sabato 11 settembre 2004

Maxime Rodinson:
vivere con gli arabi

Le Monde Diplomatique
Vivere con gli arabi
Maxime Rodinson

Il sociologo e storico orientalista Maxime Rodinson ci ha lasciato il 23 maggio 2004. Autodidatta, è stato un linguista eccezionale (padroneggiava una trentina di lingue e dialetti) e uno scrittore prolifico: gli dobbiamo in particolare Maometto, Islam e capitalismo, Israele e il rifiuto arabo (Einaudi), Il fascino dell'Islam (Dedalo), Gli arabi (Sansoni). Si è battuto soprattutto perché fosse resa giustizia al popolo palestinese. Alla vigilia dello scoppio della guerra del 1967, su Le Monde del 4-5 giugno aveva pubblicato un articolo premonitore, che riportiamo qui di seguito.

Il 9 agosto 1903 il conte Serge de Witte, ministro delle finanze dello zar Nicola II, spiegava benevolmente al giornalista viennese Theodor Herzl, che gli aveva appena dimostrato come l'applicazione della dottrina del sionismo politico (di cui egli stesso era il fondatore) avrebbe dovuto essere sostenuta dall'imperatore ortodosso: «Ero solito dire al povero imperatore Alessandro III: "Se fosse possibile, Maestà, annegare nel mar Nero sei o sette milioni di ebrei, ne sarei pienamente soddisfatto. Ma non è possibile. Allora, dobbiamo lasciarli vivere!"».
Altri sono riusciti a trovare le possibilità tecniche che mancavano agli antisemiti russi. Anche quello, in definitiva, non è servito loro più di tanto. Forse, malgrado tutto, possiamo imparare qualcosa dalla rassegnazione del nobile russo.
Lo stato sionista ha scelto di vivere in Palestina, cioè nel bel mezzo del mondo arabo. Era una scelta pericolosa. Gli avvertimenti non gli sono mancati, soprattutto da parte degli ebrei non sionisti, e non simpatizzanti del sionismo, che per molto tempo sono stati la grande maggioranza. Ma alla fine questo gruppo di ebrei che ha progettato e poi realizzato questo stato, ha tenuto ferma la sua scelta. Scelta che adesso ha avuto tempo di esplicitare tutte le sue conseguenze. Inutile ritornare sulla questione. Ma qualsiasi albero si giudica dai frutti che dà.
La crisi attuale fa emergere un fatto nuovo (fatte le debite riserve sul futuro corso degli eventi). Israele, fino a oggi, nei confronti del mondo arabo parlava un linguaggio chiaro e semplice: «Siamo qui perché siamo i più forti, ci resteremo finché saremo i più forti.
Che vi piaccia o no. E saremo sempre i più forti grazie ai nostri amici del mondo industrializzato. Spetta a voi trarne le conclusioni, prendere atto della vostra sconfitta e della vostra debolezza, accettarci così come siamo sul territorio che vi abbiamo preso». Come rispondere a un discorso del genere, se non con la rassegnazione o con la sfida?
La pace si può conquistare grazie alla rassegnazione araba. Ma questa rassegnazione, auspicata o deplorata che sia, non sembra a portata di mano. Gli arabi non vogliono «sentire ragioni», cioè non vogliono accettare la sconfitta che è loro stata inflitta, senza contropartita, così come l'Irlanda ha finito per accettare (ma è stata veramente senza contropartita?) l'amputazione dell'Ulster sulla base di una colonizzazione inglese protestante vecchia di trecento anni. Forse un giorno l'accetteranno. I politici israeliani sono padroni di scommetterci sopra, se credono di poter resistere sino allora.
La crisi attuale induce soltanto a pensare che gli uomini politici israeliani cominciano a dubitare di poter attendere così a lungo, e a sospettare che gli arabi non si rassegneranno in un futuro prevedibile.
Che cosa vediamo, infatti? Mentre i sionisti e i loro sostenitori avevano sempre dichiarato che l'ostilità a Israele nei paesi arabi era un fenomeno artificioso, abilmente fomentato dai loro dirigenti, vediamo che i capi arabi che hanno più da temere da una mobilitazione popolare danno le armi ai loro peggiori nemici, vediamo i rivali più feroci del presidente egiziano Nasser venire in suo soccorso o porsi ai suoi ordini. E tuttavia è di notorietà pubblica che il più caldo desiderio di questi rivali arabi sarebbe quello di allearsi con Israele per strangolare quell'egiziano così ingombrante. Spesso è vero anche il discorso inverso. Soltanto che questo atteggiamento è impossibile agli uni e agli altri. Non possono far altro che seguire le loro truppe. Come spiegare questo fatto se non in base alla forza del risentimento popolare contro Israele? Che fare dunque? Israele certo può continuare a dialogare da solo, come dice R. Misrahi. Può continuare a spiegare o a far spiegare dai suoi amici agli arabi che sbagliano completamente a comportarsi così, può appellarsi al loro senso di umanità, stigmatizzarli come popolo arretrato, fanatico, antisemita, fascista, e via dicendo.
Non sembra che vent'anni di pratica di queste esortazioni e di queste denunce incoraggino a sperare di ottenere molto con questo sistema.
