sabato 11 settembre 2004

viaggio d'autore:
Claudio Magris in Iran

Corriere della Sera 5.9.04
Dove batte il cuore dell' Iran Una cultura di acqua e deserto
Dal crogiolo di stirpi e religioni al fondamentalismo e al chador
VIAGGIO D' AUTORE
di Claudio Magris

«I turisti americani sono i benvenuti in Iran - dichiara all' inizio dell' estate un alto funzionario del ministero degli Interni a Teheran - e possono essere tranquilli, molto più al sicuro dagli attentati di Al Qaeda che negli Stati Uniti». I pochi occidentali, graditi per i loro dollari, sono visti con simpatia e benevola curiosità dalla gente ed è difficile immaginare un 11 settembre o un 11 marzo a Isfahan o a Shíraz; per strada, al bazar o nel giardino di un museo, non è raro che donne col chador (o comunque rigorosamente coperte secondo la prescrizione del più severo islamismo) s' intrattengano garrule e gentili a porre domande allo straniero, naturalmente senza dargli la mano, cosa proibita in qualsiasi circostanza fra persone di sesso diverso. La guerra in Iraq non sembra aver destato violenze antioccidentali, diversamente che in altri Paesi musulmani; la manifestazione contro l' ambasciata britannica - l' unica dimostrazione di piazza durante le settimane del nostro soggiorno - nasce da un rancore più antico. Molti anzi si rallegrano della guerra in Iraq e ne hanno molte ragioni: la soddisfazione di vedere conciati per le feste un Paese e un regime che, istigato e aiutato dagli Stati Uniti, li ha bombardati per otto anni con missili che arrivavano fino a Teheran; il compiacimento di vedere l' Occidente inguaiato in un pantano sanguinoso che rischia di indebolirne la leadership mondiale; la speranza che quel malaccorto pasticcio possa produrre un governo iracheno sciita, possibilità contemplata da Powell in una dichiarazione vistosamente riportata sui giornali; la convinzione che le impreviste (e goffamente sottovalutate) difficoltà incontrate invadendo l' Iraq distolgano gli Stati Uniti dall' attaccare l' Iran. C' è comunque un' ovvia e grande differenza, anche a questo proposito, tra i rappresentanti del regime (e anche la popolazione, poco entusiasta di quest' ultimo ma ancor meno di venir bombardata da liberatori) e l' alta borghesia colta, avversa agli ayatollah anche se impedita di esprimersi. Un intellettuale che ha vissuto e vive per lunghi periodi in Europa mi dice di aver sperato, a suo tempo, in una vittoria di Saddam Hussein sull' Iran e di approvare l' appoggio dato allora dagli Stati Uniti al tiranno iracheno contro l' Iran fondamentalista islamico.

