martedì 11 gennaio 2005

citato al lunedì: fecondazione
il prof. Severino contro il prof. Reale

L'ARTICOLO DI SEVERINO DEL 6.11 È STATO CITATO AL LUNEDI

Nel giorno in cui il Corsera pubblica la notizia che il Governo ha deciso di chiedere alla Corte costituzionale di proibire il referendum sulla fecondazione, il giornale pubblica a pagina 10 due opinioni filosofiche contrapposte sull'embrione, quella del filosofo cattolico Giovanni Reale, e quella di Emanuele Severino. Dal momento che entrambi prendono le mosse da un altro articolo di Severino, apparso il 1 dicembre 04. Lo ri-pubblichiamo dunque per primo.

Corriere della Sera 1 dicembre, 2004
L'EMBRIONE E IL PARADOSSO DI ARISTOTELE
di Emanuele Severino


È di domenica la notizia che la Svizzera approva la ricerca sulle cellule staminali umane tratte dagli embrioni soprannumerari. E tra poco in Italia si aprirà la discussione su questo problema relativamente al referendum sull’uso delle cellule staminali. È allora il caso di avviare, con calma, la riflessione su questa importante e delicata questione. Molti sostengono che l’embrione è un essere umano. Ma, al di là delle intenzioni, la loro logica - se vuol esser coerente ai propri princìpi - spinge ad affermare che l’embrione non è un essere umano. Lo si può scorgere in base a un «argomento» decisivo, che non è mai stato preso in considerazione e che indico qui per la prima volta, con la speranza di farmi capire. Si crede comunemente che uomini e natura siano capaci di realizzare infinite opere e cose. Il bambino è capace di diventare adulto; l’alba è capace di diventare giorno. Alcuni secoli prima di Cristo il pensiero filosofico ha dato una interpretazione tale, del senso della capacità , che è rimasta alla base di ciò che l’uomo ha poi compiuto in ogni campo: politico, religioso, economico, artistico, giuridico, scientifico, culturale.
Con Aristotele è prevalso il principio che la capacità esiste anche prima di essere esplicata o messa in pratica. Un corpo è capace di cambiar luogo anche prima che lo cambi o che glielo si faccia cambiare; un bambino è capace di diventare adulto anche prima che lo divenga effettivamente. Aristotele ha chiamato «potenza» la capacità così intesa, e di una cosa capace di essere o di fare qualcosa ha usato dire che essa è «in potenza» tale essere o fare. Provi la scienza, o il cristianesimo (e tutto il resto), a compiere un solo passo prescindendo dal concetto aristotelico di «potenza».
Che l’embrione prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna sia essere umano in potenza - ossia qualcosa che in condizioni «normali» ha la capacità di diventare un essere umano - è un principio accettato sia da coloro che sostengono, sia da coloro che negano che l’embrione sia già un essere umano. I due opposti schieramenti si scontrano infatti in relazione a un ulteriore carattere della «potenza».
Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione sia un esser-già-uomo , ma, appunto, un esserlo già «in potenza». Gli altri intendono che l’embrione, sebbene sia «in potenza» un essere umano, sia tuttavia un non-essere-ancora-uomo . In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì, è omicidio - e questo primo caso esprime la compiuta concezione aristotelica della «potenza». Ma nel secondo caso ci si limita ad esprimere un dogma, o una tesi scientifica, che, appunto perché scientifica, non può essere più che un’ipotesi sia pure altamente confermata. Ciò nonostante la Chiesa fa dipendere dalle ipotesi della scienza quella che dovrebbe essere la verità assoluta, cioè non ipotetica, del proprio insegnamento. In favore del carattere umano dell’embrione suona invece il principio che il suo esser uomo «in potenza» è il suo esser-già-uomo , sebbene, appunto, «in potenza». E se già un modo di esser uomo, la sua soppressione è un omicidio.
Sennonché, quanti sostengono il carattere umano dell’embrione sostengono anche che il processo che conduce dall’embrione all’uomo compiutamente esistente (uomo «in atto», dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico , ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che «ciò che è in potenza è in potenza gli opposti». Questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto , allora, proprio perché «lo può» (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non-uomo , cioè qualcosa che uomo non è. E siamo al tratto decisivo del discorso (che andrebbe letto al rallentatore). L’embrione - si dice - è in potenza un-esser-già-uomo . Ma, si è visto, proprio perché è «in potenza» uomo, l’embrione è in potenza anche non-uomo. Pertanto è in potenza anche un esser-già-non-uomo . È già uomo e, anche, è già non uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente.
Proprio per questo, l’embrione non è un esser uomo . Infatti - anche per coloro che pensano alla luce dell’idea di «potenza» - l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo. Se un colore è insieme un rosso e un non-rosso, tale (mostruoso) colore non è il color rosso. Analogamente, se l’embrione è, in potenza, quell’esser già uomo che è necessariamente unito all’esser già non-uomo, ne viene che l’embrione non è già un uomo - non è cioè quell’esser autenticamente uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo. Questo autentico esser uomo non è pertanto «contenuto» nell’unità potenziale dell’esser uomo e del non esser uomo: così come lo scapolo - l’uomo che non è unito a una donna - non è «contenuto» nell’ammogliato - cioè nell’uomo che invece è unito a una donna.
Non essendo, l’uomo, «contenuto» nell’embrione, non si può quindi dire che sopprimendo l’embrione si uccide l’uomo. Sia pure inconsapevolmente, ad affermare che l’embrione non è un essere umano, e che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è omicidio, son dunque proprio coloro che dell’embrione, alla luce dell’idea di «potenza», intendono essere gli amici più fedeli.

