lunedì 4 aprile 2005

l'Unità:
La scienza come processo di conoscenza deve godere di una libertà assoluta

L'Unità 4.4.05
Scienza e fede, riemergono le antiche ambiguità
Pietro Greco

Il pontificato di Giovanni Paolo II sarà (anche) ricordato come quello in cui la Chiesa di Roma ha riabilitato, con qualche secolo di ritardo, Galileo Galilei. In realtà, l'attenzione che Karol Wojtyla ha dedicato al rapporto tra scienza e fede nel corso della sua lunga gestione della cattedra di Pietro va ben oltre la pur significativa rivisitazione dell'affaire Galileo. La riflessione di Giovanni Paolo II intorno al significato della ricerca scientifica è stata così costante, articolata e profonda da diventare uno dei caratteri distintivi del suo pontificato.
Questa riflessione pubblica - dal discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 1979, in occasione dei cent'anni dalla nascita di Albert Einstein, all'enciclica Fides et ratio del 1998 - non ha prodotto, è vero, novità clamorose. Né avrebbe potuto. Tuttavia si è dipanata in maniera così analitica e rigorosa da espungere dalla discussione la gran parte dei dettagli secondari, degli errori e delle ambiguità per far emergere l'essenza del rapporto tra scienza e fede. Solo negli ultimi tempi, quando a dominare il pensiero del Papa polacco intorno alle questioni scientifiche è stata la biologia dell'embrione, le vecchie ambiguità e le antiche diffidenze sono riemerse.
Ma non al punto tale da ribaltare la convinzione, propria di Karol Wojtyla, che la scienza sia la dimensione culturale dell'uomo che caratterizza maggiormente il nostro tempo. Giovanni Paolo II pensa che questa cultura, almeno nelle interpretazioni che egli definisce scientiste e materialiste, abbia dato un formidabile contributo alla «desacralizzazione del mondo». Tuttavia ritiene che la causa di gran lunga principale che ha portato l'uomo contemporaneo a smarrire il sacro non siano stati né la scienza né lo scientismo, bensì la «perdita di senso». L'uomo, distratto da falsi idoli, ha smarrito il senso della vita. Così è rimasto privo di un progetto di vita. E privo di fondamenta su cui radicare il suo progetto di vita.
La ricerca del senso perduto è la prospettiva che Wojtyla indica all'uomo per salvarsi. E in questa rinnovata ricerca proprio la scienza può dare un contributo, ancora una volta formidabile, a patto che recuperi un rapporto di dialogo e persino di integrazione con la filosofia e la teologia, su una base di reciproca autonomia e pari dignità.
Già perché la scienza, anzi la «scienza pura», scrive Wojtyla a padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana, il primo giugno del 1988, ricerca l'intima unità del mondo. E in questa sua ricerca, comune alla filosofia e alla teologia, si propone come uno degli strumenti più potenti in mano all'uomo per recuperare quella «frammentazione dei saperi» che Wojtyla colloca tra le fonti principali della perdita di senso (vedi discorso al Cern del 15 giugno 1982). Certo, pensa e quasi avverte Wojtyla, il mondo di cui la scienza cerca con perizia l'ordine implicato e l'intima unità è il mondo fisico. Non può e non deve essere il mondo spirituale, ambito proprio della religione. Ma in questa sua ricerca nella dimensione fisica del mondo, la scienza può dare un contributo formidabile alla religione, scrive ancora Giovanni Paolo II a padre Coygne, perché la «può purificare (…) dall'errore e dalla superstizione». Naturalmente anche la religione ha qualcosa da dare alla scienza, perché la «può purificare (…) dall'idolatria e dai falsi assoluti».
Eccolo, dunque, il progetto di Wojtyla: creare un'alleanza tra le grandi dimensioni culturali dell'uomo (la scienza, la filosofia e la teologia) per riprendere la ricerca razionale del senso della vita. Quest'alleanza non è scontata. E non è priva di conflitti. Ma, Giovanni Paolo II ne era convinto, i conflitti non sono mai di fondo. Né la fisica, né la biologia, neppure quando cercano l'origine del cosmo e l'origine della vita, producono conflitti insanabili né con la teologia, né con la fede. Quando i conflitti nascono è perché qualcuno, tra i teologi o gli scienziati, sta sbagliando. In quest'ottica di dialogo e persino di integrazione, scienza e teologia non devono cadere in tentazione. La teologia non deve farsi tentare dalla suggestione di reinterpretare la verità rivelata alla luce delle nuove e contingenti verità rilevate dalla scienza, né tantomeno negare dommaticamente le verità della scienza in nome delle dalle Sacre Scritture. Da parte sua la scienza, sostiene Wojtyla, non deve farsi tentare dalla voglia di fornire un'interpretazione morale delle conoscenze acquisite.
