Gilgamesh nel Paese del Non Ritorno Il destino del dio condannato a morire
di GIULIO GIORELLO
«L’umanità è recisa come canne in un canneto
eppure nessuno vede la faccia della morte»
Ben prima di Pascal i poeti dell’antica Mesopotamia sanno che l’uomo è una «canna che pensa». La citazione è tratta dall’epopea di Gilgamesh, il grande poema dei Sumeri che fu poi anche degli Assiri, dei Babilonesi e degli stessi Ittiti (e di cui una pallida eco arriva alla cultura greca dopo Alessandro Magno) e che continua a vivere nella tradizione orale delle genti del vicino Oriente (si veda la ricostruzione di Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh , Rusconi, 1992; una nuova edizione è annunciata per la fine dell’anno da Mondadori).
Il sovrano di Uruk, sconvolto dalla morte del sodale Enkidu - insieme al quale aveva sconfitto i mostri del Cielo e della Terra - va in cerca del segreto dell’immortalità; ma non riesce a estorcerlo nemmeno all’unico uomo esentato dalla morte, Utanapishtim (prototipo del Noè della Bibbia) che grazie alla sua perizia tecnica era riuscito a salvarsi dal Diluvio, scatenato dagli dèi infastiditi dal «rumore» prodotto dagli umani.
Avuta per consolazione la pianta della perpetua giovinezza, Gilgamesh perde anche questa prima di poterla portare agli Anziani della sua città. Mentre si bagna nel fiume, un serpente gliela sottrae, lasciandogli in cambio «la sua vecchia pelle». Non c’è Fenice che rinasca dalle ceneri, non resurrezione della carne. Nel Paese dei Due Fiumi gli stessi dèi possono morire, ovvero restare sequestrati nel Paese del Non Ritorno, come mostrano le peripezie della splendida e terribile dea Inanna che, spogliata dei suoi amuleti e delle sue vesti, finirà nuda e prigioniera davanti alla divinità che regna sui defunti (riuscirà a scamparla dando una vita in cambio, quella del marito - vedi Giovanni Pettinato, Mitologia sumerica , Utet, 2001).
Così la parola mitica (a rigore quella che tratta degli dèi) e la parola epica (quella per le creature mortali) rivelano un nichilismo radicale:
«I fratelli possono dividersi l’eredità,
vi può essere guerra nel paese,
possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazioni:
il tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume;
il loro sguardo si rivolge al sole,
e subito non c’è più nulla»
Eppure, queste genti lontane che detestano la morte che fa di ogni defunto un «prigioniero», sanno amare impetuosamente la vita: nelle loro passioni, nelle loro guerre, nella loro architettura e nella loro scienza.
Ne fa fede la determinazione di Inanna e di Gilgamesh a non arrendersi mai, perché chi sa davvero vivere è capace anche di fare esperienza di libertà. Del resto, come recita un proverbio babilonese: «Persino un cane è libero nella nostra città».