venerdì 17 settembre 2004

Cina

Repubblica 17.9.04
I "giovani" contro Jiang Zemin l'ultima sfida della nuova Cina
Battaglia al Plenum del Pc, in piazza i poveri delle province
L'ex presidente ed ex leader del partito mantiene ancora il controllo dell´esercito
La figlia di Deng Xiaoping: "Questa gerontocrazia è un simbolo feudale"
Finché il "grande vecchio" mantiene la sua influenza, il premier Hu Jintao ha un potere dimezzato e le sue riforme politiche ristagnano
A differenza dell'89 non è più l'élite urbana a manifestare, ma la gente delle periferie, flagellata dalla disoccupazione e dalla corruzione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI

PECHINO - «Da anni viaggiamo liberamente in Occidente. Navighiamo su Internet come voi. Un terzo dei miei studenti hanno una tale preparazione da conquistarsi delle scholarship americane, borse di studio per un master o un dottorato negli Stati Uniti. Eppure se vogliamo sapere che cosa stanno discutendo in queste ore i nostri governanti dobbiamo andare a cercare voci e indiscrezioni sui siti online dei mass media stranieri. È umiliante». Si capisce lo sfogo del professor Liu Xi, economista dell´università di Shanghai. La Cina ha ormai 150 milioni di consumatori dal reddito medio-alto. Ha il record mondiale del numero di telefonini. Manda 21 milioni di turisti all´estero ogni anno. Le sue città sono selve di grattacieli e di shopping mall che potrebbero essere a Londra e Los Angeles, Sidney e Vancouver. Per il primo Gran Prix di Formula Uno a Shanghai vanno a ruba biglietti sul mercato nero a 500 euro. Eppure da ieri Pechino mette in scena il rito arcaico di una politica che sembra lontana da una società moderna e cosmopolita. I luoghi-simbolo del potere come Piazza Tiananmen sono blindati dalla polizia. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nelle ultime settimane per impedire che turbassero questa liturgia che si chiama Quarto Plenum del XVI Comitato centrale del Partito comunista: il vertice a porte chiuse che da ieri a domenica riunisce 198 alti gerarchi dentro l´hotel Jinxi nella zona occidentale della capitale.
Dietro i cordoni di polizia e le tende spesse dell´albergo, questo Plenum è uno scontro di potere di fronte al quale neppure la generazione-Internet può restare indifferente. Nonostante la mancanza di trasparenza del partito, qualche voce meno conformista ha rivelato quel che sta accadendo. Sono state le due figlie di Deng Xiaoping, il leader comunista morto nel 1997 che avviò la rivoluzione capitalistica cinese, ad aver rotto il silenzio. Con due interviste insolitamente esplicite, le signore Rong e Lin hanno invitato il grande vecchio Jiang Zemin a farsi da parte, seguendo la lezione di Deng che denunciò il sistema del potere a vita come una delle piaghe del paese. «Questa gerontocrazia è un simbolo feudale», dice la Deng Rong. Il problema dunque è lui: Jiang Zemin, già pupillo prediletto di Deng che appoggiò la sterzata autoritaria contro le manifestazioni studentesche di Piazza Tiananmen nel 1989.
Settantottenne, leader del partito fino al novembre 2002 e presidente della repubblica fino al marzo 2003, Jiang ha ceduto queste due cariche a Hu Jintao, 61 anni, ex ingegnere idroelettrico che rappresenta la nuova generazione di tecnocrati meno implicati nel massacro dell´89. Ma Jiang si è tenuto un terzo ruolo: la presidenza della commissione militare che gli dà il controllo sull´esercito, una voce decisiva in politica estera, un ruolo "da falco" su dossier scottanti come Hong Kong e Taiwan. Mentre resiste contro chi lo sospinge verso l´uscita, Jiang manovra per tramandare l´influenza sui militari al suo favorito Zeng Qinghong. Finché Jiang e i suoi controllano l´esercito, Hu ha un potere dimezzato e le sue riforme politiche ristagnano.
