martedì 8 marzo 2005

sinistra
Fausto Bertinotti, dopo il Congresso

Corriere della Sera 7 marzo 2005
Bertinotti doma il partito
«Non regalo Palazzo Chigi ai padroni»
«Non è da me alzare la voce ma ci voleva Dovevo frenare la deriva militarista di una parte di Rifondazione»
Aldo Cazzullo


VENEZIA - Segretario, guardi che ha le vene del collo molto gonfie. «Lo so, non mi succede mai. Però ci voleva». È ancora tutto rosso, più della bandiera sul palco. «Non è da me alzare la voce, è vero. Ma ne valeva la pena». «Sono trent’anni che conosco Fausto Bertinotti e non l’ho mai visto così arrabbiato» dice Ritanna Armeni, ex portavoce. «Un discorso di altissimo livello politico, culturale e morale» si incanta Elettra Deiana, parlamentare spesso critica. «No, per una volta non ha volato alto, è sceso al livello dei suoi avversari, e ha fatto benissimo» si sfoga Lella Bertinotti, moglie. Era proprio il caso? «Ci ho pensato per tutta la giornata di ieri - risponde lui, ancora accaldato, quasi inelegante, in camicia, le maniche arrotolate, le macchie sotto le ascelle -. Ho deciso ieri notte, prima di addormentarmi. Concludere il congresso con un intervento solo politico sarebbe stato inutile e pericoloso. Bisognava frenare la deriva militarista di una frazione del partito. Ho avvertito il rischio drammatico di una corruzione delle coscienze. Qualcuno doveva dire alla maggioranza di Rifondazione di sottrarsi a tutto questo; e toccava a me farlo».
Dopo tre giorni di attacchi, critiche, sarcasmi, in cui gli oppositori hanno fatto a gara nel dirla ogni volta più greve, più aggressiva, più sprezzante, Bertinotti si è ripreso il partito. Per due ore ha picchiato sulle due cose che gli stavano più a cuore: la scelta della nonviolenza e l’accordo con l’Ulivo. Ha usato scientemente un linguaggio a tratti estremo, spingendosi a bordolinea, sino ai limiti delle sue convinzioni, pur di far passare una strategia che quasi metà partito considera moderata, imbelle, destrorsa. Si è giocato la partita nei passaggi decisivi su Iraq, Palestina, Prodi. Prima la concessione alla platea: «La resistenza è accettata in tutti i codici di guerra». Poi la svolta, gridata con il volto purpureo: «Ma io mi rifiuto di accostare Giovanni Pesce, la medaglia d’oro partigiana, che è come fosse mio padre, a chi voleva assassinare Giuliana Sgrena in quanto imperialista!». Quanto a Sharon, «io non dimentico Sabra e Chatila. Rispetto il sacrificio dei martiri che si fanno esplodere». Poi la virata, in un vortice di erre: «Ma è la trattativa con Sharon che farà nascere la Palestina!». Governista, gli hanno detto. «Governista a chi? Vi ricordo che sono stato io a rompere con Prodi». Ma «stare con gli operai non significa regalare sempre il governo ai padroni!».