Scontro di civiltà, guerra di culture, slogan che risuonano sempre più spesso all' inizio del Terzo Millennio, come echeggiavano circa un secolo fa durante la grande crisi irrazionalista dell' Europa, con legioni di profeti che proclamavano il tramonto dell' Occidente, predicavano la guerra fra le razze, annunciavano la nascita dell' uomo nuovo, di un rinnovellato e puro Adamo sorto da rigeneratori bagni di sangue. Il pathos millenarista e apocalittico si inebria di formule totalizzanti e vuote («la fine della storia») e deforma il corso degli eventi in un fumettone, dominato da una cupa ed esaltante fatalità, che travolge gli uomini sotto cicli corruschi e spettacolari da fine del mondo. Fra le tante cose che la cultura dell' Occidente ha da insegnare c'è anzitutto la sobria e lucida critica di ogni enfasi e di ogni polpettone misticheggiante; per capire le sconvolgenti trasformazioni della realtà, che si svolgono sotto i nostri occhi con una velocità che stordisce, c' è bisogno di analisi concrete e differenziate non di sintesi, reboanti e vacue. Il conflitto caratterizza - a vari livelli, barbari o civili - l' esistenza delle comunità umane e può essere fonte di progresso, se lo si sa incanalare entro regole di umanità. Se la guerra, come diceva Clausewitz, è la continuazione dei conflitti politici con altri mezzi, la civiltà e la democrazia consistono nell' elaborazione di meccanismi che impediscano quel passaggio ai mezzi violenti, così come impediscono di risolvere i conflitti individuali di interessi con la violenza fisica. L' attuale fondamentalismo anarco-liberista-ultrà - che oggi inquina la società occidentale con la sua faziosa irrazionalità e vilipende il pensiero liberale, scambiandolo per una caotica licenza e per una giungla selvaggia - fomenta la violenza perché mina le regole con cui la civiltà la tiene a bada. Non sono le «civiltà» a scontrarsi; conflitti e guerre nascono da tensioni e trasformazioni che non riescono a comporsi nell' assetto ordinato di uno Stato o di un complesso di Stati reciprocamente collegati in un sistema equilibrato. La prima e la seconda guerra mondiale non sono state uno scontro da crepuscolo degli dèi fra le civiltà germaniche, latine e slave, bensì lo sbocco, l' immane spurgo sanguinoso dei rivolgimenti che sconquassavano un secolare ordine europeo. Le civiltà hanno una loro fisionomia, ma non esiste una loro rigida e immutabile identità che collimi completamente con un Paese. La democrazia è infinitamente superiore a una dittatura omicida, ma non per questo la Danimarca, che non ha conosciuto l' obbrobrio di quest' ultima, è superiore alla Germania, che l' ha praticata in misura efferata. È ozioso stare a chiedersi se l' Islam sia una civiltà superiore o inferiore, sommando e sottraendo l' Alhambra, la Shari' a, Avicenna e l' infibulazione. Quel che conta è, di volta in volta e dinanzi a una questione concreta, sapere dove sta la civiltà e dove sta l' offesa che le viene inferta. Indubbiamente oggi il fondamentalismo islamico, quali siano i motivi che hanno favorito la sua ascesa, comporta gravi e talora gravissimi attentati agli elementari diritti della persona, che dovrebbero suscitare maggiori proteste da parte dei movimenti libertari occidentali; non si sono visti molti cortei contro la lapidazione di adultere o la decapitazione di omosessuali avvenute in Paesi musulmani.

All' università di Teheran, Roberto Toscano - il nostro ambasciatore in Iran, che svolge in quel difficile contesto un lavoro particolarmente illuminato, unendo una grande disponibilità nei riguardi di quel Paese e una ferma tutela dei nostri valori - tiene una conferenza sui diritti umani e le modalità di valutarli e garantirli sul piano internazionale. Il consenso degli ascoltatori è generale, ma un intellettuale rivendica l' identità di religione e diritto; i comandamenti e precetti religiosi, a suo avviso, non devono limitarsi a ispirare una visione della vita che poi, autonomamente, genererà anche un sistema giuridico ma devono essere, direttamente, le leggi dello Stato; in tal modo, non andare a messa la domenica diverrebbe, per un cattolico, un reato da perseguire. Qui corre una frontiera indiscutibile e invalicabile, che non può essere negoziata ma dev' essere affermata e difesa, ossia la distinzione tra la sfera etico-religiosa e quella giuridica. Questa distinzione è un valore universale ed è uno dei cardini della civiltà occidentale. Il sublime Sermone della montagna evangelico è più grande di ogni codice, ma inadatto a essere preso per un codice. Le civiltà non sono tuttavia statiche, bensì dinamiche e contraddittorie; pure l' Occidente ha conosciuto, sebbene limitatamente, forme di governo ierocratico, come - in certi periodi - negli Stati della Chiesa, o teocratico, come, per un breve periodo, la Repubblica calvinista di Ginevra. Non per questo i Paesi in cui prevale la religione calvinista sono oggi totalitari; anzi, sono fra i più democratici e il calvinismo è all' origine di tante libertà moderne. L' Islam, al tempo della dominazione araba in Spagna, era più tollerante e liberale del cristianesimo. Il volto delle civiltà cambia talora in modo menzognero, pure nell' immaginario collettivo degli altri. Ancora pochissimi anni fa, quando si demonizzavano stupidamente e falsamente i serbi o quando l' Unione Sovietica invadeva stupidamente l' Afghanistan, i musulmani - per i media occidentali - erano buoni e bravi, prodi campioni di libertà; oggi vengono infamati in blocco secondo schemi che sembrano presi dal peggior nazionalismo serbo. Le civiltà e le loro immagini si evolvono e mutano nel tempo, si articolano in elementi diversi e talora contrastanti. Non possono essere fotografate - ha scritto Roberto Toscano - e bloccate in un ritratto statico, come se stessero ferme, ma devono essere cinematografate, colte nel loro movimento che le trasforma.

