martedì 8 marzo 2005

LAURA LOMBARDO RADICE INGRAO

Sull'Unità di lunedì 7 marzo, per l'uscita del libro di CHIARA INGRAO
"Soltanto una vita", c'è una bella pagina dedicata a LAURA LOMBARDO RADICE
INGRAO moglie di PIETRO scomparsa nel 2003 (l'Unità pag.22 - Orizzonti)
una segnalazione di Dina Battioni


L'Unità 07 Marzo 2005

Laura Lombardo Radice
Soltanto una comunista

Un padre e un marito celebri
un’identità, a cominciare dai nomi
«errante», ma una donna salda
e fortissima. In un libro
il percorso e la scelta di vita
di una protagonista
Chiara Ingrao

«Le donne della Resistenza»: subito si pensa alle partigiane del Nord, sulle montagne - o alle «gappiste» di città, che nei Gruppi di Azione Patriottica (i GAP, appunto), affrontarono i nazisti in prima persona. Donne combattenti, spesso arrestate, torturate, fucilate…
Martiri, ma non solo. Donne che spararono, e uccisero (...). Donne come Carla Capponi, dunque, messe su un piatto della bilancia (in nome della «riconciliazione nazionale», si dice); mentre sull’altro si mettono, tranquillamente, i «ragazzi di Salò», che combatterono per Hitler. Due scelte che si vorrebbero in equilibrio, dello stesso peso. E una parola sanguinosa, guerra civile, a dare il nome a quella bilancia: a cancellare per sempre, si spera, l’orgoglio di quella parola fondante, per la nostra identità e la nostra storia - Resistenza.
Ma che cosa fu, questa Resistenza, di diverso da una guerra civile? Gli uomini e le donne della Resistenza, chi furono? «In base al Decreto Legge luogotenenziale 21/08/1945 n. 518», scrive Giorgio Giannini, «è considerato “partigiano combattente” solo chi ha fatto parte di una formazione partigiana ed ha partecipato ad almeno tre operazioni armate. (…) Pertanto, non è considerata “vera Resistenza” l’attività non armata svolta, sia a livello individuale che collettivo, al di fuori delle formazioni partigiane. Questa distinzione (…) ha comportato una vera e propria “militarizzazione della Resistenza”».
(...) Forse, dovremmo raccontare anche altre storie, per spiegare il nesso inscindibile fra Resistenza e Costituzione: storie non di scontri a fuoco, ma di disubbidienza civile e di boicottaggio, di stampa clandestina e di scioperi, di assistenza ai perseguitati, di quella che mia madre ha chiamato «una funzione di legalità reale contro l’illegalità imperante».
Ma non è semplice, e non solo perché viviamo assordati da una cultura di guerra. Non è semplice perché loro stessi - loro stesse - che di quella Resistenza nonviolenta erano state protagoniste, ce l’hanno raccontata solo raramente, con voce sommessa; mentre coltivavano come un dovere indelebile la memoria di altri eroismi, di altre scelte.
Per mia madre (...) fu soprattutto Giaime. La sua morte, saltato su una mina nel tentativo di varcare le linee del fronte. Il suo messaggio, l’ultimo - un imperativo etico, più che politico.
È uno dei documenti più noti della Resistenza, quella lettera di Giaime al fratello minore (...) Solo oggi, ora che lei non c’è più, ho scoperto in mia madre un altro ricordo, ben più intimo e bruciante, sull’amico perduto… «Giaime era venuto a salutarci a casa nostra, la sera prima di partire: sarà stato il 9 o il 10 settembre. Lucio era ammalato, non lo incontrò; ma io sì, e ricordo che gli dissi: «Ah! vai a Napoli, incontrerai gli alleati e a noi ci dimentichi! Ricordati di noi!» Poi mi è rimasta l'angoscia di dire: è morto per tornare da noi…»
(...) Ancora oggi, giorno dopo giorno, sullo stesso comò della camera di mia madre, dove è sempre stata, ritroviamo la stessa foto: Giaime in divisa, Giaime che aveva vent’anni. Giaime immobile, in posa; mentre è in movimento, e continua a inseguirci da allora, quell’altra immagine in bianco e nero, straziante, che fu l’icona di quella guerra, di tutte le guerre. Una donna corre, con il braccio alzato, tesa a inseguire inutilmente una camionetta di armati. Grida forte, più volte. Poi cade a terra, falciata da una raffica.
È Anna Magnani, naturalmente. È Roma città aperta, di Rossellini; ma non è solo un film, per noi. Perché mia madre era lì. Lei la vide cadere, quella donna. Si chiamava Teresa Gullace, ed era madre di cinque figli. Non inseguiva una camionetta; stava cercando di passare un pacchetto (uno «sfilatino», come si dice a Roma, di pane e formaggio), al marito rinchiuso nella caserma di viale Giulio Cesare, insieme ad altri 2000 uomini rastrellati dai tedeschi. O forse no. (...) Di quella giornata, il 3 marzo del 1944, circolano tante versioni diverse, e non tutte coincidono: nella folla che premeva, ognuno ha visto solo pochi fotogrammi, di quel film. Ognuno, da allora, ha filtrato il ricordo con il suo carico di emozioni, di paura.
Laura non poteva permetterselo, di avere paura. Era lì non come parente di un «rastrellato», ma per lavoro politico. Come responsabile di zona del lavoro fra le donne, aveva raccolto più compagne possibili, per unirsi alla protesta: alcune anche giovanissime, come la diciottenne Adele Maria Jemolo, fidanzata di Lucio. Furono loro, Laura e Adele Maria, insieme a Marcella Lapiccirella che era incinta, e dopo pochi giorni perse il bambino, a deporre per prime i fiori sulla macchia di sangue; loro a contattare per prime la famiglia, a portare aiuti; loro a organizzare una nuova manifestazione nel pomeriggio, a far circolare le informazioni in città.
«Avevo appuntamento con Pietro», scriverà Laura a Giorgio Amendola nel 1972, «in una trattoria a via Lucrezio Caro, per dare il resoconto della manifestazione. Quando raccontai quel che era successo, Pietro mi fece scrivere un manifestino (ricordo che andammo su una panchina a piazza Cavour per buttarlo giù) e poi lo portò a stampare mentre io tornavo a viale G. Cesare. Questo manifestino esiste, l’ho visto a una mostra su Le donne e la Resistenza alla vecchia Casa della cultura, in via Colonna Antonina, alcuni anni fa. Ebbe molta diffusione. Una mia conoscente, abitante oltre la Piramide, mi disse alcuni giorni dopo: “Sai che questi alleati sanno proprio tutto di noi? Hanno buttato con gli aerei un manifestino col nome della donna ammazzata e tutta la storia!”».
Noi lo sappiamo, che non erano gli alleati, a sapere. Erano loro, Laura e Marcella e Adele Maria, e con loro le donne e gli uomini inermi, pressati fra mani che si protendono, fra corpi affannati che si accalcano uno sull’altro, nel tentativo di far sentire una voce, o di raggiungere le sbarre per far passare uno sfilatino… Loro la conoscevano, la verità di quel 3 marzo: che non si può, non si potrà mai definire «guerra civile», quella in cui da una parte si impugna il mitra, e dall’altra uno sfilatino.