Corriere della Sera 6.1.05
L’embrione va difeso, è vita
Lo ha spiegato anche Aristotele
di Giovanni Reale


Emanuele Severino su questo giornale ha pubblicato un articolo dal titolo L'embrione e il paradosso di Aristotele , discutendo filosoficamente il problema sull'uso delle cellule staminali con alcune sue implicazioni e conseguenze di carattere metafisico e morale. L'articolo ha suscitato molto interesse, ma nello stesso tempo grandi perplessità e, in effetti, richiede una serie di precisazioni. Severino imposta il suo ragionamento sulla celebre dottrina aristotelica della "potenza" e dell'"atto". In potenza, secondo lo Stagirita, è ciò che ha in sé determinate caratteristiche con la connessa capacità di realizzarle, ossia di diventare di conseguenza un essere in atto. L'embrione (l'ovulo fecondato dallo sperma) ha in sé la capacità strutturale di diventare uomo e, quindi, è in potenza uomo.
Proprio partendo da tale concezione si sono formati due schieramenti fra di loro in netta antitesi. Infatti, alcuni intendono l'essere in potenza dell'embrione un "essere-già-uomo", altri lo intendono, invece, come un "non-essere-ancora-uomo". Per i primi, di conseguenza, la soppressione dell'embrione andrebbe considerata come una sorta di omicidio, per i secondi, invece, non potrebbe considerarsi tale, in quanto l'embrione è, sì, potenzialmente uomo, ma "non-è-ancora-uomo". Severino dà torto ai primi e ragione ai secondi, ritenendo questi ultimi "amici più fedeli" della teoria aristotelica della potenza e gli altri molto meno amici di essa. Egli ha in parte ragione, ma nel nucleo centrale del suo ragionamento cade in errore, come subito vedremo.
Ha ragione nel ritenere errato affermare - come qualcuno fa - che l'embrione sia un uomo (addirittura persona) già in atto e che siano, in potenza, solo le varie caratteristiche particolari dell'uomo che si attueranno nel corso dello sviluppo. In effetti, nell'embrione risulta essere in atto solo la struttura e, quindi, il progetto formale, che richiede una sua attuazione ontologica. Pertanto l'embrione è uomo appunto come "potenza" - sia pure in senso forte - ma "non-ancora-in-atto". Per poter affermare che l'embrione è già un uomo in atto, occorrerebbe capovolgere una delle strutture di base della metafisica aristotelica. (Si cadrebbe, in qualche modo, in quella posizione dei Megarici - i quali, ispirandosi all'ontologia eleatica, negavano la possibilità di distinguere la potenza dall'atto - che Aristotele espressamente confuta).
Severino ha invece torto (dal punto di vista della vera e propria dottrina aristotelica della potenza e dell'atto) quando afferma che, «se l'embrione può diventare un uomo in atto, allora, proprio perché "lo può" (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non uomo, cioè qualcosa che uomo non è». In realtà, è contrario al pensiero dello Stagirita affermare che nell'embrione sia contenuta a un tempo la possibilità di essere "uomo" e "non-uomo". È contenuta la possibilità di diventare uomo e anche quella di non diventare uomo, morendo prima di nascere, ma non è affatto contenuta quella di diventare un "non-uomo" (per esempio un qualsiasi altro tipo di essere vivente). Per giustificare la propria tesi, Severino fa richiamo all'affermazione di Aristotele, secondo cui «ciò che è in potenza è in potenza gli opposti». Ma, con tale affermazione, Aristotele fa riferimento non a caratteri essenziali, ma a caratteri accidentali; non alla sostanza o sostrato, ma a caratteri che ineriscono o che comunque si riferiscono alla sostanza: «Tutte le cose che si dicono essere in potenza sono, ciascuna, in potenza ambedue i contrari: per esempio, ciò, di cui si dice che può essere sano, è quel medesimo soggetto che può anche essere malato ed esso ha la potenza di essere malato e di essere sano allo stesso tempo. Infatti, la potenza di essere sano e malato è la medesima e, così, anche quella di essere in riposo e in movimento e quella di costruire e abbattere, di essere costruito e di essere abbattuto». Il soggetto cui si riferiscono tali caratteristiche (appunto la sostanza) rimane identico.
