Il manifesto.it 1 dicembre 2004
Antonio Gramsci in salsa Le Carré
«Antonio Gramsci. Storia e mito» di Luigi Nieddu per Marsilio. Una rilettura di alcuni tratti della biografia dell'intelletuale sardo non di rado forzata da pregiudizi ideologici. All'ombra, vecchia e sempre utile, dell'«oro di Mosca» sui comunisti italiani dell'«Ordine Nuovo»
GUIDO LIGUORI
Molti aspetti della biografia gramsciana non sono oggettivamente facili da chiarire. Alcuni di essi sono stati e sono al centro di controversie storiografiche più o meno fondate. Negli ultimi anni ha preso corpo una corrente interpretativa che si è lanciata in letture che si vogliono innovative, ma che spesso non sono fondate su documenti nuovi e fatti accertati, quanto su congetture e ipotesi sostanzialmente arbitrarie. Riletture a volte ingenue, a volte malevoli, contraddistinte quasi sempre da intenzionalità aprioristicamente polemiche. Ovviamente è bene che il dibattito storiografico sia articolato, variegato, assolutamente libero dalle ipoteche di partito che in tempi ormai lontani condizionarono la ricerca. A volte però si passa il segno, e lavori che pure si presentano come dettati solo da spirito di studio, finiscono per approdare a risultati che ricordano da vicino le più discutibili operazioni di propaganda «storiografica» anticomunista, ancora nei ruggenti anni ottanta. È il caso di un volume di Luigi Nieddu da poco in libreria, Antonio Gramsci. Storia e mito (Marsilio, pp. 250, € 21): scritto in apparenza con taglio aideologico e non privo di qualche «scoperta» di archivio, sia pure non rilevante, il libro è in realtà una rilettura di alcuni tratti della vicenda biografica di Gramsci talmente forzata da denunciare un palese pregiudizio politico.
I tratti della biografia gramsciana più discussi - come è noto - sono quelli del rapporto col padre, degli esordi nella stampa e nel partito socialisti, degli anni della lotta contro Bordiga, i contrasti del 1926, la lettera di Grieco del `28, l'opposizione alla «svolta» e le reazioni da parte del partito e dell'Internazionale, il ruolo dei familiari russi, i sospetti del recluso, le circostanze della morte. C'è chi su questi punti ha già ricamato, forzando indizi e circostanze, pur in assenza di un qualunque riscontro oggettivo. Nieddu non solo riprende e ripete e rafforza tutte le ipotesi più malevoli, ma ne introduce di nuove. Ad esempio, avevate mai saputo che l'Ordine Nuovo del 1919-'20 era diretta emanazione del Comintern, che non solo il giornale era pagato dall'Internazionale, ma che i maggiori articoli gramsciani ivi comparsi sono stati in realtà scritti o dettati da emissari di Mosca in Italia? Il maggiore quotidiano italiano - forse per un residuo di pudicizia - evita di riprendere quest'ultima esilerante notizia, buttandosi però senza perplessità sull'ennesima riedizione della vecchia e sempre utile storia dell'«oro di Mosca».
A questo proposito, forse non è inutile ricordare che proprio sulla questione della situazione finanziaria dell'Ordine Nuovo si erano soffermati - in una conversazione con Gianni Bosio di fine anni sessanta - Pia Carena e Alfonso Leonetti, rievocando certo la penuria di risorse, il lavoro volontario o pochissimo retribuito, le sinergie (diremmo oggi) con la stampa socialista, che permettevano di non pagare la sede del settimanale e tante altre spese. Ma non facendo cenno a sostanziosi «interventi esterni». Che - se di omissione volontaria si trattasse - sarebbe fatto strano, sia perché i due erano spiriti liberi e non certo comunisti ortodossi e fedelissimi del Pci, come è chiaro a chiunque conosca un minimo le loro biografie, sia e soprattutto perché - nel contesto del movimento comunista internazionale post-rivoluzione russa - non poteva essere motivo di vergogna ricevere quell'aiuto «internazionalista» ipotizzato da Nieddu. Il problema oggi è però un altro, sul piano storiografico-politico: o si ritrovano e si esibiscono documenti nuovi che comprovano certe affermazioni, oppure ha poco senso avventurarsi in ipotesi e congetture che lasciano, o dovrebbero lasciare, il tempo che trovano. E che subito innescano invece - ma non sorprende - la malizia di certa stampa.
