venerdì 17 settembre 2004

Festivalfilosofia e Festivaletteratura
intervista al prof. Giorello

L'Eco di Bergamo 16.9.04
I miti, a volte ritornano. Con la loro verità
Giorello: sono egualmente fondamentali per comprendere il senso dell'esistenza umana È il momento della filosofia: a Modena i grandi pensatori. E il pubblico fa la fila
Giulio Brotti

Da qualche tempo, la filosofia sembra esercitare un crescente appeal nei confronti del pubblico: mentre si avvicina la IV edizione del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, in programma da domani a domenica, si scopre che a un altro appuntamento, il Festivaletteratura che si è svolto la scorsa settimana a Mantova, gli incontri con filosofi e pensatori in senso lato sono stati tra i più gettonati – con lunghe code, al termine, per la richiesta di autografi e dediche. Ha avuto un grande successo, ad esempio, Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza alla Statale di Milano, che a Mantova ha presentato il suo ultimo libro Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito (Raffaello Cortina Editore, pp. 250, 19,80 euro): «Un volume nato – ci spiega – da tre lezioni che avevo tenuto, nel dicembre del 1998, nella sede veneziana dell'Istituto italiano per gli studi filosofici. Ero stato chiamato nelle vesti di outsider, in quanto filosofo della scienza, per parlare di una cosa che secondo l'opinione comune farebbe a pugni con lo spirito scientifico: il mito, appunto».
La sua idea è, invece, che i grandi miti non si riducano a «favole»?
«Nel corso del tempo, la filosofia ha cercato di liquidare il mito, non solo dichiarandolo insensato, ma anche in modo più sottile: affermando che conterrebbe delle verità “razionali”, ma in una veste ancora inadeguata, una veste che la filosofia avrebbe avuto il compito di perfezionare. Io, invece, sono convinto che il significato di ciò che i greci chiamavano mythos non si riduca a questo, che esso esprima una verità diversa, non filosofica, ma ugualmente fondamentale, sull'esistenza umana».
Nel suo libro, lei sottolinea il debito che molti scrittori moderni, da Shelley a Joyce, hanno contratto nei confronti di alcune grandi figure mitiche.
«Però, non nel senso che queste figure sarebbero a nostra disposizione, come un repertorio cui potremmo liberamente attingere. Mi pare piuttosto che siamo noi ad appartenere a Prometeo, a Ulisse, a Gilgameš, che ritornano nel corso dei secoli, senza però mai ripetersi, e anzi gettando una luce sempre nuova sul significato della condizione umana. Esistono delle profonde analogie fra questi tre personaggi: Prometeo, il gigante che ruba il fuoco a Efesto per donarlo agli uomini (e che Zeus condanna a un supplizio orribile, facendolo legare al Caucaso e inviando un'aquila a divorargli il fegato), è in effetti un dio, particolarmente sapiente, visto che il suo nome significa “capace di pensare le cose prima che accadano”. Ulisse è curioso, indagatore e, stando a un verso del V libro dell'Odissea, avrebbe potuto accedere al dono divino dell'immortalità, se avesse deciso di restare accanto alla ninfa Calipso. Quanto a Gilgameš, ricordo che mia madre, quand'ero bambino, mi narrava le gesta di questo eroe mesopotamico: un personaggio di cui ci viene detto “che vide e conobbe ogni cosa”; per due terzi dio e per un terzo mortale, invincibile in battaglia, ma destinato alla fine a morire, come tutti noi».
Riguardo a Prometeo: nella tragedia greca alla fine viene perdonato da Zeus. Il Prometeo della letteratura moderna, invece, è una specie di di pensatore giacobino, e a riconciliarsi con la divinità non ci pensa proprio...