in sintesi
Maria Serena Palieri

«La firma di mia madre è cambiata più volte, nel corso del tempo. Per anni, dopo il matrimonio, ha scelto di chiamarsi Laura Ingrao; poi, a partire dagli anni ’80, di nuovo spesso Lombardo Radice, o Lombardo Ingrao, o persino Laura Ingrao (Lombardo Radice). Come se, al momento di definirsi, le riuscisse davvero difficile, scegliere tra il cognome del marito e quello del padre. Nei cognomi, a noi donne non è data altra scelta». Scrive così Chiara, figlia terzogenita di Pietro e Laura Ingrao, nell’introdurre «Soltanto una vita», il libro (in uscita domani per Baldini Castoldi Dalai, pagg. 371, euro 18) nel quale, assemblando scritti della madre morta novantenne nel 2003 ricostruisce la sua fortissima figura. La Laura che ci racconta la figlia Chiara è stata la figlia di due pedagogisti, Giuseppe Lombardo Radice e Gemma Harasim, e soggetto in vitro, nell’Italia fascista, con la sorella Giuseppina e il fratello Lucio (il futuro matematico) dei loro esperimenti libertari; membro, nella Roma degli anni Trenta, di un gruppo di amici che stavano convertendosi al comunismo, Aldo Natoli, Paolo Bufalini, Mirella De Carolis, Giaime e Luigi Pintor, Mischa Kamenetzky (Ugo Stille); giovanissima insegnante a Chieti; dal ’39 attiva in prima persona nella cospirazione clandestina; dal ’42 compagna, oltreché di cospirazione, di affetti, di Pietro Ingrao - e l’amore durerà sessant’anni; dal ’45 madre di una teoria di figli (Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido); dal dopoguerra militante del Pci alla luce del sole, con un marito che cresce come leader; professoressa democraticamente appassionata, tra le poche e i pochi a sfilare in corteo coi suoi studenti nel Sessantotto; donna cresciuta nell’idea - lineare - di emancipazione e messa in qualche tormento dal femminismo degli anni Settanta; poi moglie del primo presidente comunista della Camera; dagli anni Ottanta approdata al suo ultimo amoroso impegno con quelli che chiamava «i miei assassinetti», insegnante volontaria nel carcere di Rebibbia; dai Novanta malata (e la figlia ci racconta la malattia e il declino come capitoli di una vita). Questo volume - che è un forziere di spunti - ci sembra - l’idea a chi c’era non sembrerà macabra - una ideale prosecuzione del rito laico col quale nel 2003 nel Tempietto Egizio a Roma si disse addio a Laura. Figli e nipoti, lì, ce la raccontarono, in una specie di struggente ricordo polifonico. Questo è il seguito. Con una scoperta: che meravigliosa penna avesse, Laura Lombardo Radice Ingrao. Come nell’inedito che pubblichiamo, cronaca di una tragica giornata del 1944 che è diventata cinema, ed è diventata l’emblema di quella guerra. Cronaca dal vivo: perché Laura, lì, c’era.

