venerdì 13 maggio 2005

cecità

ilmanifesto.it 11 maggio 2005
L'elaborazione del significato quando manca la vista
Un cieco potrà mai sapere cos'è la cecità senza aver avuto esperienza di ciò che gli manca? Intorno a questo interrogativo ruota un dibattito di cui rendono conto alcuni libri recenti. In gioco c'è il fatto che l'informazione che conta per elaborare significati non passa attraverso gli occhi. Il che implica, intanto, una revisione del concetto di esperienza percettiva
FRANCESCO FERRETTI


Il disco del semaforo è verde, ma le auto rimangono immobili. È inutile suonare il clacson: la macchina in prima fila non si muove. E non per il solito incidente. Al suo interno c'è un uomo con le mani aggrappate al volante che urla in preda alla disperazione: «Sono diventato cieco!». Questa è la scena di apertura del romanzo Cecità di José Saramago (Einaudi). A colpire il guidatore è un'epidemia che non risparmia nessuno e che è destinata a cambiare il corso della vita di tutti gli abitanti della città. Il contagio progressivo della malattia crea nel lettore sconcerto e apprensione, ma a spiazzarlo del tutto è la descrizione che il guidatore fa di quanto gli è accaduto: «è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte». A spiazzare il lettore è la cecità intesa come un «male bianco». Per noi tutti, infatti, la cecità è il buio: è il nero, piuttosto che il bianco. A pensarci bene, tuttavia, il bianco e il nero sono metafore che valgono solo per i vedenti. Cos'è la cecità per chi non ha mai visto? La risposta più interessante alla domanda chiama in causa il tema del rapporto tra pensiero e linguaggio. Ed è proprio in relazione a questo tema che il dibattito sulla cecità (che ha ricevuto in passato l'attenzione di numerosi filosofi - si pensi soltanto alla Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono di Denis Diderot) conosce oggi, anche in Italia, un rinnovato interesse. Lo testimonia, la pubblicazione di Sviluppo del linguaggio e dell'interazione sociale nei bambini ciechi di Miguel Pérez-Pereira e di Gina Conti-Ramsden (Edizioni Junior di Brescia), un importante e aggiornatissimo saggio che affronta la questione della cecità tenendo conto di alcune delle ricerche più significative della scienza cognitiva contemporanea, e offre lo spunto per alcune considerazioni di carattere più generale.
«Come sai che sei cieco?» È la prima domanda che Bryan Magee, filosofo vedente, rivolge a Martin Milligan, cieco dalla nascita, in un avvincente scambio epistolare tradotto di recente in italiano (Sulla cecità, Astrolabio). Sembra una domanda dalla risposta banale e scontata, ma non è così. Dietro di essa si celano problemi complicati, del tipo di quelli indagati da Thomas Nagel nel suo celebre saggio «Cosa si prova ad essere un pipistrello?». Problemi che mettono in evidenza lo scarto tra il «sapere come funziona» un sistema percettivo e il «conoscere cosa si prova» a percepire il mondo attraverso quel sistema percettivo. Il cieco potrà mai sapere cos'è la cecità senza aver avuto esperienza di ciò che gli manca?
Secondo Magee è la società dei parlanti a dire al non vedente cosa gli manca. Può farlo perché il linguaggio è in grado di veicolare tutta l'informazione utile alla conoscenza. Si prenda la comprensione del significato della parola «oscurità». I ciechi non vivono, come erroneamente si crede, «circondati dall'oscurità» (non avendo esperienza diretta della luce, non possono averla neppure dell'oscurità). Tuttavia, come argomenta Magee, essi conoscono «il significato principale di `oscurità', ossia una situazione in cui c'è poca o nessuna luminosità. (...). Nei dizionari esistono delle definizioni di queste parole e i ciechi dalla nascita possono comprendere e usare le parole in accordo con esse altrettanto bene dei vedenti». Seguendo questa strada si può sostenere che i ciechi, attraverso l'uso dei termini usati dal gruppo sociale, possono costruire una rappresentazione della realtà analoga a quella dei vedenti. Qui il punto chiave è nel riferimento alla conoscenza mediata dal linguaggio (la conoscenza «per descrizione»), ovvero all'idea che tale conoscenza esaurisca tutta l'informazione utile al soggetto.
