martedì 11 gennaio 2005

sinistra
Paolo Franchi ed Enrico Marro sul Corriere

Fausto Bertinotti

Corriere della Sera 11.1.05
Paolo Franchi su Bertinotti, in prima pagina

C'è stato un tempo, non lontanissimo, in cui tutti o quasi i dubbi e gli interrogativi, sotto l'Ulivo, riguardavano Fausto Bertinotti, e i mille problemi che avrebbe comportato la stipula, con Rifondazione comunista, di un patto per governare resistente e accettabile anche per gli elettori moderati. Poi di tutto questo si è parlato sempre meno. Perché l’epicentro della litigiosità si è spostato nella zona centrale dell’Alleanza. È perché Bertinotti ha il suo congresso. Un congresso molto difficile, in cui alla mozione del segretario se ne contrappongono ben quattro di opposizione. Ieri Bertinotti, che tutto è fuorché un acchiappanuvole, ne ha parlato in una bella intervista rilasciata, per l' Unità , a Simone Collini. E ha detto cose assai chiare, facendo ricorso a un lessico che, se questi aggettivi non lo offendessero, si potrebbe definire maggioritario e persino decisionista. Per cominciare: «Io non sono un segretario di sintesi», «il congresso decide con il 51%», un consenso più ampio è naturalmente ottima cosa ma non bisogna annacquare le scelte per guadagnarlo, perché «in ogni caso vale la democrazia». E dunque chi ha una maggioranza, anche risicata, su una linea politica deve guidare il partito su questa linea.
Questa maggioranza Bertinotti se la guadagna sul campo, prendendo di petto (prima di tutto con la scelta della non violenza) questioni identitarie cruciali per Rifondazione comunista e, nello stesso tempo, indicando una scelta netta, non negoziabile, per quella che una volta si chiamava (e sarebbe bene si chiamasse ancora) la prospettiva politica. Una scelta (attenzione) che non consiste necessariamente nell'ingresso al governo. «Una sola cosa non esiste: la desistenza. Bisogna lavorare per costruire un programma comune» per battere Berlusconi, replica agli oppositori, convinti invece che, con il centrosinistra, si dovrebbe cercare al massimo un accordo simile a quello (di desistenza, appunto) stipulato nel '96. Un accordo che valse a Romano Prodi la vittoria, certo, ma, due anni dopo, anche il licenziamento anticipato. Il suo congresso, è chiaro, Bertinotti lo vincerà. Lo sa lui, lo sanno i suoi avversari interni che, come tutta Rifondazione, di lui non possono fare a meno. E lo sanno pure Prodi e i partner riformisti dell'Ulivo. Che hanno tutti i motivi al mondo per esserne felici e contenti, meno uno. Perché i problemi veri si presenteranno proprio quando Bertinotti avrà raccolto, com'è giusto, i frutti di una battaglia dichiarata, combattuta e vinta. Cominceranno nelle famose primarie, che il leader di Rifondazione vuole come Prodi, ma per parteciparvi e per pesare attorno al suo nome la forza della sinistra più a sinistra. E si faranno più spinosi quando si tratterà di mettere a punto un programma che, avverte già ora Bertinotti, «non è un pranzo di gala, ma un processo politico, in cui c'è il consenso e c'è il conflitto». La partita è difficile. Ma la sua strategia e i suoi tempi Bertinotti li ha calibrati bene. Non sarebbe facile sostenere la stessa tesi a proposito di molti suoi interlocutori.

Corriere della Sera 11.1.05

Bertinotti a Monti: grazie ma alla concorrenza preferisco la programmazione
di Enrico Marro


ROMA - «Mario Monti, nell’editoriale pubblicato domenica dal Corriere della Sera, pone a Rifondazione comunista una domanda così precisa che merita una risposta altrettanto precisa».
Prego.
«L’ex commissario europeo - dice il leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti - domanda se il nostro partito "ritiene che nella politica della concorrenza si possano cogliere sufficienti meriti distributivi da giustificare il rigore che la politica della concorrenza deve avere". La risposta è no. Un no tanto fermo quanto cortese».
Perché no?
«In un certo senso la risposta è contenuta nello stesso articolo di Monti, quando dice che il potenziamento della politica della concorrenza dovrebbe essere il perno della politica di un governo che si consideri liberale. Vero, ma proprio per questo non può essere il perno di uno schieramento che si propone di essere alternativo a quello di centrodestra».
Solo questo?
«No. L’assolutizzazione della concorrenza in realtà produce un aumento delle contraddizioni nella società e la crisi della sua coesione. Vorrei capire in che cosa una corretta regolazione dei rapporti di competizione è in grado di affrontare il problema di chi, per esempio, si trova in una condizione di disoccupazione strutturale. Quindi dico no a Monti perché gli interessi tali da qualificare una società risultano esclusi o scarsamente influenzati da questa regolazione. Del resto è stata falsificata la tesi secondo la quale la concorrenza determina una efficiente allocazione delle risorse. L’Europa è diventata sempre più simile agli Stati Uniti, ma vive un declino».
Sta dicendo che è meglio la non concorrenza?
«No, che è meglio la programmazione. Il campo della concorrenza deve essere iscritto in un progetto di società in cui altri fattori debbono essere mobilitati per raggiungere questi obiettivi che la concorrenza non raggiunge».
Per esempio?
«È giusto regolare la concorrenza tra chi vende le acque minerali, ma questo non risolve il problema che tutti i cittadini del mondo e poi d’Europa e poi d’Italia dispongano del bene naturale dell’acqua. Per portare l’acqua in Sicilia ci vuole una mano pubblica».
Lei invoca la programmazione. Indichi anche un’esperienza storica dove questa sia stata un successo.
«Perché devo farlo? Io sto dicendo che dobbiamo provarci, perché veniamo da 15 anni di progressiva occupazione di spazi da parte del mercato e della concorrenza senza che questo abbia prodotto una rinascenza, ma un declino. L’assolutizzazione della concorrenza ha messo in scacco la politica. Non solo. Ha prodotto anche un dumping sociale che trascina verso il basso la condizione dei lavoratori. Detto questo, io penso che ci voglia l’Antitrust e che debba essere forte e autonoma».
Che giudizio dà della presidenza dell’Antitrust di Giuseppe Tesauro che sta per concludersi?
«È stato bravo. Il suo bilancio è significativo. Sono preoccupato perché queste esperienze rischiano di essere travolte da una logica di riduzione dell’autonomia attraverso una dilatazione dello spoils system che alla fine porta a un grande monocolore dell’esecutivo».
Lei chi vedrebbe bene come successore di Tesauro?
«Se lo dicessi gli farei del male. Quello che invece voglio dire è che il sistema attuale di designazione non va bene perché è erede di una condizione dove i presidenti delle due Camere erano uno espressione della maggioranza e l’altro dell’opposizione mentre oggi non è più così».
E quindi?
«A me piacerebbe, per un gentlemen’s agreement, che ogni maggioranza attribuisse a personalità interne all’opposizione la presidenza delle maggiori Autorità, sicuramente quella dell’Antitrust e quella delle Comunicazioni».