martedì 8 marzo 2005

PTSD, disturbi post-traumatici da stress
malati di guerra

peacereporter.net - 3 e 4 marzo 2005
Stati Uniti d'America
La guerra dentro
Decine di migliaia di soldati Usa tornano dall'Iraq con gravi problemi mentali

Fino a 100mila morti iracheni, ormai 1.500 caduti e 11mila feriti tra le fila dell’esercito statunitense. La triste contabilità del conflitto in Iraq è aggiornata in continuazione, ma c’è un numero che nessuno può ancora quantificare con precisione eppure si teme sia enorme: quello dei soldati che ritornano a casa con seri problemi mentali.
Secondo uno studio dell’esercito Usa pubblicato nel luglio 2004 sul New England Journal of Medicine, il 17 per cento dei militari impegnati in Iraq e in Afghanistan potrebbero soffrire di “disturbo post-traumatico da stress” (PTSD). Psicologi, psichiatri, ex soldati sono però convinti che questa cifra sia da rivedere verso l’alto, e che alla fine si raggiungerà quota 30 per cento, come per i veterani di ritorno dal Vietnam. Considerando che finora il Pentagono ha ruotato in Iraq e in Afghanistan circa un milione di soldati, significa che fino a 300mila militari potrebbero avere urgente bisogno di cure psicologiche e psichiatriche.
Un problema in crescita.
“Stiamo ricevendo un flusso crescente di soldati con problemi mentali – riconosce lo psichiatra Jeffrey Fine, direttore del programma di cura del PTSD al New York Harbor Healthcare System –, e sono convinto che il numero di soldati che soffrono di PTSD aumenterà ancora. Al momento stiamo curando una cinquantina di veterani dall’Iraq e dall’Afghanistan. Ma per molti i primi sintomi si presenteranno con mesi o anni di ritardo: qui riceviamo ancora centinaia di militari che hanno combattuto in Vietnam e nella Seconda guerra mondiale”.
I sintomi.
Il PTSD si può manifestare in vari modi, dalla depressione agli incubi notturni, dalla mancanza di emozioni agli sbalzi improvvisi di umore. Molti sperimentano improvvisi attacchi di panico, piangono a dirotto senza un motivo apparente, rivivono ad occhi aperti i momenti più terrificanti. Alcuni soldati si sentono colpevoli perché sono sopravvissuti mentre i loro compagni sono morti, altri si isolano dalla famiglia e dagli amici. “Come fai a raccontare a tuo padre di quando hai visto quell’iracheno sanguinante che ha perso metà del corpo per l’esplosione di una bomba? – scrive un soldato che soffre di PTSD sul sito dell’associazione di veterani Operation Truth – Come fai a raccontargli delle notti in cui hai dormito con un’arma carica sotto il cuscino? E’ difficile trovare le parole per il puro terrore e la sensazione di impotenza e rabbia che provi quando sei sotto il fuoco dei mortai o dei razzi da 127 millimetri. I cadaveri, i civili feriti, quel maledetto odore e i canti delle moschee alla sera sono sempre nella mia testa”.
Lo stress del conflitto.
L’elevata incidenza del PTSD in Iraq e in Afghanistan si spiega – concordano gli esperti – con le particolare condizioni del conflitto. In una guerra tradizionale il nemico è dall’altra parte del fronte e nella retroguardia esistono dei rifugi sicuri; nella prima guerra del Golfo gli Usa fecero largo uso di attacchi aerei e i soldati iracheni si arrendevano in massa davanti ai carri armati. In Iraq le caserme dei militari Usa sono attaccate ogni giorno a colpi di mortaio, i soldati possono morire – come è successo in dicembre a Mosul, con 20 vittime – anche mentre mangiano in mensa. Stavolta “il nemico è ovunque: dall’altro lato della strada, nascosto dietro una finestra, in un vicolo. Non ti senti mai al sicuro, non ti rilassi mai”, dice Paul Rieckhoff, che ha servito in Iraq per dieci mesi e al ritorno ha fondato Operation Truth.
La responsabilità di salvare gli altri.
Lo stress può essere particolarmente elevato per chi ha decine di uomini ai suoi ordini. Il tenente J. Phillip Goodrum, 34 anni, nei sei mesi in cui ha prestato servizio in Iraq ha comandato 32 soldati, perdendone uno. La sua unità, addetta al rifornimento delle truppe, percorreva in lungo e in largo il territorio iracheno. “Viaggiavamo sempre – racconta – su convogli completamente insicuri. Non avevamo né mappe, né protezioni, né scorta. La manutenzione dei veicoli era pessima ed eravamo sempre a corto di carburante. Non c’è peggiore sensazione di avere poca benzina quando sei in campo aperto e ti sparano addosso, mentre sei responsabile della vita di decine di ragazzi”. Ora Goodrum è in cura al Walter Reed Army Medical Center di Washington, il più grande ospedale militare negli Usa. Tornato dall’Iraq nel novembre 2003, ha cominciato a soffrire di attacchi di panico, ansia, continuo stress. Gli hanno diagnosticato il PTSD, e da più di un anno si sottopone a colloqui bisettimanali con psichiatri, lo imbottiscono di pillole e parla a scatti, con una leggera balbuzie. “Non ho fatto i progressi che avrei dovuto”, dice. “Ancora oggi, se sento l’odore del carburante mi ritorna tutto in mente. E ho attacchi di panico quando mi trovo in una folla, o in mezzo al traffico”.