Alcuni, come il marxista sionista arabo A. R. Abdel-Kader, caso più unico che raro, possono ancora sperare in una rivoluzione politica o sociale che porterebbe al potere nei paesi arabi elementi disposti ad accettare Israele. Le rivoluzioni che hanno conosciuto questi paesi, invece, hanno piuttosto portato al potere elementi la cui politica era sempre più decisamente anti-israeliana. Oppure, se volevano una soluzione pacifica, la pressione della rappresaglia resa possibile unicamente dalla sensibilità della loro opinione pubblica al problema, li riportava in tutta fretta all'anti-israelismo abituale. Ognuno è libero di sognare ancora una rivoluzione inedita, che sarebbe il miracolo e la sorpresa divina per Israele. Pochi realisti lo faranno.
Lo scorso anno, Abdel-Kader dedicava il suo ultimo libro a Mao Tse-tung.
Questi ha dimostrato un anti-israelismo più radicale di tutti i suoi precursori. Ironia della storia! Con gli arabi che si ostinano a scegliere la sfida, non rimane altra soluzione se non la forza. Ma, per la prima volta, Israele sembra dubitare della propria forza. Almeno, è quanto ci fanno intendere i suoi amici.
E poi, supponiamo che scoppi il conflitto e che Israele ne sia il vincitore. Che fare degli arabi? Ritorniamo al conte de Witte. È possibile annegarli tutti nel mar Rosso? Mantenerli sotto amministrazione diretta israeliana? Ancora più impossibile. Insediare ovunque regimi filo israeliani? Nessuno, gli israeliani meno che mai, dubita che sarebbero soltanto regimi fantoccio scossi dalle rivolte, facili prede di una guerriglia incessante. Anche questa soluzione è impraticabile.
È dunque necessario vivere con gli arabi, volenti e nolenti. E con gli arabi non rassegnati. Allora, come fare?
C'è soltanto una probabilità forse, per quanto minima, per uscire da questo vicolo cieco in cui si sono precipitati i sionisti come i mercenari di Cartagine nella Gola dell'Ascia. Consiste nell'offrire agli arabi di negoziare, non più come si fa da vent'anni a questa parte sulla base dell'accettazione pura e semplice del fatto compiuto a loro danno, ma piuttosto proclamando in linea di principio che si vuol rendere loro giustizia, riparare il torto che si è loro fatto.
Penso che sia questo l'unico linguaggio che abbia qualche probabilità di essere accettato dall'altra parte. L'unico discorso che forse potrebbe provocare nell'altro quel riconoscimento tanto atteso del fatto nazionale israeliano, ormai acquisito dai lavori e dalle sofferenze di questi ultimi decenni, e non certo dal ricordo di un mito di venti secoli addietro.
Israele può rifiutare una simile concessione, dichiarata a gran voce.
Lo sciovinismo che ha attecchito, ahimè, in gran parte della sua popolazione, può indignarsi per una simile «viltà» e non consentire ai suoi leader questo gesto di saggezza. E poi, Israele può ancora vincere questa partita, grazie soprattutto ai suoi potenti protettori.
Ma c'è ancora qualcuno che non vede che questa vittoria non potrà ripetersi all'infinito? Non è forse un segno, l'emozione attuale?
Agli zeloti d'Israele e ai loro amici, si può ricordare che i sionisti hanno cercato, e con accanimento, l'accordo delle potenze europee fin dai tempi di Herzl? Hanno bussato alla corte dello zar, del sultano, del papa, dell'Inghilterra. Il loro insediamento non sarebbe stato compiuto, checché ne possano dire, senza la dichiarazione di Balfour, atto politico britannico, senza la decisione di spartizione dell'Onu del 1947, atto politico sovietico-americano.
Siamo nel 1967. Sarebbe ora di cercare l'accordo degli arabi, ai quali questa terra è stata sottratta. Non gli arabi del mito, gli arabi del desiderio, gli arabi che si vorrebbero miracolosamente convertiti alle tesi israeliane grazie alle esortazioni dei filo-sionisti del mondo, le lezioni dei professori di morale, la lettura dell'Antico Testamento o dei testi classici del marxismo-leninismo. Ma semplicemente gli arabi così come sono, gli arabi che rifiutano di accettare senza contropartita una conquista compiuta a loro danno. Si può deplorare che le cose stiano così. Ma sarebbe soltanto un modo di perder tempo.
Se esiste una tradizione nella storia ebraica, è quella del suicidio collettivo. È consentito ai puri esteti di ammirarne la selvaggia bellezza. Forse, come fece Geremia con coloro la cui politica aveva portato alla distruzione del primo tempio, come fece Yohanan ben Zakkai con coloro che provocarono la rovina del terzo tempio, si può ricordare che esiste un'altra via, molto stretta perché così l'ha resa la politica del passato? Si può sperare che coloro che si proclamano innanzitutto costruttori e coltivatori sceglieranno questa via della vita.
(Traduzione di R.I.)