Da secoli, l' Iran è un Paese che ha il genio dei giardini, delle acque e degli specchi, celebrati in una poesia e in una mistica che appartengono alla più alta letteratura universale; paradiso, in persiano, significa giardino. In quello di Bagh-é-Taríkhí-yé Fin, nei pressi di Kashan, la città-oasi cara allo scià Abbas il grande, le acque scorrono lievi negli agili canali e il mondo sembra frescura e pace; nessuno come i popoli esperti di deserto e di arsura sa cogliere la misteriosa grazia dell' acqua, della sua incolore trasparenza, del suo scorrere e mutare in cui essa rimane uguale a se stessa, del suo impeto che diviene canale, irrigazione, ordine geometrico eppure insondabile. Nella grande lirica persiana e in quel geniale rifacimento-ricreazione che è il Divano occidentale-orientale di Goethe, l' acqua che si dà una mobile e perenne forma nel gioco delle fontane diviene il volto della vita e del suo fluire, della continuità e dell' imprevedibilità di Eros, dell' enigmatica identità di natura e civiltà, disordine sorgivo e ordinato tessuto dell' esistenza. Attraversare l' Iran - le sue città, le sue brulle montagne, le sue aride pianure, le sue improvvise dolci oasi di verde, fiori e specchi d' acqua - è un continuo brusco passaggio da una sensazione di estraneità, anche respingente in tanti aspetti intollerabili del fondamentalismo islamico, a un sentimento di familiarità, quasi di comune appartenenza a una civiltà di lunga durata e ampio respiro, che ci riguarda. Dalle rovine di Persepoli alle vestigia dei Sassanidi, dalle dinastie abbasidi ai Timuridi si respira un senso grande dell' impero, dello Stato che è crogiolo di stirpi, culture e religioni; tracciato di strade che tagliano deserti e montagne collegando i popoli, leggi e acquedotti, orgogliosa lotta col Tempo e gloria di rovine sgretolate dal tempo e divenute polvere del deserto. Certo, Maratona e Salamina, che salvano la Grecia, sono ancor oggi nostre vittorie, ma siamo contemporaneamente eredi pure di quegli imperi persiani che hanno fatto incontrare Oriente e Occidente, l' antica civiltà mesopotamica e l' ebraismo; di quell' Iran che si è contrapposto al Turan centroasiatico come la Grecia si era contrapposta alla Persia achemenide. Se Qom, la città santa pullulante di preti, dà un' impressione di Oriente esotico e per noi alieno e Teheran è un' enorme metropoli che prolifera in periferie disorganiche, vitali e friabili, altre città danno, nonostante la repressione tribale del regime, il senso della Civitas: l' incantevole Isfahan - con l' incredibile bellezza delle sue moschee azzurre, delle sue piazze, dei suoi ponti sul fiume, dove la sera si raccolgono in festosa tranquillità le famiglie - o Shíraz, la città delle rose e dei poeti. La poesia persiana ha l' impronta della classicità; la sua ruba' i (la quartina in cui Omar Khayyam, innamorato della vita e persuaso del suo nulla, scrisse il suo celebre «Rubaïyat») è una forma poetica universale come l' esametro o l' endecasillabo. In queste settimane si commemora Firdusi (in farsi, Ferdósí), il poeta che più di mille anni fa scrisse il poema epico della Persia, «Il libro dei re»; per ricordare un suo anniversario è stato deposto sulla sua tomba, che si trova a Tús nell' Iran orientale, un tappeto di 7,2x2,7 metri, cui hanno lavorato ininterrottamente per tre anni quattro persone. Come la vita stessa, l' epica è un tappeto, incrociarsi e disfarsi di destini come fili di diverso colore, eventi figure e personaggi tessuti e dissolti dal tempo, dal caso, da Dio, da inesorabili necessità o fortuite coincidenze, egualmente vissute, godute e sofferte con passione. «Il libro dei re» non è un testo esotico e lontano, ma un grande poema di guerra, avventura, amore, fede, disillusione e fatalità, che fa parte del nostro mondo e della nostra fantasia come la «Canzone di Orlando» o «I Nibelunghi». Ho avuto la fortuna di leggerlo e amarlo fin da ragazzo nella versione ottocentesca di Italo Pizzi, uno dei molti esempi della gloriosa filologia italiana e della sua apertura universale. Fra le tante vicende che s' intrecciano nel poema, c' è una storia archetipica che compare in tante letterature anche lontane: il tragico scontro, sul campo di battaglia, fra padre e figlio, col primo che uccide il secondo, distruggendo così se stesso e la propria sopravvivenza. Rustem, l' Achille iranico, è costretto a uccidere Sohràb, l' ignaro suo figlio che combatte sotto altre bandiere. «Il libro dei re» mescola l' islamismo col retaggio preislamico della tradizione persiana; i versi del suo proemio che invocano Allah sono una delle più alte espressioni del monoteismo musulmano. Un' autentica spiritualità - quando non si distorce nella propria caricatura che la nega, come accade con i fondamentalismi - è sempre universale, non appartiene solo a chi la professa esplicitamente da fedele e da praticante. A Shíraz, nel mirabile mausoleo di Shah-é-Cheragh, gli abbaglianti cristalli riflessi da innumerevoli specchi e i colori che diventano luce, come nel paradiso dantesco, trasformano il mondo nello specchio di qualcosa d' altro. Qui il chador non appare più uno stucchevole folclore, come la gondola veneziana nella sfera di vetro o una grottesca imposizione, ma un abito rituale adeguato a quel luogo di culto, che è nostra scelta chiedere di visitare, rispettando dunque le sue regole. L' atmosfera è intensa, la preghiera ha uno spessore quasi fisico. Qualche sguardo sospettoso verso gli stranieri infedeli si spegne subito nell' assorta concentrazione. Uscendo dal santuario, le cui sale per uomini e donne sono rigorosamente separate, e reincontrandoci nel cortile, io e J. scopriamo di aver detto spontaneamente tutti e due, dinanzi alla tomba del santo, un' Ave Maria, la preghiera forse più conciliatrice di fedi diverse - o anche di non fedi - e con meno pretese di superiorità rispetto ad altre fedi; comunque la preghiera cattolica più accettabile per un musulmano. (1- continua)