Al Lido di Venezia Bertinotti ha concluso il percorso iniziato a Genova, dopo la morte di Carlo Giuliani. Quel giorno, al tramonto, aveva arringato una folla furibonda, nella spianata tra il Palasport e il mare. L’aveva blandita, anche allora in maniche di camicia, ne aveva assecondato la rabbia, ma l’aveva riportata dentro i confini (che quel giorno erano stati ampiamente violati) della legalità e della ragionevolezza. A Genova Bertinotti vide un rischio e si mosse per evitare guai peggiori. A Venezia ha preso il più rozzo tra gli interventi in dissenso, quello di Gianluigi Pegolo, con la sua apologia della violenza, e l’ha smontato in un crescendo di indignazione che strideva con le parole ireniche - campagna, pace, danza, amore, ballo, mutamento, canto, poesia, filosofia - proiettate sul maxischermo alle sue spalle. «Ho sorpreso un po’ tutti, forse anche me stesso - sorride alla fine -. Ramon Mantovani, che mi conosce quasi come mia moglie, mi ha detto che non credeva alle sue orecchie. È stato faticoso, ma è andata bene». Bene, relativamente a Rifondazione. I concetti che Bertinotti ha dovuto imporre con le urla e con le lacrime sono nel resto dell’Occidente patrimonio acquisito ai limiti dell’ovvietà. Lui invece deve confrontarsi con ben tre correnti trotzkiste, una classica, una di ascendenza britannica, una filofrancese, e non tutti hanno la signorilità di Marco Ferrando, che lamenta con qualche ragione come gli oppositori con il 40% non abbiano un posto in segreteria e in prospettiva neppure in Parlamento. Alcuni passaggi del segretario danzano tra ottimismo e populismo, come quando saluta il risveglio del conflitto sociale a Scanzano e Acerra, che difficilmente sarebbero insorte se la discarica e l’inceneritore fossero stati progettati un poco più in là. Non ci è stata negata neppure «la liberazione di acqua terra e cielo dall’oppressione capitalista». «Però insomma - si sfoga Bertinotti - se parlo di intervento pubblico nell’economia, di salario sociale, di critica radicale al capitalismo non mi possono liquidare come se parlassi di noccioline». Il segretario è convinto che rispetto alla rottura del ’98 sia cambiato tutto. «Allora c’era l’Ulivo mondiale da Clinton a D’Alema. Ora le cose si sono fatte serie. Ci sono i movimenti. E c’è la guerra. Le politiche liberiste sono fallite, l’intervento americano in Iraq è in crisi. Ma questo non significa che abbiamo vinto noi. I nostri avversari possono incrudelire. Il liberismo, la guerra possono avere un’escalation». Aggrapparsi ai mausolei così come rinchiudersi nelle fabbriche, rimpiangere il passato tanto quanto accontentarsi delle piazze gli pare nello stesso tempo una rinuncia e un lusso, un’occasione perduta e un azzardo. «Si può vincere e si può perdere rovinosamente, si può andare al governo, non io ma altri, e si può restare schiacciati dalle macerie del turbocapitalismo. A cosa serve cacciare Berlusconi se l’esito è il neocentrismo, la moderazione, l’eclissi della sinistra?». Sfilano i delegati a baciarlo, un’anziana signora insiste per regalargli la radio di famiglia con cui sentiva Radio Londra e Radio Praga. Passa Giovanni Pesce: «Capitano, mio capitano!» lo saluta Bertinotti. Vorrebbe proseguire ma non riesce, è ormai senza voce e senza erre.

