Il Mattino 3.4.05
La Cina è l’argomento del giorno
Valerio Massimo Manfredi
La Cina è l’argomento del giorno, il problema del giorno,l’incubo del giorno, oppure il futuro, la grande opportunità, a seconda dei punti di vista. Diceva Churchill, «Lasciamo che il drago cinese dorma perché quando si sveglierà farà tremare il mondo». Ora il drago si è svegliato e tutti gli occhi sono puntati su di lui. L’«Economist» gli dedica la copertina, «Time» ha fatto lo stesso di recente e si può stare sicuri che le cose continueranno così. C’è chi si chiede se esistano risorse e materie prime bastanti sul pianeta per alimentare lo sviluppo di un colosso da un miliardo e trecentomila persone (cui va aggiunto un miliardo di indiani anch’essi in sviluppo rampante). C’è chi si chiede dove arriverà il prezzo del petrolio e delle materie prime che i cinesi cercano di accaparrarsi a qualunque prezzo e se questo non finirà per provocare tensioni micidiali e guerre, così come è sempre successo nel passato. C’è chi fa presente che fra dieci anni la Cina avrà quindici milioni di ingegneri e un arsenale militare da far paura, con lo stolto contributo dell’Unione europea che per un pugno di euro rinuncia a un principio fondamentale di rispetto delle libertà individuali da esigere a tutti i costi e da tutti. E finalmente c’è chi considera che in molte realtà economiche cinesi si lavora 60 ore la settimana (con buona pace delle trentacinque ore di Bertinotti) per trenta dollari al mese e che su questa base nessuno può riuscire a batterli, nessuno può permettersi di sfidarli senza uscirne con le ossa rotte. Ma perché la Cina è così formidabile? Come è possibile che tanti milioni di persone accettino di lavorare pazientemente, instancabilmente per così poco e con tanta disciplina? Le ragioni sono molteplici e complesse e certo il ferreo centralismo comunista ha il suo peso, ma non è tutto. Fondamentalmente ciò avviene perché la Cina è antichissima, omogenea e compatta. La sua civiltà, di fatto immutata, resiste da circa cinquemila anni, la sua lingua, il suo sistema di scrittura secondo alcuni risalirebbero addirittura al neolitico. Le sue dinastie imperiali si sono succedute ininterrottamente per venticinque secoli. È come se l’Impero romano avesse superato le crisi delle invasioni barbariche e l’ultimo Cesare fosse stato deposto non nel 476 dopo Cristo ma nel 1936 (controllare) non per mano di invasori stranieri, ma per una evoluzione della politica interna. Come se oggi si parlasse ancora latino in tutto il bacino del Mediterraneo fino all’Inghilterra e al golfo Persico, come se l’Impero romano si preparasse a tornare una superpotenza mondiale, se non l’unica. Ciò che ha consentito un simile sviluppo e una simile longevità è stata una incredibile ricchezza in gran parte basata sull’agricoltura. Per avere un’idea si pensi che in una sola tomba della dinastia Han il corredo funebre era fatto di sette tonnellate di oggetti di bronzo, più del doppio di quanto sia stato trovato in tutte le tombe etrusche fino ad ora scoperte. La tomba del primo imperatore unitario Qin Shi Huangdi era vigilata da un esercito sotterraneo di ottomila guerrieri di terracotta. Il tumulo, tuttora inviolato, è ottanta metri di altezza e seicento di diametro. È probabile che il corredo che contiene sia al di là di ogni immaginazione. Il problema dell’invasione di prodotti cinesi in occidente non è di oggi. Già l’imperatore romano Tiberio nel primo secolo lamentava l’emorragia di denaro per l’acquisto della seta, denaro che in buona parte finiva nelle tasche degli intermediari persiani ma le sue reprimende non approdarono a nulla, le spese voluttuarie continuarono come prima. C’è da chiedersi che cosa sarebbe successo se i due imperi fossero entrati in contatto diretto: forse sarebbe cambiato il corso della storia. Troppo lontani per competere avevano tutto l’interesse a collaborare e in un certo senso ci andarono vicino. Essi infatti sapevano l’uno dell’altro, Nella Tabula Peutingeriana, una mappa del mondo antico giunta fino a noi , è rappresentata la Sera Maior, ossia la Cina. E nelle fonti cinesi l’Impero romano è menzionato con il nome di Taqin Guo, il Paese dell’Occidente. Si sa che un maresciallo cinese, Ban Chao, fratello di un grande storico, giunse fino al Mar Caspio e di là lanciò un’ambasceria guidata da un funzionario di nome Gan Jing per prendere contatto con l’imperatore dei romani. Gan Jing giunse fino a due giorni di cammino dalla frontiera, ma quando le sue guide persiane si resero conto dello scopo della sua missione lo depistarono, lo spaventarono con racconti di ostacoli insuperabili e lo convinsero a tornare indietro. Si sa anche che nel secondo secolo dopo Cristo un viaggiatore romano chiamato Qin Lun nelle fonti cinesi giunse alla corte imperiale e fece una relazione completa sull’Impero dei Cesari che purtroppo è andata perduta. Il suo contenuto sarebbe di eccezionale interesse. L’ultima e più clamorosa notizia è stata rilanciata di recente: un gruppo di soldati romani, forse scampati al massacro delle legioni di crasso a Carre nel 53 avanti Cristo sarebbe giunto, alcuni anni dopo, al confine occidentale della Cina lungo il fiume Talas. L’imperatore Yuandi avrebbe loro concesso di fondare un insediamento che era noto ancora un secolo dopo con il nome di Lijan, un termine che secondo alcuni significherebbe «legione». Altri invece pensano che derivi da Alexandria il termine con cui i cinesi denominavano qualunque insediamento occidentale a occidente dei loro confini. L’ipotesi fu avanzata da Homer Dubas, professore a Oxford, nel 1942 e ripresa ultimamente da ricercatori cinesi e australiani che avrebbero trovato indizi della presenza romana nei pressi dell’antica Lijan e addirittura caratteristiche «occidentali» nella popolazione locale. L’ipotesi è molto audace e certamente necessita di prove più consistenti ma i cinesi sembrano averla sposata in toto. Hanno addirittura eretto una specie di padiglione simil-classico e statue di legionari all’ingresso del villaggio.
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