Per tutti questi motivi, la scienza deve essere una custode gelosa della propria libertà di ricerca. Una libertà minacciata non più dalla prepotenza della religione, bensì dall'invadenza dell'economia. Già, perché oggi il vero attentato alla libertà di ricerca, sostiene Wojtyla parlando agli scienziati dell'università di Colonia il 15 novembre del 1980, è il tentativo di ridurre la scienza a mero «fatto tecnico», per farne strumento di «dominazione economica e politica». Giovanni Paolo II pone particolare insistenza nel distinguere tra la dimensione culturale della scienza e la sua dimensione tecnica. La scienza come processo di conoscenza deve godere di una libertà assoluta e ha come unico limite quello, semantico, di non poter dare un significato pieno né al cosmo, né, soprattutto, all'uomo. La scienza come fonte di innovazione tecnologica, invece, ha grandi limiti e una doppia faccia, spiega agli scienziati convenuti a Hiroshima il 25 febbraio del 1981. Una è quella, progressiva, che la vede promuovere tecnologie che vanno a beneficio dell'uomo e dell'ambiente in cui vive. L'altra è quella, regressiva, che la vede ispiratrice di tecnologie che sono un rischio per l'uomo e l'ambiente in cui vive. Giovanni Paolo II ha un approccio verso la tecnologia davvero diverso da quello che ha verso la scienza. È convinto che la moderna tecnologia abbia rotto un equilibrio millenario. E che questo equilibrio può essere ricostituito solo armonizzando i valori della tecnica con i valori della coscienza. Gli scienziati, sostiene papa Wojtyla, non hanno né possono pretendere di avere una responsabilità diretta nell'applicazione tecnica delle conoscenze che producono. Non sono responsabili dell'equilibrio infranto né depositari del segreto per ricostruirlo. Il governo della tecnica spetta alla società nel suo complesso e alla sua dimensione religiosa. Tuttavia gli scienziati «vedono» dove può portare la scienza, madre della tecnica, prima e meglio degli altri. Per questo una responsabilità ce l'hanno: quella di informare costantemente e compiutamente il resto della società. Questa visione complessa della scienza e del rapporto tra scienza e fede proposta, in tutto il suo pontificato, da Giovanni Paolo II potrebbe essere tranquillamente sottoscritta da uno scienziato non credente. Però ci sono due grossi ostacoli che impediscono tuttora a un ricercatore laico di guardare alla scienza nell'ottica di Wojtyla.
La ricerca moderna è strettamente informata di tecnologia. E non sempre è possibile distinguere tra «scienza pura» e «pura tecnica». Uno scienziato laico non è facilmente disponibile a demandare ad altri le scelte in materia di innovazione tecnica. Soprattutto se queste scelte hanno profonde implicazioni sulla libertà di ricerca scientifica. Giovanni Paolo II è intervenuto spesso per porre limiti allo sviluppo di tecnologie innovative, soprattutto in campo biologico. Entrando così spesso in contrasto con vaste comunità di scienziati da delineare, di fatto, una nuova frontiera del conflitto tra scienza e religione. E quando, poi, papa Wojtyla ha indicato agli scienziati precisi percorsi di ricerca da seguire (per esempio, lo studio delle cellule staminali adulte) e precisi percorsi di ricerca da chiudere (per esempio, lo studio delle cellule staminali embrionali) ecco che il passato - quello dei limiti posti da Urbano VIII alla libera ricerca di Galileo - è sembrato rifare capolino.
Il secondo ostacolo ha una natura ancor più fondamentale. Nella sua enciclica Fides et Ratio, nel 1998, Giovanni Paolo II riconosce il valore della ragione (scientifica, filosofica e teologica) capace di cogliere come nessun'altra dimensione umana, le manifestazioni di Dio nel mondo. La ragione non è una minaccia, sostiene Wojtyla, ma uno strumento prezioso per avvicinare l'uomo a Dio. Ma, sebbene dotata di ampia autonomia, la ragione resta ancella della fede. È questa dimensione ancillare della ragione che uno scienziato (o un filosofo) laico non può accettare. E uno scienziato non credente non può neppure capire. Anche quando la rivendicazione di primazia della fede rispetto alla ragione dovesse riguardare solo (solo?) lo spazio dell'etica.