantesca struttura dove si studia la fisica delle particelle, i cui «ambienti sotterranei evocano la navata centrale di una cattedrale, anche se erano riti e misteri di tutt’altra natura quelli di cui si occupano i suoi sommi sacerdoti». In questa e in altre grandi imprese della fisica Enzensberger individua una dimensione quasi spirituale, alla pari del grande scrittore svizzero-tedesco Friedrich Dürrenmatt che si chiese se «il Cern non potesse alla fine rivelarsi un istituto di ricerche metafisiche, anzi teologiche».
Per l’autore de Gli elisir della scienza l’impresa scientifica si presenta come il viaggio di Ulisse, l’affannosa ricerca di una dimensione che trascenda l’immediatezza, il tentativo di elevarsi sulla banale quotidianità: «Leggere i segni nelle ossa, nelle stelle, nei cocci,/ per il benessere della comunità, leggere nelle budella/ ciò che è stato e ciò che ci attende/ o Scienza! Che tu sia benedetta,/ benedetto il tuo piccolo lumino,/ un po’ bluff un po’ statistica...» . Ma la scienza, per Enzensberger, deve avere una dimensione aperta, essere caratterizzata dalla provvisorietà, non dalla “arroganza” del definitivo, perché altrimenti prevaricherebbe i valori umani, perderebbe la sua valenza utopica.
Il tema dell’utopia scientifica e della sottile linea di demarcazione che può separare una scienza carica di valori positivi da una in grado di minacciare i valori umani viene sollevato in un capitolo dal titolo indicativo (“Golpisti in laboratorio”) in cui Enzensberger manifesta i suoi dubbi e timori nei confronti delle nuove tecnologie della riproduzione e dell’ingegneria genetica. Non solo teme che il desiderio di utopia possa congiungersi con il desiderio di onnipotenza di scienziati sempre più sciamani e sempre meno razionali, ma anche che la scienza, da strumento illuministico di emancipazione e liberazione dai poteri tradizionali, si trasformi in una fondamentale rotella dell’ingranaggio di controllo e del sistema di potere sopranazionale, malgrado i fautori della “nuova scienza” si appellino a intenti umanitari di cui, «da Campanella a Stalin, ogni progetto utopistico si è sempre vantato». Tra le utopie (negative) citate da Enzensberger non figura quella nazista ma è evidente che lo spettro dell’eugenica hitleriana allunga la sua ombra su molti dei timori che egli manifesta nei confronti delle biotecnologie e della nuova genetica: eppure, malgrado egli consideri queste innovazioni non elisir ma veleni, il suo cuore condivide gli ideali delle grandi imprese scientifiche, uno dei multiformi aspetti dell’umanesimo.
Saggi/ Le riflessioni liriche e in prosa dello scrittore, che guarda alla ricerca come uno dei multiformi aspetti dell’umanesimo
Enzensberger, quanta poesia nella scienza
di ALBERTO OLIVERIO
«LA POESIA della scienza non è palese. Scaturisce da strati più profondi. E’ una questione aperta se la letteratura sia in grado di praticarla alla stessa altezza. Alla fin fine, al mondo può essere indifferente dove si manifesti la forza d'immaginazione della specie, purché continui a restare viva». Così afferma Hans Magnus Enzensberger nel suo ultimo libro, Gli elisir della scienza pubblicato in italiano da Einaudi (245 pagine, 21 euro), che si conclude con l’affermazione che «la poesia è all’opera là dove nessuno l’immagina».
Lo scrittore tedesco ha sempre manifestato un forte interesse per il mondo della scienza e delle tecnologie come testimoniano opere come Mausoleum (che reca il sottotitolo Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso , 1979), il visionario La fine del Titanic (1990) o quel fortunatissimo divertimento, solo in apparenza dedicato esclusivamente ai bambini, che è Il mago dei numeri (1997), opera che ha conosciuto una grandissima popolarità grazie alla leggerezza e alla dimensione fantastica con cui tratta un tema apparentemente “arido”, quello appunto dei numeri. Gli elisir della scienza , che ha il sottotitolo indicativo Sguardi trasversali in poesia e prosa , è una raccolta di poesie e interventi in prosa assemblati in modo molto personale: come quando enuclea alcuni brani della testimonianza di Ugo Cerletti, che nel 1938 sperimentò per la prima volta gli effetti dell’elettroshock su un povero paziente di cui vengono raccolte le stupefatte, terrorizzate parole. Ma accanto a questo brano drammatico, centrato sulla disumanità e violenza di quell’intervento psichiatrico la cui giustificazione scientifica «manca purtroppo tuttora» ne figurano altri di grande lirismo, come la cronaca della visita al Cern di Ginevra, la gigantesca struttura dove si studia la fisica delle particelle, i cui «ambienti sotterranei evocano la navata centrale di una cattedrale, anche se erano riti e misteri di tutt’altra natura quelli di cui si occupano i suoi sommi sacerdoti». In questa e in altre grandi imprese della fisica Enzensberger individua una dimensione quasi spirituale, alla pari del grande scrittore svizzero-tedesco Friedrich Dürrenmatt che si chiese se «il Cern non potesse alla fine rivelarsi un istituto di ricerche metafisiche, anzi teologiche».
Per l’autore de Gli elisir della scienza l’impresa scientifica si presenta come il viaggio di Ulisse, l’affannosa ricerca di una dimensione che trascenda l’immediatezza, il tentativo di elevarsi sulla banale quotidianità: «Leggere i segni nelle ossa, nelle stelle, nei cocci,/ per il benessere della comunità, leggere nelle budella/ ciò che è stato e ciò che ci attende/ o Scienza! Che tu sia benedetta,/ benedetto il tuo piccolo lumino,/ un po’ bluff un po’ statistica...» . Ma la scienza, per Enzensberger, deve avere una dimensione aperta, essere caratterizzata dalla provvisorietà, non dalla “arroganza” del definitivo, perché altrimenti prevaricherebbe i valori umani, perderebbe la sua valenza utopica.
Il tema dell’utopia scientifica e della sottile linea di demarcazione che può separare una scienza carica di valori positivi da una in grado di minacciare i valori umani viene sollevato in un capitolo dal titolo indicativo (“Golpisti in laboratorio”) in cui Enzensberger manifesta i suoi dubbi e timori nei confronti delle nuove tecnologie della riproduzione e dell’ingegneria genetica. Non solo teme che il desiderio di utopia possa congiungersi con il desiderio di onnipotenza di scienziati sempre più sciamani e sempre meno razionali, ma anche che la scienza, da strumento illuministico di emancipazione e liberazione dai poteri tradizionali, si trasformi in una fondamentale rotella dell’ingranaggio di controllo e del sistema di potere sopranazionale, malgrado i fautori della “nuova scienza” si appellino a intenti umanitari di cui, «da Campanella a Stalin, ogni progetto utopistico si è sempre vantato». Tra le utopie (negative) citate da Enzensberger non figura quella nazista ma è evidente che lo spettro dell’eugenica hitleriana allunga la sua ombra su molti dei timori che egli manifesta nei confronti delle biotecnologie e della nuova genetica: eppure, malgrado egli consideri queste innovazioni non elisir ma veleni, il suo cuore condivide gli ideali delle grandi imprese scientifiche, uno dei multiformi aspetti dell’umanesimo.
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