Cronaca di una tragedia diventata cinema
Laura Lombardo Radice

Senza un grido, solo alzando un po’ il braccio, goffamente, la donna cadde in avanti sul selciato. Il viso sul selciato, il ventre informe schiacciato sul selciato, il cappotto consunto, le calze strappate, il viso, i capelli colore del selciato. Una cosa. Un pezzo di quella terra cittadina opaca nel mattino nuvoloso. Un rigo di sangue le scivolava dalla bocca al mento; gli occhi erano rimasti aperti, fissavano come per interrogare.
La caserma piena, gonfia di uomini razziati, che pareva trasudare, dalle crepe verdastre dell’intonaco, il loro inquieto ansare di bestie in gabbia; gli alberi nudi del viale, le facce torve dei militi, rigidi e impacciati nelle uniformi nuove, gialle come pus; la folla di donne mal vestite, già spettinate, arrochite, sfatte nella esasperata attesa - tutto restò per un attimo immobile, come uno scenario, intorno alla donna morta. Poi subito, tutto si squassò, tutto fu solo un grande urlo, una convulsione d’orrore.
L’orrore correva dalle finestre della caserma, dove gli ingabbiati si pigiavano frenetici, al marciapiede affollato, di fronte; e si torceva in gridi sempre più alti.
Il marciapiede dal lato della caserma, tenuto sgombro, come il centro della via, dai militi stravolti, segnava una pausa esterrefatta fra le due immani desolazioni.
In quella pausa passò il tedesco. Aveva i capelli e le ciglia di un biondo quasi bianco, bianchissime le guance e il collo che usciva sottile dalla divisa nera. Saettò, era in motocicletta, due volte su e giù per il viale, la pistola alzata, puntata contro la folla femminile. Magro, lungo, aguzzo, con quella sua ostentata indifferenza, aveva qualcosa di astratto, di fantomatico. Era il tedesco, il massacratore, il criminale di guerra. Sottolineava, con quel suo aggirarsi sul luogo dove la donna italiana era stata uccisa dal fascista italiano, il perché di tutto quel male. Era un oscuro simbolo, il nero vessillo dell’occupazione.
Non così i fascisti. La folla femminile premeva su di loro, pugni di donne si alzavano contro i loro visi, contro le mostrine lucide, nuove, contro gli «Emme» lampeggianti.
Voci di donne, dopo il primo grido inarticolato, urlavano ora accuse martellate; voci di donne li inchiodavano al giudizio inesorabile del popolo. Qualcuno tentò di puntare il fucile sul petto delle più accese; smise subito, gli tremava la canna fra le mani.
La morta era ancora lì. Le donne cominciarono a comunicarsi quel che sapevano di lei, dei suoi cinque figli, del marito che era lì anche lui, alla finestra della caserma, e guardava. Le lamentazioni si levavano alte, insieme alle esecrazioni; era un coro violento, a strappi, intriso di lagrime. Arrivò un camioncino, caricò il cadavere: il marito fu portato giù, caricato anche lui.
Sull’angolo del marciapiede era restato un gran grumo di sangue. Le donne si misero tutte intorno, come a difenderlo; sangue di madre, sangue santo! Gridavano col dito teso, verso la macchia, minacciose.
E quasi subito, ci furono i fiori. La prima fu una ragazza: non aveva nessuno nella caserma, era venuta sul viale con qualche compagna, per unire la sua alla protesta delle donne romane; per vedere se si poteva fare qualcosa per salvare quegli uomini schiavi. Corse via un momento, tornò con un gran ramo roseo di mandorlo, lo posò sul grumo, in silenzio. Molte altre fecero lo stesso.
Sul grigio dell’asfalto, sotto il nuvolo insistente, quei fiori, mimose, anemoni, garofani, furono l’unica cosa viva, squillarono di rosso, di violetto, di giallo.
Un altare alla martire, sotto gli occhi dei carnefici; era una promessa e una sfida.
Più tardi - durava nell’aria del pomeriggio quella luce uguale, sfocata - Francesco il Gap, facendosi largo con un suo gestire spicciativo tra la folla femminile, che continuava a urlare, stendeva a terra, con tre colpi di revolver, tre militi della squadra di rinforzo. Cominciò la sarabanda degli spari e gli urli ebbero altro suono, di vendetta e di vittoria: il tumulo straripò nelle traverse, riempì il quartiere, dilagò nella città ignara. Nel viale, improvvisamente vuoto, scalpitarono i grossi cavalli degli agenti, sferragliarono velocissimi i tram, senza fermare.
Sulla pietra livida, immobili nella raffica, i tre corpi dei giustiziati, accanto al gran mazzo primaverile raccontavano la storia essenziale di quella giornata di lotta.

(probabilmente inedito, 1944)