aprileonline.info
Rifondazione, un Congresso che prelude a un big bang?
L'aspro scontro interno sui rapporti con il centrosinistra e sulle culture di una moderna critica al capitalismo.
La sfida di Bertinotti è rinnovare un soggetto politico

Aldo Garzia

Proviamo a prendere le misure alle conclusioni del Congresso di Rifondazione che ha vissuto prima l'emozione per l'adesione di Pietro Ingrao, poi momenti di gioia spezzata a metà per la liberazione di Giuliana Sgrena e l'uccisione di Nicola Calipari, poi ancora le fasi di un aspro dibattito interno.
C'è innanzitutto la conferma, seppure molto sofferta, di una scelta politica di fondo: perseverare nella ricerca di un possibile accordo di programma con l'Unione di centrosinistra. Sia nella relazione di Fausto Bertinotti sia nell'intervento molto applaudito di Nichi Vendola, la metafora più riuscita è stata quella del "viaggio": un cammino da fare con altri, anche su itinerari inesplorati e mettendo a repentaglio parte delle proprie certezze come avviene quando si diventa curiosi viaggiatori, per liberarci dal governo delle destre e provare a metter mano a riforme su diritti e welfare (per esempio, una decisa inversione di tendenza rispetto all'eccesso di precarizzazione del lavoro). Questi obiettivi implicano una assunzione di responsabilità. Non più un "appoggio esterno" (come avvenne nel 1996 nei confronti del governo Prodi), bensì un pieno coinvolgimento di governo. La maggioranza di Rifondazione vuole portare in dote al resto del centrosinistra la sua peculiare reattività a contenuti e culture di movimento che possono concorrere a definire il profilo di un'alternativa di governo.
Tutto questo costituisce indubbiamente una "svolta", se la si raffronta con la "desistenza" elettorale del 1996 o la presentazione solo sulla quota proporzionale del 2001. A questa innovazione il Prc arriva sull'onda dei movimenti degli ultimi tre-quattro anni: quello sulla pace, quello no-global, quello sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello dei girotondi che in un primo momento lo stesso Bertinotti aveva sottovalutato nella sua carica rinnovatrice.
Altro punto importante: Rifondazione non si ritiene autosufficiente. Ha intenzione di continuare la sua azione con altri soggetti politici e di movimento. Di qui l'idea – ribadita con convinzione soprattutto dal segretario del Prc – di proseguire il proficuo confronto promosso da alcune riviste ("Aprile", "Carta", "Quaderni laburisti", "Alternative", "Nuova Ecologia", "Ecoradio") per giungere a proposte programmatiche da offrire in autonomia alla "fabbrica del programma" di Romano Prodi.
Tutte le innovazioni introdotte nel corpo di Rifondazione (nonviolenza, distacco dalla parte buia della storia del movimento comunista, riscoperta di una moderna critica al capitalismo e ai suoi modelli sociali sulla scia del movimento dei movimenti) hanno prodotto un salutare scossone nel partito. E' il riconoscimento che l'identità di una forza di sinistra deve guardare più al presente e al futuro che al passato. Ecco spiegato anche il rinnovamento generazionale che Bertinotti sembra intenzionato a promuovere nei prossimi mesi, mettendo a disposizione pure la sua carica di segretario.
Ma la questione irrisolta dal Congresso resta la "forma partito" e il rapporto tra le diverse aree politiche che convivono in Rifondazione. Bertinotti è stato impietoso nella sua analisi, pur annunciando una prossima Conferenza di organizzazione per analizzare meglio ciò che va corretto: il Prc deve diventare accogliente e attrattivo, mentre oggi non lo è.
Lo scontro tra la maggioranza e le minoranze è stato senza esclusione di colpi. Nella replica finale, Bertinotti ha confermato la sua scelta di puntare a una segreteria omogenea per perseguire con audacia e a briglia sciolta la linea politica che ha ottenuto il 60 per cento dei delegati del Congresso. Le quattro mozioni di minoranza potrebbero reagire rimanendo fuori anche dalla Direzione del partito. Ieri, infatti, hanno diffuso un comunicato congiunto in cui definiscono "molto gravi e senza precedenti in tutta la storia di Rifondazione" le modifiche apportate allo Statuto con la logica della maggioranza.
Tra maggioranza e minoranze c'è una incomunicabilità che assomiglia ai migliori film di Michelangelo Antonioni. Questa incomunicabilità riguarda il futuro immediato del Prc. Tra le diverse opzioni c'è una divaricazione profonda. Mentre Bertinotti è parso far balenare in prospettiva perfino un big bang capace di fornire una risposta di rinnovamento sul versante di sinistra dell'Unione, le minoranze puntano alla conservazione oculata del proprio bagaglio (più interessante, rispetto alle altre, è comunque la posizione dell'area che si raccoglie intorno alla rivista "l'Ernesto" e che ha avuto all'incirca il 26 per cento dei delegati).
Dietro questo conflitto, si cela la sfida alla Federazione Uniti nell'Ulivo e all'ipotetico "partito riformista". Questa competizione su idee, programmi e riferimenti culturali non riguarda solo Rifondazione. Per questo, il Congresso del Prc che si è svolto a Venezia – con Bertinotti – è riuscito a parlare con ascolto più all'esterno che all'interno del partito.