Corriere della Sera 9.9.04
Una lettera per l' Iran di domani dove l' Islam non sia una prigione

Donne, poeti e mistici nel tempo lungo di un paese millenario
Le contraddizioni di un regime in bilico tra censura e aperture.
LA MORALE Le società repressive sono responsabili anche dei vizi che producono
IL FUTURO Si sente il bisogno di una trasformazione in uno Stato aperto e progredito
di Claudio Magris

Pure Khatami, presidente della repubblica, inizia la sua «lettera al domani», pubblicata con grande rilievo e fra accese discussioni sui giornali iraniani in farsi e in inglese, con l' immagine del deserto: che è aridità, morte, minaccia, ma anche prova, pazienza, traversata, ricerca dell' acqua della vita. Quest' ultima, per Khatami, diviene simbolo della speranza di un rinnovamento - a suo avviso necessario, anzi «irreversibile» - nella vita del Paese. Egli si batte contro l' oscurantismo fondamentalista, per una distinzione fra religione e politica e perché l' indipendenza nazionale, conquistata contro lo sfruttamento coloniale e l' asservimento ad altre potenze, non significhi più repressione bensì democrazia e diritti civili. Questi valori laici - che non vuol dire irreligiosi - sono la grandezza dell' Occidente, che peraltro li ha spesso negati nella sua politica di potenza e sfruttamento, specialmente coloniale, reprimendo con violenza - nei paesi che voleva sfruttare - soprattutto le forze modernizzatrici e liberali che, ispirandosi al modello occidentale, volevano fare del proprio Paese uno Stato libero, indipendente e democratico, che quindi non si sarebbe lasciato più schiavizzare dalle potenze coloniali. Se oggi in Iran imperversa la tirannica rivoluzione islamica, negatrice del progresso e del liberalismo occidentale, lo si deve in gran parte a quei governi occidentali che, cinquant' anni fa, hanno fatto cadere con un colpo di Stato il governo di Mossadeq e il suo tentativo di fare dell' Iran un Paese democratico, laico e padrone del proprio destino e delle proprie risorse. Secondo Khatami, la rivoluzione islamica, esaurita la sua funzione rivoluzionaria di riscatto del Paese, deve trasformarsi in uno Stato aperto, progredito e normale, in cui - egli dice, citando Brecht - non ci sia più la triste necessità di eroi. In realtà la sua lettera si colloca in un aspro conflitto all' interno del regime, dall' esito difficilmente prevedibile. Khamenei, l' ayatollah supremo che ha molto più potere di Khatami, è su posizioni duramente illiberali ed è seguito dall' ala clericale intransigente. Sembra che il regime invii intenzionalmente segnali contraddittori. Condanna a morte l' intellettuale antifondamentalista Hashem Aghajari, ma la Corte suprema annulla il processo; non si vedono più in azione le squadre dei guardiani della rivoluzione e della morale sessuale, ma la flagellazione per effusioni erotiche anche moderate, pur praticata sempre meno o quasi mai, è tutt' ora legalmente in vigore e può sempre venir applicata, magari a chi si è reso inviso per le sue idee al regime, che approfitta delle sue attenzioni per l' altro sesso per vendicarsi. Alle donne non si può nemmeno dare la mano quando le si saluta, ma ricoprono ruoli sociali anche eminenti, costituiscono - secondo Le Monde - il 60 per cento degli studenti universitari e usano largamente i