Il concetto di "potenza" non è certamente "deterministico" - come Severino dice giustamente - però non ammette deviazioni in senso formale e sostanziale. Aristotele precisa con chiarezza che ciò che si dice essere in potenza non può de iure non attuarsi in ciò di cui si dice essere in potenza; tuttavia, può non attuarsi di fatto, ossia empiricamente per ragioni contingenti (quindi, de iure, l'embrione non può non attuarsi come uomo). Le sue parole sono inequivocabili: «Una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui è detta avere potenza non implica alcuna impossibilità» (nessuna impossibilità strutturale).
Di conseguenza, non regge la seguente conclusione che Severino trae: «Non si può quindi dire che sopprimendo l'embrione si uccide l'uomo». Infatti, sopprimendo l'embrione, si elimina la possibilità dell'attuazione di quell'essere potenziale di uomo incluso nell'embrione. Una precisazione va - a mio giudizio - in ogni caso fatta, ossia che quanto detto vale in modo particolare per l'embrione già situato in loco. Aristotele stesso chiarisce in maniera ben precisa la sua convinzione: «Le cose che hanno in sé il principio della generazione saranno in potenza per virtù propria, quando non vi siano impedimenti dall'esterno. Lo sperma, ad esempio, non è ancora l'uomo in potenza, perché deve essere deposto in altro essere e subire mutamento; invece quando, in virtù del principio suo proprio, sia già passato in tale stadio, allora esso sarà uomo in potenza».
Molti si sono stupiti che Severino faccia appello alle figure teoretiche della potenza e dell'atto, che non rientrano nel quadro categoriale parmenideo del suo sistema. Infatti, la dottrina della potenza e atto porta alle conseguenze estreme il "parricidio di Parmenide" iniziato da Platone (da lui presentato nel Sofista sotto la maschera del personaggio chiamato "Straniero di Elea") che si fonda su una concezione polivoca dell'essere, ossia sull'esistenza di differenti forme di essere. Ma, nell'articolo di cui discutiamo, Severino - per dirla con una metafora - "gioca fuori casa". Assume, cioè, figure tipiche della filosofia aristotelica diventate ormai un patrimonio della communis opinio . E proprio in questo gioco drammaturgico non assume quel rigore e quella coerenza che manifesta quando "gioca in casa", che è una dote di pochissimi filosofi. Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa (negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte) però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con N. Gòmez Dàvila io penso che «la coerenza di un discorso non è prova di verità, ma solo di coerenza. La verità è somma di evidenze incoerenti» come la vita e la morte, l'essere e il non essere, il bene e il male.
Il mistero della vita e della morte costituisce un limite invalicabile per il pensiero razionale (sia per la scienza, sia per la filosofia). H. G. Gadamer diceva, giustamente, che per noi che siamo «viandanti sul confine fra l'al di là e l'al di qua» «soltanto i messaggi religiosi concedono la possibilità (...) di uno sguardo ulteriore» ossia di vedere qualcosa al di là della pura ragione. Con Sergio Quinzio sono convinto che «la verità cristiana può ancora inghiottire tutte le mezze verità del mondo» sia quelle filosofiche sia quelle scientifiche.