Ma davvero tutta la conoscenza è conoscenza per descrizione? Bertrand Russell nei suoi Problemi della filosofia (Feltrinelli) ha criticato fortemente questa tesi. Lo ha fatto appellandosi al caso dei ciechi: «Si dice talvolta che "la luce è un moto ondulatorio", ma l'espressione è errata e conduce a malintesi, perché la luce di cui noi abbiamo la sensazione visiva immediata, la luce che conosciamo direttamente attraverso i sensi, non è un moto ondulatorio, ma qualcosa di totalmente diverso; qualcosa che tutti conosciamo bene se non siamo ciechi, pur non sapendola descrivere in modo da comunicare la nostra conoscenza a un cieco». Secondo Russell c'è un tipo di conoscenza non codificabile nel linguaggio: la «conoscenza diretta» (la conoscenza sensoriale alla base dell'apparenza degli oggetti). Ora, poiché questo tipo di conoscenza non è riducibile alla conoscenza per descrizione i ciechi non possono conoscere l'apparenza visiva degli oggetti. E dunque il significato dei termini che fanno riferimento a questo tipo di esperienza è per loro fortemente compromesso.
Stabilire il ruolo della percezione visiva nel linguaggio non è solo un tema filosofico. Qui sono in ballo questioni che toccano da vicino il problema di come l'handicap cognitivo e le deprivazioni sensoriali sono (e debbano essere) considerati nella cosiddetta società dei normali. Sostenere che i ciechi hanno un sistema concettuale deficitario significa sostanziare la tesi della differenza qualitativa tra vedenti e non vedenti. Non a caso, il dibattito tra Milligan e Magee si sposta spesso (a tratti in modo molto duro) dal piano teorico a quello eminentemente politico e sociale. Cosa ci dice la ricerca sperimentale rispetto a questo dibattito? Nel libro Vision and the Emergence of Meaning (Cambridge University Press), Anne Dunlea sembra portare dati a conforto della tesi di Russell. I ciechi parlano, evidentemente. Tuttavia, per quanto utilizzino gli stessi termini, il modo in cui essi intendono tali termini è diverso da quello dei vedenti. Se, infatti, la percezione visiva ha un ruolo nella formazione dei concetti e se i significati hanno una relazione con gli schemi concettuali dei parlanti, allora un deficit visivo porta a una comprensione del significato deficitaria. La Dunlea sposa la tesi del primato dell'esperienza cognitiva (concettuale) su quella linguistica. Se si porta questa tesi alle estreme conseguenze, tuttavia, si arriva a considerare il linguaggio dei non vedenti come una forma di «verbalismo» - come un sistema in cui i termini utilizzati sono concettualmente vuoti. Il caso per eccellenza del verbalismo è rappresentato, secondo alcuni, dal linguaggio per formule (costruzioni stereotipate e ripetitive) caratteristico del parlare dei bambini non vedenti. Un linguaggio di questo tipo è, per tali autori, inutile se non addirittura dannoso per lo sviluppo concettuale di chi lo produce.
A questa visione si contrappone oggi la tesi del linguaggio come un componente autonomo dalla cognizione. Qui il primato è accordato alla capacità di parlare: il linguaggio è uno strumento (compensativo) di conoscenza del mondo esterno. In questa prospettiva il ruolo assegnato al linguaggio stereotipato è del tutto diverso. Secondo Miguel Pérez-Pereira e Gina Conti-Ramsden, ad esempio, le formule utilizzate dai ciechi hanno un ruolo decisivo nell'apprendimento del linguaggio: mantenere con poco sforzo in memoria entità linguistiche complesse permette un'analisi fine della loro struttura formale. Tale analisi è di primaria importanza ai fini cognitivi. I ciechi prestano maggiore attenzione al linguaggio di quanto non facciano i vedenti perché trovano nella struttura degli enunciati l'informazione che non hanno attraverso la visione.