contraccettivi. Le più inclini alle riforme non sono le giovani, che sono venute al mondo e cresciute quando c' era già il regime khomeinista, che non hanno dunque vissuto come uno choc ma come una realtà già data. Sono le loro madri - mi dice una di esse - a sentire ad esempio come un oltraggio l' obbligo del chador o comunque di un velo in testa, perché da giovani hanno conosciuto una modernizzazione occidentale, pur basata sulla repressione e anche sulla tortura degli avversari politici, com' era il regime dell' ultimo Scià, così pronto a fuggire, quando il suo trono scricchiolava, col petto coperto di medaglie non guadagnate su campi di battaglia. Farideh Lashai, pittrice e scrittrice di forte talento, è stata a suo tempo nelle galere della famigerata polizia segreta dello Scià ed ha narrato questa esperienza in un libro che ha destato la perplessità dei suoi compagni di fede e di persecuzione politica di allora per la sobrietà antiretorica con cui racconta quella bruciante sofferenza sua e di un' intera generazione. Parlare senza enfasi e obiettivamente delle violenze patite è il miglior segno di libertà interiore, premessa e insieme conseguenza di quella civile. L' Iran sarà un Paese libero quando non sarà più necessario - e quindi non sarà più possibile - scrivere libri come quello, molto interessante, di Azar Nafisi, una dissidente ora emigrata negli Stati Uniti, Leggere Lolita a Teheran: quando cioè leggere il capolavoro di Nabokov sarà un atto ovvio, né trasgressivo né compiuto con vanità trasgressiva, perché la fine della stupida e dispotica proibizione di un libro come Lolita (e altri) farà capire che il suo valore non è nel suo tema, né più né meno stuzzicante di altri, bensì nella poesia con cui viene narrato, e che la pedofilia, di per sé, non è certo più interessante della verginità prematrimoniale di Renzo e Lucia nei Promessi Sposi. Alla libreria dell' albergo Abbasi, a Isfahan, si possono acquistare anche il Decamerone, Kipling e Brecht, ma solo in inglese. Le società moralisticamente repressive sono responsabili anche dei vizi che producono e soprattutto di incrementare, vedendo dappertutto perversione, l' ebete fascino della perversione o di ciò che si presume tale. Tutto è puro per i puri, dice il Vangelo. Ma Nietzsche aggiunge: «Al porco tutto sa di porco».

Se all' inizio il regime khomeinista era più esplicitamente e violentemente repressivo, ora sembra preferire una tacita intimidazione. Puoi fare ciò che vuoi, si dice, ma loro possono fare di te ciò che vogliono. Ci si stupisce di sentire persone anche con un ruolo preciso, ad esempio le guide turistiche riconosciute, criticare apertamente il governo, affermare che al massimo il 10 per cento della popolazione gli è favorevole e che vige una doppia morale, di cui non si parla ma di cui tutti sono a conoscenza. Talvolta le critiche sembrerebbero perfino fatte ad arte e su suggerimento delle autorità, per dare agli stranieri l' impressione di un Paese più libero. La prostituzione ufficialmente non esiste, ma esiste ufficialmente il matrimonio a tempo, solo fra musulmani: un uomo e una donna celebrano davanti a un mullah un matrimonio specificando la durata della sua validità, in teoria anche una settimana o una notte, dopodiché tutto è lecito. C' è un detto: chador e sotto niente.