Corriere della Sera 6.1.05
No, secondo il pensiero occidentale definirlo così è contraddittorio
Il concetto di «potenza» secondo lo Stagirita costringe a negare che l’embrione sia un essere umano, sia pure potenziale
di Emanuele Severino


L’embrione è un essere umano? Il mio articolo sul Corriere NON intendeva mostrare come a questa domanda risponde il mio discorso filosofico. (Ho scritto più volte che la soppressione di ogni forma di vita umana è omicidio). Che cosa intendevo mostrare, allora, in quel mio articolo? 1) Che, al di là delle intenzioni di chi accetta il concetto aristotelico di «potenza», tale concetto costringe a negare che l’embrione sia un essere umano, sia pure potenziale; 2) Che tale costrizione sussiste perché il concetto stesso di «potenza» è contraddittorio, assurdo. La tesi è tutt’altro che familiare (ovvio che di primo acchito non la si capisca e la si rifiuti) e ha vaste implicazioni, perché il pensiero filosofico greco è il terreno in cui cresce l’intera storia dell’Occidente (cristianesimo incluso) e al centro del terreno appartiene appunto la riflessione di Aristotele sul senso della «potenza». Una gigantesca incoerenza guida dunque la nostra civiltà, che tuttavia, per essere potente, non ha bisogno né della verità, né della coerenza. Tutto questo molti non l’hanno capito. Al Corriere sono arrivate centinaia di e-mail; Giuliano Ferrara è intervenuto due volte sul Foglio , due volte il professor A. Pessina su l’ Avvenire . Ma con quell’articolo ha a che fare anche un recente testo della Commissione di bioetica dell’Accademia dei Lincei inviato a noi membri. Enrico Berti - uno dei nostri maggiori interpreti di Aristotele e cattolico - ha mandato una lettera al Corriere . Potrei continuare.
L’equivoco maggiore si è prodotto tuttavia a proposito dell’espressione, da me usata, «esser-già-uomo in potenza». Per Aristotele, ciò che è uomo in potenza è già un uomo, ma, appunto, lo è in potenza. Un gran numero di lettori (Ferrara compreso) ha replicato richiamando l’insegnamento della Chiesa che l’embrione è «uomo in atto» sin dal momento della fecondazione dell’ovulo della donna. Tuttavia la Chiesa, e i suddetti lettori, riconoscono che l’embrione non parla, non ragiona, non costruisce case, ecc. Ossia riconoscono che l’embrione è, in potenza, uomo «adulto». Ma che altro vuol dire l’espressione «essere-già-uomo in potenza» se non, appunto, che l’embrione è in potenza un adulto, cioè un essere che ha sviluppato le sue facoltà umane? Non aveva forse detto, il mio articolo, che secondo Aristotele l’essere in potenza uomo non significa «non essere ancora un uomo» (come invece accade, sul piano filogenetico nell’interpretazione evoluzionistica del concetto di «uomo-in-potenza», ma significa esser già uomo (che tuttavia che deve ancora sviluppare, cioè rendere attuali le proprie potenzialità)? E «ogni potenza - dice Aristotele (Metaph., IX, 8 ) - è insieme potenza di ambedue i contrari» (trad. G. Reale) «Ogni» potenza: non solo ciò che ha in potenza proprietà accidentali opposte, ma anche ciò che, non esistendo ancora, può diventare come non diventare una sostanza.
Ma è a questo punto che incomincia l’«argomento decisivo» (e certamente inedito) accennato nel mio articolo. Ne richiamo il senso centrale (invitando a rileggere il suddetto articolo). L’uomo che è in potenza adulto è già un uomo ma è anche già un non-uomo , perché, secondo Aristotele, invece di svilupparsi potrebbe morire ( e non perché - lo dico anche a Berti - possa diventare un gatto o una locomotiva). Un essere in potenza, e cioè un che di contraddittorio, di impossibile, di assurdo. Lo è l’embrione, ma lo è qualsiasi essere in potenza. Il concetto di «potenza» è un grandioso costrutto teorico della follia. Il divenire del mondo deve essere reinterpretato al di fuori della categoria della «potenza».
Ma, intanto, gli amici della «potenza» e dell’embrione debbono riconoscere che, proprio perché è qualcosa di contraddittorio, l’embrione non può essere né può diventare quell’esser uomo che per costoro è invece un ente incontraddittorio (questo discorso non va confuso, come invece lo è stato, con la banale ed errata critica al concetto di «potenza», per la quale sarebbe contraddittorio essere in potenza uomo, e non esserlo in atto), e debbono riconoscere che la soppressione dell’embrione non è omicidio.
Berti - per il quale «l’embrione è certamente uomo in potenza» - condivide sostanzialmente, mi sembra, quanto ho scritto sul concetto aristotelico di potenza. (Aspetto però che si pronunci sulla tesi della contraddittorietà di tale concetto). Si aggiunga che per Aristotele lo sperma deve esser deposto in altro», cioè nell’utero della donna, e che solo «allora esso sarà l’uomo in potenza» (Metaph., IX, 7). Un ente unitario che sia uomo in potenza, e che non può essere sperma e ovulo separati, ci deve pur essere da qualche parte, perché altrimenti non potrebbe mai realizzarsi l’uomo in atto. (Ci pensino i critici come il prof. Pessina).
Su san Tommaso la chiesa fonda buona parte del proprio pensiero filosofico-teologico. Ma egli ritiene che per Aristotele esser uomo in potenza significhi essere animale in atto, e condivide pienamente questa tesi: «Nel tempo il feto è animale prima di essere uomo» (prius tempore est fetus animal quam homo ) e pertanto «il corpo umano... che precede temporalmente l’anima... non è umano in atto, ma solo in potenza» (Summa contra gentiles, II, capp. 86-89). Su questi punti la chiesa ha preso le distanze da Tommaso; ma si tratterebbe di vedere con quanta coerenza. Comunque, problemi non miei, questi, ma degli amici della «potenza».