Sostenere che il linguaggio è un potente veicolo di conoscenza è un modo per contrastare alla radice la tesi del verbalismo. Barbara Landau e Lila Gleitman hanno scritto un libro fondamentale a tale proposito, titolato Language and Experience (Harvard University Press), la cui tesi è che, dopo un primo ritardo iniziale, i bambini ciechi parlano un linguaggio virtualmente identico a quello dei vedenti. A riprova di tale tesi, esse danno prova sperimentale della comprensione del significato di termini che sembrano richiedere una specifica esperienza visiva. Kelli (una bambina cieca congenita) mostra di padroneggiare la distinzione fine tra «guardare» e «vedere». Come può farlo? La risposta delle due autrici è nei termini di una concezione chomskiana del linguaggio: il sistema innato di elaborazione sintattica coglie, negli enunciati in cui occorrono, i tratti costituenti essenziali alla comprensione delle due espressioni. L'idea in altre parole è che «guardare» e «vedere» occorrano in contesti sintattici diversi e che l'analisi dell'informazione veicolata dai tipi diversi di strutture sintattiche sia decisiva per stabilire la diversità del significato dei due verbi. L'informazione che conta per il significato non passa attraverso gli occhi. Lo stesso modello viene applicato anche al caso dei termini di colore. Ciò che i ciechi sanno su questi termini dipende, proprio come per i vedenti, dal sistema di elaborazione del linguaggio. Non è legittimo dunque sostenere che i non vedenti utilizzino termini qualitativamente diversi da quelli dei vedenti. Nel caso dei colori sorge un problema, però. Portando alle estreme conseguenze la tesi di Barbara Landau e Lila Gleitman si potrebbe sostenere l'ipotesi della «perfetta coincidenza» dei significati prodotti dai ciechi e dai vedenti. Una tesi palesemente falsa (al pari del verbalismo, anche se per motivi speculari). Anche le due autrici parlano solo di una «coincidenza parziale» del significato dei termini di colore. Per quanto rappresentino un caso limite, i colori evidenziano una cosa importante: che il linguaggio, da solo, non «esaurisce» tutta l'informazione percettiva.
Sostenere che alcune proprietà dei colori restano precluse ai ciechi, riapre i termini della polemica tra Bryan Magee e Martin Milligan. Il residuo di informazione che il linguaggio non esaurisce incide sul sistema concettuale e dunque sulla diversa comprensione del significato da parte di chi vede e di chi non vede. Anche riconoscendo al linguaggio il ruolo di compensazione che esso svolge nel caso della costruzione del sistema concettuale dei ciechi, lo scarto tra i due sistemi concettuali appare un fatto difficilmente contestabile. D'altra parte, come abbiamo visto, insistere troppo sulla diversità di tali sistemi porta a considerare il linguaggio dei non vedenti come uno strumento costituito da (almeno alcuni) termini vuoti di significato. Come ovviare alle difficoltà di queste due opposte visioni del problema?
La risposta al quesito passa per una posizione capace di mantenere insieme le comunanze e le differenze dei sistemi concettuali dei vedenti e dei non vedenti. Il punto chiave è la revisione del concetto di esperienza percettiva. L'opposizione netta tra «conoscenza diretta» e «conoscenza per descrizione» poggia in effetti su una concezione ingenua di percezione. Secondo tale concezione, il percepire è un atto tipicamente passivo: quando apriamo gli occhi, il mondo ci entra dentro. Per quanto continui ad essere viva nel senso comune, questa idea della percezione è stata messa in discussione dalla «teoria delle inferenze inconsce» di Hermann von Helmholtz. Secondo tale teoria, che segna un punto di non ritorno negli studi sul tema, la percezione visiva è un processo attivo che dipende essenzialmente dai processi interni di elaborazione, oltre che dall'accesso sensoriale. Per riprendere il titolo di una bella raccolta di saggi sulla cecità curata da Dario Galati (Franco Angeli editore), si potrebbe sostenere che il percepire è innanzitutto un vedere con la mente, piuttosto che con gli occhi.
Un risultato importante delle tesi di Helmholtz (per una esposizione delle quali bisogna leggere il libro di Michel Meulders, Helmholtz. Dal secolo dei lumi alle neuroscienze, appena pubblicato da Bollati Boringhieri) è che la distinzione tra sensoriale e linguistico non esaurisce i termini della questione. Per dar conto sino in fondo del processo percettivo sembra necessario mettere in gioco un terzo livello di analisi: quello della rappresentazione e dell'elaborazione dell'informazione. L'apparenza degli oggetti non dipende soltanto dalle proprietà sensibili degli oggetti (non dipende soltanto dall'apparato sensoriale deputato a coglierle) ma dipende anche dal sistema interno di elaborazione dell'informazione. Ora, la cecità è spesso soltanto un disturbo periferico. Da questo punto di vista si potrebbe sostenere una tesi per certi versi paradossale: l'idea che i ciechi, pur non avendo accesso visivo (sensoriale) al mondo, possono avere accesso ad almeno una parte dell'apparenza visiva degli oggetti. Che prove abbiamo in favore di questa idea?