I poeti riposano vicino all' acqua, come Sa' di e Hafez a Shiràz; i loro versi - specie quelli di quest' ultimo, il lirico persiano per eccellenza - trascolorano e fluiscono, inconfondibili e variabili all' infinito, come il mormorio di quelle acque e della vita stessa. Venerato anche religiosamente, Hafez canta Dio, l' eternità del suo respiro e dello svanire di ogni vita, in ogni istante, in quel respiro - forse anch' esso soffio che svanisce - ma canta pure il vino, le rose, gli usignoli, l' ebbrezza di un eros inesauribile, appassionato e lieve. Amare una fugace rosa è amare la rosa che fiorisce da sempre, dall' eternità, nella mente di Dio, come dice un verso di un grande mistico - e sacerdote cattolico - del Seicento, Angelus Silesius, verso che potrebbe essere di Hafez o di un altro poeta mistico di altro tempo e paese. La mistica è infatti abolizione del tempo, identità di vita e di morte, dell' Io individuale e del Tutto in cui questi sprofonda, dissolvendosi nell' ombra di un Dio così indefinibile da assomigliare al nulla. Dio è un grande Nulla, ripetono nel tardo Medioevo tanti mistici cattolici tedeschi. Si allentano i confini tra la fede in un Dio trascendente e quella in un panteismo in cui non ci sono più né Dio né l' Uomo; per Rumi, altro grande lirico persiano, raggiungere Dio significa l' annientarsi dell' ombra nella luce, il rompersi dell' onda nel mare. Felicità e disperazione, abbandono gioioso all' amore, che tutto avvolge e dissolve, o malinconia dello svanire sono quasi la stessa cosa; non dipendono da una concezione religiosa o filosofica, ma da uno stato d' animo, forse da come le endorfine reagiscono a uno stesso stimolo, alla rosa che fa ricordare quella identica dell' anno passato, forse rinata ma certamente morta. Se Omar Khayyam sente con cupa tristezza l' inesorabile roteare delle stelle schiave come gli uomini, si potrebbe essere pure inebriati di quella monotona necessità universale, come Hafez s' inebriava dello sfogliarsi dei fiori, delle coppe di vino vuotate e delle fanciulle e dei coppieri che le riempivano. La poesia, ammoniva nel Trecento, come già un tempo i greci, un trattatista persiano, Sciams e Qeis, è anche menzogna, falsità e smodata iperbole. (2 - continua.)

Corriere della Sera 11.9.04
Nel crogiolo delle religioni antiche e moderne che segnano la civiltà persiana
di Claudio Magris

Francesca Toscano ci porta alla cattedrale armena di Isfahan. La comunità cristiana armena, che vive soprattutto nell’adiacente quartiere, ha un seggio in Parlamento garantito per legge. Documenti e cimeli ricordano il grande sterminio degli armeni a opera soprattutto dei Giovani Turchi, il primo massacro di massa del Ventesimo secolo, circa un terzo dell’intero popolo; l’imbarazzo a definirlo o no genocidio, che caratterizza le discussioni diplomatiche internazionali sull’argomento, è molto significativo. Dinanzi a quelle testimonianze di atrocità, ognuno resta turbato; mi chiedo se, fra noi, Nil Papa Cerrahoglu - giornalista turca impegnata sui fronti avanzati dell’informazione del suo Paese e nostra amica, con suo marito, da tanti anni - lo sia forse in modo particolare. Conosco bene i sentimenti contraddittori che in queste o in analoghe circostanze, prova ogni persona, tranne chi sia stato disumanizzato da un viscerale nazionalismo. Dinanzi a un’orribile pagina di storia del proprio Paese si è facilmente presi da impeti contrastanti; si vorrebbe sorvolare e tirar via ma anche insistervi con accanimento maggiore di quello rivolto a crimini commessi da altri; lo scrupolo filologico di rettificare dettagli magari esagerati è bloccato dal timore, forse non infondato, che quell’onesta rettifica nasca inconsciamente dal desiderio di sminuire l’accaduto, come succede spesso a tanti storici revisionisti. Il complesso di colpa, che non nasce dalla chiara consapevolezza morale ma da tortuosità psicologiche, è un cattivo consigliere. E’ giusto, è doveroso, oppure è sbagliato sentirci responsabili di ciò che hanno compiuto altre persone e altre forze politiche del proprio Paese, che magari abbiamo combattuto? Pietro Nenni, esule in Francia, quando l’Italia di Mussolini attaccò la Francia già prostrata dai tedeschi, sentì l’impulso di chiedere scusa ai propri vicini di casa francesi, ma forse questi avrebbero dovuto invece ringraziarlo, perché si batteva anche per la loro libertà. E tuttavia è pure vero, come diceva Croce parlando nel 1947 alla Costituente contro il dettato di pace, che non ci si può distaccare dal bene e dal male della propria patria. Dell’umanità intera, potremmo aggiungere. Detto questo, non si deve mai dimenticare che le malefatte e le atrocità non le compiono genericamente i tedeschi, i serbi, i musulmani, gli italiani, bensì determinate e ben precise persone e forze politiche. Quelle testimonianze del martirio armeno non autorizzano certo a dare addosso ai turchi di oggi o alla Turchia in generale né a sottovalutare le ripercussioni negative che - osserva Giampaolo Papa, il quale la conosce a fondo da diplomatico e da studioso di politica - avrebbe oggi un atteggiamento sprezzante dell’Europa nei confronti di una Turchia il cui governo moderato islamico cerca l’Europa, frenando così il pericoloso fondamentalismo.