Con il protrarsi del conflitto, la questione del PTSD sta diventando sempre più grave. Pochi giorni fa il Pentagono ha reso noto che nel 2004 il tasso di suicidi tra i soli Marines è aumentato del 29 per cento: i 31 registrati costituiscono il picco dell’ultimo decennio. Fino allo scorso novembre, in Iraq si erano tolti la vita 40 soldati. Le storie di militari che si uccidono spuntano una dietro l’altra dalle cronache dei giornali locali: l’ultima è quella del sergente Curtis Greene, un 31enne della Florida con moglie e figli, che per la paura di essere richiamato in servizio in Iraq si è impiccato in caserma. Come molti altri che scelgono di togliersi la vita perché inseguiti dagli incubi dell’Iraq, ufficialmente Greene non soffriva di PTSD. Non aveva mai cercato aiuto psicologico, e nessuno nell’esercito aveva capito che qualcosa non andava. Casi come il suo rafforzano negli esperti la convinzione che i veterani dell’Iraq afflitti da PTSD siano ben più di quel 17 per cento riportato nel New England Journal of Medicine. “Quella ricerca aveva due limiti fondamentali – spiega Steven Robinson, direttore del National Gulf War Resource Center – che non vanno dimenticati. Non comprendeva i soldati feriti in combattimento, ed essendo stata fatta nella seconda metà del 2003 non ha potuto tenere conto dello scoppio ritardato del PTSD: molti soldati cominciano ad avere problemi solo una volta ritornati a casa”.
La paura di mostrarsi deboli.
A questo bisogna aggiungere la paura di mostrarsi deboli davanti ai propri commilitoni e alla società, o il timore – per chi vuole rimanere nell’esercito – di vedersi pregiudicata la carriera militare. E’ celebre il caso del sergente Georg-Andreas Pogany, inizialmente accusato di “codardia” (un crimine punibile con la pena di morte, e scomparso dai tempi del Vietnam) per aver avuto un grave attacco di panico al suo secondo giorno in Iraq, dopo aver visto i resti del cadavere di un soldato iracheno. Di fronte al clamore provocato dalla vicenda, in seguito l’esercito trasformò l’accusa di codardia in quella di “inadempienza dei propri doveri”, e poi depennò anche quest’ultima. Ma il caso confermò che l’esercito non vede di buon occhio chi si tira indietro per problemi psicologici, e per questo molti soldati preferiscono rinchiudersi in sé stessi piuttosto che condividere le proprie sofferenze con gli altri. “Nessuno vuole vedersi troncata la carriera sentendosi dire che non può gestire lo stress”, dice Robinson.
Una cura incerta.
Gli psichiatri non hanno ancora capito se dal PTSD si può guarire. “Su questo aspetto il dibattito è ancora in corso – spiega Fine –. Il nostro approccio è quello di trattare il PTSD come una malattia cronica, con cui bisogna imparare a convivere. Altri psichiatri pensano invece che ci sia la possibilità di arrivare il più vicino possibile a una cura. Esistono comunque soldati che cercano aiuto da noi e poi ritornano a combattere: molti veterani del Vietnam con problemi di PTSD hanno poi servito durante la prima guerra del Golfo, altri hanno combattuto in quella e poi nell’operazione Iraqi Freedom”.
La gestione dell'emergenza.
Sebbene sul terreno esistano circa un centinaio di cliniche del dipartimento per i Veterani – e vari ospedali militari – che offrono aiuto psicologico e psichiatrico, la gestione dell’emergenza PTSD da parte di Washington sta scontentando un po’ tutti. Lo scorso settembre Steve Robinson scrisse un rapporto intitolato The Hidden Toll (“Il tributo di vite nascosto”), in cui puntava il dito contro il dipartimento della Difesa per lo scarso aiuto offerto ai militari con problemi psicologici, specialmente sul campo. “Da quel momento la situazione è addirittura peggiorata – si sfoga Charles Sheehan-Miles, direttore dell’associazione Veterans for Common Sense –. Ci sono valanghe di soldati che tornano a casa e soffrono di PTSD, aumentando la pressione sul sistema. E allo stesso tempo l’amministrazione sta tagliando il budget sanitario per i crescenti costi della guerra e i tagli alle tasse. Noi cerchiamo di farci sentire, ma la storia dimostra che non possiamo fare molto”.
Meglio prevenire.
Robinson è meno pessimista, ma riconosce che la situazione rimane critica. “L’approccio del dipartimento della Difesa è sempre quello, ma in questo momento il Congresso sta lavorando su nuove misure che potrebbero migliorare le cose. Tra qualche settimana presenterò una proposta di legge per garantire a ogni soldato che torna dalla guerra un colloquio con uno psicologo. E’ meglio combattere il PTSD sul nascere, piuttosto che aspettare che i soldati si presentino in ospedale già con seri sintomi”.