Di quali riforme ci sia bisogno, lo sanno quei 30.000 cinesi che nelle ultime due settimane sono accorsi a Pechino per usare il Plenum come il palcoscenico delle loro lamentele. Sono stati arrestati, malmenati dalla polizia coi manganelli elettrici, radunati in uno stadio e rispediti col foglio di via nelle loro provincie. È una triste scena che si ripete ad ogni vertice di partito. Nonostante l´obiettivo proclamato da anni di costruire uno Stato di diritto, con regole certe e una giustizia equa, i tribunali sono incapaci di difendere i cittadini dai soprusi dei capipartito locali o dalle ruberie dei nuovi capitalisti (due figure che a volte coincidono). Lavoratori immigrati derubati del salario, contadini espropriati della terra senza compensazione, inquilini defraudati: una volta esauriti i ricorsi, l´ultima speranza è venire a Pechino a invocare giustizia come ai tempi dell´Imperatore. «Mi hanno demolito la casa, volevo parlare ai leader», ha detto il 48enne Zhang Zhenxin, uno dei pochi ad essere arrivato fino alle vicinanze dell´hotel Jingxi prima di essere catturato e portato in commissariato. A differenza che nell´89 per ora non è l´élite urbana che protesta, non è scontenta la generazione-Internet, tra gli arrestati non ci sono gli studenti di Liu Xi con le scholarship per andare in America: a loro il partito ha riservato i maggiori benefici della crescita, e fin qui il contratto sociale li soddisfa. Il nuovo malcontento viene dalla periferia, dalla "seconda Cina" dove la disoccupazione spinge decine di milioni a emigrare ogni anno verso le ricche metropoli costiere; la Cina delle "ayi" (donne delle pulizie) contadine che vendono i propri servizi alle donne del ceto medio urbano: schiave a tempo pieno per cinquanta euro al mese. E il primo motivo delle lamentele è proprio il partito: si stima che la corruzione pesi per il 20% del Pil cinese all´anno.
I vertici sono costretti a riconoscere la gravità del problema corruzione. Ha detto ieri con pudore l´agenzia stampa ufficiale Xinhua: «Per la prima volta un Plenum del Comitato centrale mette in cima alla sua agenda la capacità di governo del partito». Ye Duchu, autorevole teorico della Scuola centrale di partito che forma la nomenklatura, osa essere più chiaro: «Il primo punto è l´auto-purificazione del partito. Il secondo è la costruzione del sistema giudiziario. Il terzo è mettere in pratica politiche di governo nell´interesse dei cittadini». Ma le grandi campagne lanciate periodicamente contro la corruzione sono condannate a dare risultati deludenti finché resiste il dogma del partito unico: senza ricambio, senza alternanza, senza elezioni democratiche, l´impunità dei capi conosce rare eccezioni. Finora il presidente Hu Jintao non dà segno di voler discutere quel dogma. Anzi. Proprio alla vigilia del Plenum, in un discorso televisivo che è stato interpretato anche come un segnale di debolezza nei confronti di Jiang Zemin, Hu ha escluso ogni evoluzione futura verso il pluralismo: «La storia indica che copiare indiscriminatamente i sistemi politici occidentali è un vicolo cieco per la Cina».
Sembrano lontani i giorni del 1989 in cui - sotto la pressione del movimento studentesco e degli eventi dell´Europa dell´Est - Zhao Ziyang diceva che «la democrazia è una tendenza universale» e lo stesso Deng ammetteva che «un giorno anche la Cina avrà delle elezioni a suffragio universale». Deng poi fece la scelta opposta, puntò su un modello autoritario per la transizione accelerata all´economia di mercato. Il dibattito sulla democrazia non è più così appariscente ma questo non vuol dire che sia morto. La recente vicenda di Hong Kong, dove la Cina ha "giocato" alle elezioni semi-democratiche, sia pure in un laboratorio su scala ridotta, può suscitare riflessioni nuove.
Intanto i pensatori liberal si accontenterebbero di tappe graduali. Le dimissioni di Jiang sono una di queste. «Deng Xiaoping - dice il noto intellettuale di Shanghai Zhu Xue Qin - nominò ben due generazioni di successori. Fu lui a designare sia Jiang Zemin, sia Hu Jintao. In questo modo Jiang fu deprivato di un diritto autocratico tipico di ogni leader comunista, quello di scegliere lui il proprio successore. Deng cercò di indicare la strada di successioni ordinate, nel rispetto di alcune regole del gioco, per evitare che ogni ricambio generazione fosse accompagnato da paralisi, poi da faide laceranti con effetti drammatici. Questo è il momento della prova».