In Iran i seguaci di Zoroastro sono solo 30.000, ma sono rispettati e la loro religione, che ha segnato profondamente la civiltà persiana, è riconosciuta; come i cristiani e gli ebrei - pur così fanaticamente odiati dal fondamentalismo islamico - hanno un seggio al Parlamento garantito per legge. Zoroastro (o Zarathustra) è uno dei creatori del monoteismo; non a caso, a riverire Gesù neonato, a Betlemme, arrivano i Magi, sacerdoti zoroastriani, quasi a simboleggiare l’incontro delle religioni trascendenti, e per la stessa ragione Nathan il Saggio , il capolavoro illuminista di Lessing sulla ricerca della verità e sulla tolleranza religiosa, affianca un rappresentante dello zoroastrismo a quelli del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’Islam. Zoroastro non è stato il primo a concepire l’idea di un Dio unico e trascendente, ma è stato il primo a proclamare la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte e la sua salvezza o perdizione in base alle azioni buone o malvagie. Nietzsche lo considerò il primo di quelli che per lui erano i corruttori dell’umanità: i Socrate, Platone, Gesù e gli altri fondatori di religioni che avevano voluto imporre al libero e selvaggio fluire della vita ignara di bene e di male le catene della morale, della fede, dei valori, di tutto ciò che pretende di trascendere e reprimere la vita. Il suo Zarathustra è colui che, liberandosi da queste catene, libera gli uomini e annuncia l’avvento di un nuovo tipo d’uomo e la morte di Dio. Così parlò Zarathustra , l’unico libro brutto, stridulo ed enfatico di Nietzsche fra tanti suoi geniali e poetici capolavori, è meno affascinante dello Zend Avesta , il libro sacro dello zoroastrismo. Venerato oggi nei Templi del Fuoco, Zoroastro morì martire, ucciso a colpi di bastone. Una delle componenti fondanti della nostra civiltà, il monoteismo, riconduce anche all’Iran. I Baha’i sono ben più numerosi degli zoroastriani, ma la loro religione - una derivazione dell’Islam nata nell’Ottocento - non è riconosciuta e il suo culto pubblico non è ammesso. In fondo, nessuno - colpevolmente - se ne stupisce o se ne scandalizza, forse perché la sua origine è così recente e noi sentiamo la sacralità delle religioni solo quando sono avvolte dall’aura dell’antichità, dei tempi remoti e non crediamo che in un’epoca vicina a noi possano avvenire nuove Rivelazioni - anche se la distanza temporale fra Abramo e oggi, rispetto all’età o anche solo alla storia del mondo, è brevissima, un attimo rispetto a millenni.

