giovedì 12 maggio 2005

il caso Pelosi - Pasolini
uno psichiatra, socio di Paolo Pancheri, ricorda

Liberazione 10.5.05
Omicidio Pasolini. Parla Michele Crebelli, il medico di guardia a Regina Coeli
«Pelosi mi disse: "Sono stato io".
O era sincero o era una bugia preparata»
Elisabetta Mondello

Oggi Michele Crebelli è un noto psichiatra, socio di un famoso studio romano, quello del Prof. Paolo Pancheri, ma trent'anni fa era un giovane laureato ventottenne, in attesa di specializzarsi in psichiatria. E per arrotondare faceva il medico di guardia al carcere di Regina Coeli.
Era di turno la notte fra il 1 e il 2 novembre 1975, mentre Pasolini veniva ucciso. Toccò quindi a lui ascoltare fra i primi l'autoaccusa di Pino Pelosi ma non fu mai interrogato in proposito, probabilmente perché il ragazzo rimase per poco nel penitenziario e venne subito trasferito nel carcere minorile. «Mi chiamarono all'alba, sebbene la procedura fosse insolita», racconta per la prima volta dopo tanti anni. «Il turno durava 24 ore, dalle 14 alle 14; però le mansioni del medico di guardia erano solitamente di tipo burocratico: fare al mattino la visita medica a tutti i nuovi entrati nelle 24 ore precedenti. Mettere i punti a quelli che si tagliavano o intervenire se un detenuto compiva un atto estremo, come inghiottire una lametta. Si trattava insomma di un lavoro di base, perché nel carcere esisteva un centro medico con specialisti e chirurghi, cui spettava il lavoro più sofisticato. Invece quella notte mi chiamarono».
Non è difficile immaginare il giovane dottore svegliato ad un'ora assurda per un'emergenza: parlare con quel piccoletto accusato di aver ammazzato, senza neppure accorgersene, un famoso quanto discusso (e ingombrante) intellettuale. La concitazione doveva essere tanta nell'alba romana in cui andava in scena l'orrore dell'omicidio Pasolini, che si aggiungeva ad un altro recente caso di impensabili efferatezze che, in una incredibile coincidenza della Storia, sono tornate anch'esse ad occupare la cronaca più recente, quelle di Izzo e compagni. E anche l'altro delitto era transitato per le mani di Crebelli. «L'autunno del '75 fu un'esperienza indimenticabile. Qualche settimana prima mi avevano chiamato all'improvviso, perché avevano portato in carcere gli assassini del Circeo. Quella volta però c'era un quesito specifico: il giudice voleva sapere se i ragazzi acconsentivano ad un prelievo di sangue ed urina per verificare la presenza di sostanze psicoattive. I tre rifiutarono con spocchia e mi ricordo che pensai che erano dei cretini, perché poteva essere una attenuante nel processo. Con loro non stetti a parlare. Con Pelosi sì».
In quel primo colloquio con un medico (fino a quel momento aveva parlato solo con i carabinieri che l'avevano fermato), Pino "la Rana" confessa l'omicidio con parole identiche a quelle che ripeterà in seguito. Dice la verità o siamo di fronte ad una delle prime repliche di quel copione che reciterà più volte e per il quale verrà condannato a 9 anni per omicidio? Che ritratterà l'altro giorno davanti alle telecamere di Raitre dicendo «Non l'ho ammazzato io, erano in tre, io lo difesi»?
Crebelli ricorda che i carabinieri gli avevano sussurrato che aveva ucciso Pasolini. «Io ero quindi anche umanamente curioso di vedere l'atteggiamento di questo ragazzo… Mi colpì la sua testa piena di ricci, grande rispetto al suo corpo (Pelosi è piccolino), e il suo comportamento: era tranquillo e strafottente. Non esprimeva il minimo senso di rammarico o di colpa. Era furioso con Pasolini e ne continuava a parlare in termini molto aggressivi. Non ricordo se sui vestiti ci fosse del sangue. Mi sembra che avesse una ferita ad una mano, ma era già stato medicato. Io comunque non gli feci nessun intervento. Raccontava, mi ricordo, ciò che poi ripeté al processo: si erano appartati e secondo i patti lui doveva fare il "maschio". Invece Pasolini voleva usare su di lui un oggetto, un bastone. Pino reagì. L'altro insisteva. Poi la colluttazione. Pelosi diceva che era talmente "incazzato" che si era messo alla guida della macchina e aveva fatto la conversione. I carabinieri gli avevano poi detto che, con questa manovra, era passato sopra il corpo di Pasolini. E lui continuava a ripetere "Non me ne frega niente. Così impara"».
Anche in quella primissima confessione il ragazzo non fece menzione di altre persone, di quei balordi che oggi indica come i veri responsabili dell'omicidio, finora da lui protetti per paura? In effetti, va ricordato, il processo di primo grado per l'assassinio di P. P. P. si concluse con una condanna contro Pelosi per «omicidio volontario in concorso con altri». Poi la sentenza del Tribunale dei minorenni di Roma fu riformata in appello e la Cassazione escluse il concorso di ignoti. «Non ha assolutamente mai parlato di altre persone» conferma lo psichiatra. «E il mio parere personale sull'incontro che ebbi allora con Pelosi è che un ragazzo di 17 anni, incolto, a poche ore dal fatto non sia in grado di elaborare una bugia di questo tipo, mantenendo una sintonia così perfetta fra i fatti che raccontava e le emozioni che esprimeva».
Torniamo sempre allo stesso punto: le reazioni del ragazzo. Non piangeva, non imprecava, non si rammaricava di quanto era accaduto. «Era tranquillo anche nei confronti del luogo in cui si trovava e delle guardie carcerarie. Ripeto: non era aggressivo né particolarmente spaventato. L'emozione prevalente era la rabbia». Ma ripensando a quell'incontro, con l'esperienza di tanti anni di psichiatria, che cosa pensa della ritrattazione di Pelosi? Pino "la Rana" mentiva allora o oggi? «Quanto ho letto sui giornali in questi giorni combacia con i miei ricordi. La mia opinione è che ciò che mi disse e il tono con cui lo disse non erano una menzogna improvvisata. Quindi debbo concludere: o erano cose vere o era una bugia preparata, ma da tempo».