«Il cambiamento risale al 1820, l'anno in cui il poeta inglese Percy Bysshe Shelley pubblicò il suo Prometheus Unbound , che traduciamo con “Prometeo liberato”, o “scatenato”. Shelley immagina che questo gigante benefattore dell'umanità alla fine abbia la meglio su Giove, simboleggiando la capacità del genere umano di affrancarsi dalla superstizione e dalle tirannidi presenti quaggiù, sulla terra. Con lo “scatenamento” di Prometeo l'uomo – scrive Shelley – “resta libero, senza scettro, non circoscritto - solo umano:\ uguale, senza classi, senza tribù e nazioni,\ esente da timore, culto, grado”».
Non è che la moglie di Shelley, Mary, l'autrice di Frankenstein, fosse un po' meno ottimista del marito sulle sorti future dell'umanità e della scienza?
«Credo che tra Mary Wollstonecraft Godwin, sposata Shelley, e suo marito, esistesse un gioco ironico di rimandi e allusioni, anche sul piano letterario. Frankenstein è un romanzo di una modernità straordinaria, in cui, sulle prime, i panni di Prometeo sembrano indossati da Victor Frankenstein, lo scienziato che sogna di infrangere la barriera della morte, di poter riportare alla vita un cadavere. Ma proseguendo la lettura, scopriamo che il vero titano è proprio lui, the monster , la sua “creatura”, destinata a entrare in conflitto con i pregiudizi del mondo circostante, fino a volersi vendicare di colui che l'ha chiamata alla vita, senza preoccuparsi delle conseguenze».
Con l'ultima parte del suo libro, dedicata a Gilgameš, risaliamo all'epopea forse più antica nella storia dell'umanità.
«Gilgameš è il protagonista di molte saghe dell'antica Mesopotamia: egli fa esperienza della morte quando il suo amico Enkidu muore di consunzione tra le braccia. “Per sei giorni e sette notti ho pianto su di lui – egli afferma –, né ho permesso che fosse seppellito,\ fino a che un verme non è uscito dalle sue narici.\ Io ho avuto paura della morte,\ ho cominciato a tremare e ho vagato nella steppa”. In seguito, Gilgameš apprende che una particolare pianta acquatica potrebbe davvero conferirgli l'immortalità. Egli si immerge sul fondo di un fiume, la recupera, ma poi si ricorda di essere un re: da sovrano onesto, decide di portare questo farmaco prodigioso nella sua città, Uruk, perché gli anziani possano cibarsene e ringiovanire. Intanto, per un attimo, lascia incustodita la pianta: un serpente l'addenta e fugge, lasciando l'eroe solo con la sua disperazione».
Dunque, la conclusione di questo mito è che gli esseri umani debbano accettare l'ineluttabile?
«Però, quando Gilgameš fa ritorno a Uruk, ormai rassegnato al suo destino, i sudditi gli rendono grandissimi onori. Non si direbbe che questo sia il ritorno di un uomo sconfitto su tutta la linea, anzi».
Un'ultima domanda. A prescindere dal loro fascino, non dovremmo provare anche un po' di diffidenza per i miti, dopo l'uso che se ne è fatto da un secolo a questo parte?
«Qualcuno, nel corso del Novecento, ha voluto celebrare il mito della razza, e sappiamo bene che cosa ne è seguito. Io però credo che si tratti, in questo caso e in altri analoghi, di una mitologia spuria, un semplice apparato d'immagini messo al servizio di un'ideologia totalitaria. Così, sottoscrivo l'opinione di Edgar Morin, quando afferma che “un buon mito è il rimedio migliore contro le cattive mitologie”. Un buon mito, che il mio amato Shelley descriveva come “un'ombra proveniente dal futuro”: e cioè, un sogno non regressivo, che non ci porti a rinunciare al presente in nome del passato».