Paesaggi arsi, oasi di frescure e di verde, il volto delle ragazze afghane a Abyaneh, l’antico incantevole villaggio sulle brulle montagne vicine a Kàshàn, con le sue case rivolte a oriente, al calare del sole. Non lontano da Kàshàn, in un territorio arido e afoso, s’innalza come una torva divinità arcaica una ziggurat, l’antica torre mesopotamica costruita a piani sovrapposti che salgono con ampiezza decrescente, come una piramide. La ziggurat affascina la fantasia occidentale con la sua aura di millenni remoti - cupa seduzione dei primordi, grandiosità impenetrabile del mito, Torre di Babele, assalto al cielo, altari di idoli e dèi spietati. E’ soprattutto una presunta sacralità dell’origine a suggestionare, talora in forme pure pacchiane, noi postmoderni timorosi o compiaciuti di essere sfatti epigoni lontani dalle sorgenti della vita. Sacro è una parola - e una dimensione - ambigua; vuol dire anche maledetto, intoccabile, minacciosamente precluso ai profani; i moderni si sentono, in qualche modo, tutti profani, sia che accettino con voluttà servile di restar fuori dal tempio inaccessibile degli dèi sia che, colti da periodiche furie iconoclaste, distruggano tutti i templi che capitano a tiro. Come ogni idolatrica superstizione, quella sacralità e quell’aureola dell’origine sono un abbaglio, spesso pure un inganno. Il sacro autentico è il rispetto religioso per tutta la creazione in ogni suo momento, per tutta l’esistenza - per ogni casa in cui nascono e vivono gli uomini, per ogni chicco di grano che muore e rinasce. Quando diviene un culto arcano riservato a luoghi, cose o immagini privilegiate e falsamente misteriose, è un trucco, un inganno o un autoinganno, stanza che si tiene al buio per impedire di accorgersi che dentro non c’è niente e che il preteso dio è un feticcio. L’idolatria che declassa Dio e il divino a mistero da Luna Park, è il nemico della religione. L’origine - di un individuo, di una nazione, di una civiltà - non è affatto più sacra di qualsiasi altro momento della vita. La falsa sacralità è violenza, è la paura e l’oscurità di cui ogni brutale potere ha bisogno per rendere schiavi. Arrampicandomi su questa Torre di Babele, mi viene in mente la sala del Palazzo di Golestan (il palazzo imperiale di Teheran) visitata pochi giorni prima, la sala in cui nel 1943 s’incontrarono Roosevelt, Churchill e Stalin e decisero - più che a Yalta - la spartizione e la sorte del mondo per mezzo secolo. E’ a Stalin che fanno pensare queste arcane rovine. Il Cremlino staliniano - sacrario di potenza, oscurità e terrore - è stato a suo modo una ziggurat. Entrambi lontani nel tempo e insieme, rispetto alla storia del mondo, vicinissimi, contemporanei, cronaca di ieri sera.

Teheran. Alla Casa degli Artisti, a parlare di letteratura di frontiera e dei temi che un discorso del genere, ogni volta, implica in forme nuove e in nuovi contesti: sradicamento, esilio, migrazioni, identità ossessiva, purezze e pulizie etniche, politiche o religiose, meticciati. Ci sono studenti, diplomatici, professori, intellettuali, scrittori; molte donne, particolarmente rigorose nell’esigenza di discutere con franchezza. La discussione, quando si sfiorano argomenti direttamente politici, ha ovviamente dei confini. Mi accorgo di essere incerto sul tono giusto da assumere, sulla frontiera tra il rispetto della verità e il rispetto delle persone, la responsabile attenzione a non mettere altri in difficoltà e la cautela convenzionale. Mi sarebbe facile tuonare di libertà, democrazia e Occidente, senza preoccuparmi di mettere altri in imbarazzo e senza pagare dazio, lasciando che siano altri, eventualmente, a pagarlo. L’etica della responsabilità, che pensa non solo alla purezza degli ideali, ma anche alle loro conseguenze per gli altri, è un fondamento della vita civile e della democrazia. Mai come quando si viaggia, tuttavia, si sente quanto facilmente essa possa sfumare in involontaria complicità o almeno in colpevole neutralità. I residenti, i sedentari sono costretti a fare i conti a fondo con la realtà in cui vivono, senza svicolare, come è consentito invece a chi la notte dopo dormirà sotto un altro cielo. Viaggiare è immorale, diceva l’inflessibile Weininger. Ma lo diceva durante un viaggio... (3 - fine)