venerdì 17 settembre 2004

mondi tolemaici:
sull'Io e la sua incertezza

Una metafora tra Cartesio e Kafka
Il Giornale di Brescia 16.9.04
L’«IO» DIMEZZATO NELLA CASA DELLA FILOSOFIA
Ilario Bertoletti

Le metafore, in quanto figure retoriche, hanno il potere di veicolare pensieri, idee. In forma indiretta, trasportano orizzonti di senso da un continente del sapere ad un altro. Proprio grazie a questa creatività linguistica le metafore abbondano nei libri di narrativa. Ma esse assumono una particolare rilevanza quando compaiono in un genere letterario quale la filosofia, che si vorrebbe costruita da soli concetti. L’intera storia della filosofia è dominata da metafore - basti il rimando alla metafora della caverna in Platone, alla kantiana «rivoluzione copernicana», all’hegeliano cammino dello Spirito, alla marxiana talpa che scava nella storia, o all’immagine della scala del sapere da abbandonare in Wittgenstein. Quasi che nelle metafore presenti nei testi filosofici si celasse un nodo speculativo che non può essere pienamente espresso dai soli concetti. Soffermiamoci su una metafora che compare nell’opera che inaugura l’età moderna, il Discorso sul metodo di Cartesio. Nella terza parte, dopo aver posto in discussione l’intera tradizione scolastica, Cartesio afferma: «Non è sufficiente prima di cominciare a ricostruire la casa in cui si abita, limitarsi ad abbatterla e a provvedersi di materiali e di architetti, e averne inoltre tracciato con cura il progetto, ma è pure necessario essersene procurata un’altra, in cui si possa alloggiare comodamente per il periodo dei lavori». Una metafora architettonica che permette a Cartesio di avanzare le sue idee di una morale provvisoria, in grado di orientarlo nel tentativo di ricostruzione su nuove basi dell’intero edificio della metafisica. In queste pagine risuonano certamente echi della tradizione stoica, ma importante è il valore rivelativo della metafora: per addentrarsi nelle regioni del dubbio metodico e iperbolico, che giunge a pensare l’ipotesi di un genio maligno in luogo di Dio, è necessario assicurarsi un luogo sicuro per non smarrirsi - un metodo premiato dalla scoperta del carattere indubitabile dell’esistenza del soggetto («io penso, dunque sono») in quanto fondamento ultimo del sapere. Non a caso Hegel amava ricordare che con Cartesio la filosofia ripete il grido di Colombo appena giunto in America: «Terra Terra». Nonostante l’importanza, questa metafora è stata abbandonata nel corso della filosofia: se ne può ritrovare una labile traccia in un epistemologo contemporaneo, Otto Neurath, il quale paragonava il nostro sapere ad una barca in mezzo al mare, i cui pezzi vanno cambiati durante la stessa navigazione - come a rappresentare il carattere ipotetico-congetturale della scienza novecentesca. Ma quel che è sorprendente è il ritorno della metafora cartesiana in Kafka. Infatti, in uno dei suoi frammenti possiamo leggere: «Come uno che ha una casa non sicura e vuol costruirsene accanto una sicura, se possibile con il materiale della vecchia. Però è un brutto affare se, mentre sta costruendo, la sua forza viene meno e ora invece di una casa non sicura ma completa ne ha una semidistrutta e una fatta a metà, quindi nulla. Quel che segue è follia, una specie di danza cosacca fra le due case, durante la quale il cosacco con i tacchi dei suoi stivali raschia e svelle la terra finché sotto di lui si forma la sua fossa». Non è la trascrizione, rovesciata di senso, del passo cartesiano? Quel che là era il progetto di fondazione, qui è il segno di una impotenza. Ogni progetto resta a metà, incompiuto. Al posto della scoperta di una certezza indubitabile, la costruzione inconsapevole della propria fossa. Il riapparire in Kafka di questa metafora, lungi dall’essere un alcunché di casuale, ha una ragione storico-teoretica. Kafka non rappresenta, infatti, chi più d’ogni altro pensatore segna la fine del sogno cartesiano della soggettività come fondamento trasparente a se stesso? Il soggetto in Kafka è dimidiato, scisso in sé, lacerato da aporie. Le peripezie di Josef K. e K. (nel Processo e nel Castello) ne sono la spia. Ma il luogo dove più Kafka si fa interprete di questa stessa metafora è in un breve racconto intitolato Egli. Qui il soggetto non può più definirsi, come in Cartesio, un «io», ma può nominarsi solo alla terza persona: «egli». Estraneo a se stesso, «Egli vive nella diaspora» irretito in contraddizioni, al punto che «il proprio osso frontale gli taglia la strada; egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare». Non è questo il destino del soggetto nel Novecento e che Kafka ha più di ogni altro narrativamente registrato con asciutto disin-canto? Il ritorno in Kafka della metafora cartesiana è forse il segno che in lui trova il compimento la storia moderna della soggettività. Un umano per il quale non risuonano più le parole: «Terra Terra», ma quelle che l’agrimensore K. ode nel suo vano approssimarsi al Castello: «Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla». Al più restano le macerie - frammenti di un paesaggio e di un mondo nei quali si rifrangono i frammenti di ciò che resta dell’identità dell’individuo. Parlano d’altro le più radicali e profonde esperienze dell’arte e della filosofia contemporanea? Come se dovessimo ormai parlare, in senso teoreticamente normativo, di un prima e dopo Kafka, così come nei manuali si parla di un prima e dopo Cartesio.