domenica 26 giugno 2005

Pollock a Venezia

L'Unità 26 Giugno 2005
Le mappe astrali di Jackson Pollock
di Renato Barilli

Non tutti i guai vengono per nuocere, con questo saggio proverbio si potrebbe riassumere la tormentata vicenda della collezione raccolta in vita da Peggy Guggenheim, andata a risiedere per decenni a Ca’ Venier dei Leoni, sul veneziano Canal Grande, e talmente innamorata della Serenissima da tentare di donarle le sue opere preziose. Ma Venezia e l’Italia tutta frapposero insuperabili difficoltà burocratiche, cosicché la statunitense, in punto di morte, decise di riaccorpare il suo tesoro con quello che un lontano parente, Solomon Guggenheim, aveva radunato a New York, nello splendido Museo sul Central Park progettato da Frank Lloyd Wright. Da qui, appunto, notevoli vantaggi sui due fronti: il Guggenheim ne ha tratto l’ispirazione per ripetere in tutto il mondo quell’operazione di sbarco sul suolo europeo nata quasi casualmente. Ma Venezia da quel momento ha potuto contare su un museo in più, piccolo eppure attivissimo. Basti pensare che solo nell’anno in corso alla Casa di Peggy è comparso un magnifico benché poco noto protagonista dell’Espressionismo astratto statunitense quale William Baziotes, seguito dalla incalzante serie di foto con cui Brancusi ha esplorato i vari profili delle sue sculture; e già si annuncia un omaggio, per la prima volta in Italia, alla grande scultrice francese Germaine Richier.
Ma soprattutto, nei giorni intensi della Biennale, la Guggenheim veneziana offre, proveniente dalla sede consociata di Berlino, una straordinaria rassegna di «dipinti su carta» del numero uno della Scuola di New York, Jackson Pollock (con titolo poetico, Senza confini, solo bordi, a cura di Susan Davidson, fino al 18 settembre). Conviene precisare subito che nell’occasione non si ammira affatto un artista proposto in chiave «minore», come potrebbe far sospettare il rapporto dall’abbozzo, dalla prima idea all’opera compiuta, bensì una serie di proposte che «minori» sono solo nella quantità di superficie occupata, ma per il resto la furia, il talento, la genialità dello statunitense vi si concentrano in pieno, con intatta forza. Insomma, il rapporto non è dal meno al più, ma dal microcosmo al macrocosmo. Queste «carte» sprigionano una potenza assolutamente pari agli organismi espansi che ne seguiranno, in questo caso l’embrione è già dotato davvero di una piena personalità.
E beninteso seguendo queste «carte» riesce di dipanare l’intero percorso pollockiano, nelle sue varie fasi che si accavallano. Si parte quando l’artista (1912-1956) tenta di «fare da sé», utilizzando i suggerimenti che gli vengono dal contesto nordamericano, ma già ricco di vivide fiammate di energia: saranno le «visioni» spiritiche dell’ottocentesco Ryder, o i racconti di provincia del maestro, che il Nostro ebbe appena giunto a New York, Thomas Hart Benton, dedito a narrare i piccoli episodi di vita locale, ma imprigionandoli entro un contorno attorto, come fossero grovigli di vipere. Del resto, l’artista da giovane compiva anche le sue brave incursioni nel museo saccheggiando i moti aguzzi del Tintoretto o del Greco. Era però un muoversi quasi in stato di sopensione, fuori del tempo.
Poi viene l’impatto con le avanguardie storiche del vecchio Continente, tra Picasso e i Surrealisti, anzi, a interessare Pollock alla fine degli anni ’30 è proprio un tremendo cocktail tra cubismo picassiano e Surrealismo della linea vitalista, Mirò-Masson: forme sagomate e plastiche, che però a un tratto subiscono come delle liquefazioni, si fendono in cavità profonde. Beninteso Pollock non è il solo ad abbeverarsi a quella fonte, proveniente dai «vecchi parapetti» europei, di vitalismo pronto a impadronirsi delle forme e a trascinarle in un mulinello pazzo. Anche De Kooning, Gorky, il già ricordato Baziotes, o insomma l’intera Scuola di New York, fanno tesoro della medesima lezione.
Ma fin lì i corpi, pur contorcendosi come saltimbanchi disossati, mantengono una qualche capacità di chiusura su se stessi. Varcato il capo del ’40, Pollock sente che è l’ora di rompere il passo, appunto come un cavallo che lascia il trotto per il galoppo: i contorni saltano, le viscere frementi entro i loro confini esplodono verso l’esterno, le linee di contorno non chiudono più, bensì aprono, protendono tentacoli a sciabolare lo spazio. Il lazo del cowboy più non si stringe ad afferrare una preda, ma rotea a mulinello con sibilo stridente. Insomma, Pollock inaugura la «marcia in più» del dripping. E la sorprendente scoperta che ci riserva la mostra da Peggy è che questa furia non ha bisogno di sfogarsi nelle vaste tele stese come pedane smisurate sul pavimento dello studio, ma riesce anche a concentrarsi nel limitato perimetro delle «carte».
Il famoso documentario filmico che ci mostra l’artista mentre a larghi passi percorre la superficie posta sotto i piedi versando fili di colore direttamente dal vaso lo fa apparire come un astronauta intento a una deambulazione nel vuoto sidereo, a muoversi in stato di impoderabilità entro una qualche galassia; ma le carte qui date alla nostra ammirazione ci dicono che quel viaggiatore ardito ha pure la capacità di fabbricarsi, un momento prima, delle mappe astrali, dei firmamenti incantati. O appunto, come si diceva, il macrocosmo viene racchiuso, imprigionato in un microcosmo, lo spirito inquieto con cui Aladino viene in contatto si muove dentro e fuori la bottiglia che a turno ne imprigiona e ne esala l’inestinguibile potenza.

DIPINTI SU CARTA
del grande artista in mostra alla Fondazione Guggenheim di Venezia. Un «piccolo» microcosmo che già contiene lo spirito inquieto e l’inestinguibile potenza dell’universo pollockiano