Ma torniamo al libro. Gramsci è dunque «uomo di Mosca» fin dal 1919, ma nella lotta contro Bordiga saranno poi le figure di Togliatti e Scoccimarro quelle che sembrano a Nieddu le più rilevanti. Il comunista sardo è manovrato ora dagli uni ora dagli altri, ora da Tasca, ora da Bordiga, ora dagli agenti di Lenin, ora da «Scocci» e Togliatti, ininterrottamente dal 1914 al '26: un vero e proprio «pupazzo», un uomo di paglia. Resta solo da scoprire - questo il vero scoop che chiediamo a Nieddu - chi sia il vero autore dei Quaderni: certo non può essere un imbelle come Gramsci... Non si capisce infatti, seguendo il libro, come in carcere il comunista sardo sia divenuto capace di lottare contro tutto e contro tutti: probabilmente - essendo con le lettere del '26 divenuto (per Nieddu) nei fatti antisovietico e forse anticomunista - questo solo evento è capace, come la cresima per i primi cristiani, di rifornirlo di tutte le virtù dello spirito che prima gli erano negate. Dopo essere stato per anni alquanto meschino e debole e ingenuo, gli viene ora riconosciuta come per incanto una inedita dirittura morale, oltre che indubbie doti intellettuali.
Tutti gli altri protagonisti, in compenso, sono cattivi fino in fondo. Le sorelle Schucht, va da sé, sono tutte agenti dei «servizi» sovietici. Il nostro autore, a cui evidentemente piacciono i romanzi spionistici alla Le Carrè o i film di 007, le chiama addirittura ripetutamente «allodole»: comuniste disposte a tutto, anche ad andare «a letto con il nemico» (e a sposarselo e a farci un paio di figli...), per obbedire a Lenin prima e a Stalin poi. Gramsci è costantemente spiato da tutti, più che «l'uomo di Mosca» ne sembra il nemico o il prigioniero. A Vienna è isolato, gli aprono la corrispondenza, vive circondato da bordighisti o da protostalinisti. Sono Togliatti & co. che ovviamente, con subdola manovra, lo fanno condannare, altrimenti il Tribunale fascista non avrebbe avuto prove... Tania resta in Italia per sorvegliarlo e ogni sua mossa dipende dagli ordini rigidi che le vengono dati dall'ambasciatore sovietico o da Piero Sraffa, che l'autore chiama ripetutamente, sempre usando un gergo alla Le Carrè, «il controllore». Addirittura la morte di Gramsci sarebbe stata procurata dai suoi compagni e amici, e in primis da Sraffa e da Tania, che ostacolandone il ritorno in Sardegna lo avrebbero fatto irritare e avrebbero procurato un fatale «sbalzo di pressione», probabile «concausa della rottura di un vaso sclerotizzato e intasato per giunta da un trombolo o da un embolo».
Ciliegia sulla torta, Nieddu avanza ripetutamente, e neanche tanto surrettiziamente, la tesi che quel buon uomo di Mussolini, ogni volta che poteva far qualcosa per aiutare il vecchio amico «di corrente», interventista come lui nel `14, la faceva in meno di ventiquattro ore, purché non si violassero leggi e regolamenti carcerari: il fascismo, è noto, è stata la massima espressione del legalitarismo, mentre da Nieddu gli Arditi del popolo vengono definiti «squadristi rossi».
Per sostenere tutte queste sciocchezze, l'autore deve volutamente ignorare i lavori di Spriano e Giuseppe Fiori, di Pistillo, di Vacca, di Giacomini, ecc. Deve ignorare soprattutto episodi e situazioni, fatti avvalorati da decine di testimonianze: dal ruolo di primo piano svolto da Gramsci a Torino nel «biennio rosso» a quello nel '23-'24 per la ricostruzione del «centro» antibordighista, dai tentativi per liberarlo dal carcere fascista che lo uccideva, dall'irrilevanza della nota lettera di Grieco del '28 ai fini processuali, alle problematiche condizioni di salute di Tania, che causarono alcuni periodi di lontananza dal recluso, all'indefessa opera di Sraffa, verso cui del resto Gramsci riponeva una fiducia senza limiti. Si tace delle persecuzioni carcerarie, dell'assistenza medica inesistente, dell'insonnia notturna indotta, prima che dai dubbi sugli amici, dalle ispezioni delle guardie in cella nel mezzo della notte. Insomma, per Nieddu carcerieri e assassini di Gramsci furono in primo luogo i suoi falsi amici, gli odiosi comunisti, russi o italiani che dir si voglia.
Un libro di fantasia, un romanzo di spionaggio da guerra fredda, anche se sicuramente meno avvincente dei capolavori di Le Carré? Più che altro - avrebbe detto Gramsci - un esempio di «lorianismo», di scempiaggine intellettuale, pur tanto utile alla creazione di un «senso comune» che deve essere portato a vedere in tutto ciò che sa di comunismo qualcosa di abietto, riprovevole e corrotto.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»