Il nuovo libro su Prometeo

«Coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi [...] su ogni dettaglio, [...] senza uscire dal loro linguaggio di immagini”. La lezione di Calvino esorta a concedere al mito il tempo delle sue figure. So bene che la parola mitica suona diversa dal verbo filosofico. Perciò quest'ultimo ha sempre cercato di liquidarla, consegnandola all'insignificanza oppure garantendone il significato. Nell'uno come nell'altro caso, ha tentato di ridurla a formulazione esemplare, a tipo ideale. Eppure, quella parola non ha mai cessato di trasformare i luoghi che attraversa, di plasmare le maschere che incontra, di dettare i metodi della propria espressione.
Prometeo libera la roccia cui è incatenato, Ulisse viaggia attraverso i suoi nomi, Gilgameš si realizza nello spettacolo delle sue mura. Si tratti di un dio, di un uomo o di un essere in parte dio e in parte uomo, le figure del mito calcano la scena del mondo, diverse e pur sempre identiche nel loro “discorso”. Non si risolvono in un repertorio cui possiamo liberamente attingere. Piuttosto, dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi. La scrittura del mito appare allora esercizio di trasfigurazione, anche di quella materia che a prima vista “mitica” non sembra.
Così, si dichiara prometeica la filosofia della natura da Isaac Newton a Erasmus Darwin – nel doppio scatenamento del Titano offerto da Percy Bysshe e da Mary Wollstonecraft Shelley; si popola di “bloody men” (ma anche “women”) la Dublino di James Joyce, tra chiacchiere, inganni ed eroici furori, mentre un'improbabile Fenice spicca il volo su vetri infranti e muratura crollante; e il monito di Utanapištim, ossia di colui che unico ha avuto in dono l'immortalità, rivela a un Ezra Pound vittima di molte prigioni la forza emancipatrice dei “Cantos”.
I coniugi Shelley (talvolta così congiunti da essere interscambiabili), Joyce e Pound non rappresentano in questo volume gli esiti ultimi di antiche narrazioni; bensì costituiscono, sia pure in forme diverse, l'occasione di un “discorso” di e su Prometeo, Ulisse e Gilgameš. L'autore del “Prometheus Unbound” e l'autrice di “Frankenstein” sapevano bene come il dio complice e vittima di Zeus provenisse da un passato di cui in parte si era perduta memoria e come la loro riscrittura non fosse che l'anello di una catena che già in Eschilo, se non addirittura in Esiodo, aveva smarrito alcuni dei suoi motivi originari – salvo averne acquistati di nuovi nel tracciare il confine non sempre netto tra mortali e immortali, tra giusto e ingiusto, tra natura e artificio.
(tratto da Giulio Giorello, «Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito», per gentile concessione di Raffaello Cortina Editore. Il saggio sarà in libreria dal 20 settembre)

Numeri da Superbowl, ma è Aristotele
G. B.

Prima di tutto, le cifre: 31mila presenze alla prima edizione, quella del 2001, lievitate a quota 51mila e 75mila nelle due successive. Numeri da Superbowl, direbbero negli Stati Uniti. Quanta gente verrà a Modena, allora, tra domani e domenica prossimi, per partecipare alla quarta edizione del Festivalfilosofia, intitolata «Sul mondo»?
Un po' più giovane di un altro festival benemerito – quello della letteratura di Mantova –, la rassegna modenese promette di stupire ancora, richiamando anche quest'anno nelle aule e nelle piazze del capoluogo, di Carpi e di Sassuolo, un pubblico entusiasta, vivace, colto (non necessariamente nell'accezione libresca del termine). Perché, evidentemente, non è essenziale aver mandato a memoria la Metafisica di Aristotele, o conoscere l'opera omnia di Schopenhauer, per potersi appassionare ai dibattiti e alle «lezioni magistrali» proposte dal Festivalfilosofia (realizzato dalla Fondazione Collegio San Carlo, dai tre comuni interessati, dalla Provincia, e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena): lo testimonia il ricordo delle folle eterogenee che partecipavano agli incontri delle scorse edizioni, talvolta sotto un sole a picco, con una buona percentuale di liceali convenuti per scelta propria, una tantum, e non perché coartati dai loro professori.
Il programma dell'edizione 2004, consultabile nel sito internet www.festivalfilosofia.it, comprende più di cento appuntamenti, quasi tutti gratuiti: si potranno ascoltare, tra gli altri, Massimo Cacciari (in una lezione dal titolo «Sistema mondo»), Enrico Berti («L'immagine aristotelica del mondo e la sua fortuna nella storia»), l'antropologo Marc Augé («Il mondo di domani tra solitudine e solidarietà»), lo studioso della globalizzazione Jonathan Friedman («I veri paradossi della globalizzazione»), mentre un regista particolarmente amato (e anche detestato, per la verità) a livello internazionale, il pirotecnico Peter Greenaway, parlerà domenica pomeriggio sul tema «Rappresentare lo spazio. Cinema e architettura».
Come contorno, tutta una serie di incontri letterari, cinematografici, musicali (con un omaggio a Jimi Hendrix nel 34° della morte).