Gli straordinari esperimenti sui disegni dei ciechi proposti da John Kennedy in Drawing and the Blind (Yale University Press) sembrano testimoniare in favore di questa ipotesi. In tali esperimenti è stato provato che i non vedenti sono capaci di riprodurre proprietà tipiche dell'apparenza della visione (dipendenti dal punto di vista a distanza) come la prospettiva. L'idea di Kennedy è che gli stessi principi alla base della percezione prospettica siano comuni alla vista e al tatto (sia la vista sia il tatto accedono a uno stesso sistema di elaborazione dello spazio). Seguendo Kennedy è dunque possibile sostenere che i principi che regolano le configurazione pittoriche rappresentate nei disegni «sono intelligibili al cieco allo stesso modo di quanto lo siano al vedente». Esperimenti di questo tipo ci spingono a considerare in modo nuovo l'idea intuitiva che abbiamo della cecità.
La cecità è un disturbo periferico e la visione non è un processo che riguarda soltanto la periferia del sistema. Quando si dice che i ciechi sono privi dell'esperienza visiva bisogna intendersi sul senso da dare al termine esperienza. Detto in breve: se la periferia del sistema è impedita, non segue che sia impedito il sistema visivo di elaborazione. Opportunamente stimolato (anche attraverso altri sensi) tale sistema può produrre rappresentazioni della realtà con caratteristiche proprie dell'esperienza visiva. Un primo risultato di questo discorso è che, indipendentemente dal linguaggio, ci sono forti motivi per considerare il sistema concettuale dei ciechi molto simile a quello dei vedenti. Più simile ad ogni modo di quanto le nostre idee comuni sulla cecità lascino ipotizzare.
La cecità è spesso definita come un caso di deprivazione. Tale definizione è incentrata sul modello del vedente, ovvero a partire da ciò che manca alla percezione visiva. La percezione, tuttavia, così come la cognizione, è sempre una questione di grado. Le concezioni tutto-o-nulla non ci aiutano a comprendere il fenomeno in questione. Forse l'insegnamento più forte che emerge dalla lettura del libro di Pérez-Pereira e Conti-Ramsden - citato all'inizio - è che «i bambini ciechi non sono altro che un caso estremo delle differenze individuali esistenti nell'apprendimento del linguaggio, senza però differire in maniera speciale da altri bambini senza deficit visivi». Con questo non intendiamo certo sostenere che non esistano limiti cognitivi e difficoltà cui i non vedenti sono chiamati a far fronte ogni giorno. Intendiamo soltanto sottolineare che un modo corretto per affrontare i problemi è quello che parte dalla rimozione di alcuni dei pregiudizi che sono da ostacolo alla loro soluzione.

BIBLIOGRAFIA
Sulla tesi del primato del sistema concettuale sul linguaggio ha scritto A. Dunlea in Vision and the Emergence of Meaning. Blind in Sighted Cildren's Early Language, Cambridge University Press, 1989. In favore del ruolo del linguaggio come sistema di costituzione delle esperienze dei non vedenti si veda invece B. Landau & L. Gleitman, Language and Experience. Evidence from the Blind Child, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1985 e soprattutto il recente (e aggiornatissimo) M. Pérez-Pereira G. Conti-Ramsden, Sviluppo del linguaggio e dell'interazione sociale nei bambini ciechi, Edizioni Junior, 2002. Sul rapporto tra cecità e visione, D. Galati (a cura di) Vedere con la mente, Franco Angeli, 1992. Gli esperimenti sui disegni dei ciechi sono in J. Kennedy, Drawing & the Blind, Yale University Press. L'epistolario tra B. Magee e M. Milligan, Sulla Cecità è pubblicato da Astrolabio, 1997. Un libro appena uscito sulla rivoluzione di Helmholtz negli studi sulla percezione visiva è M. Meulders, Helmholtz. Dal secolo dei Lumi alle neuroscienze, Bollati Boringhieri, 2005.