L'egemonia Usa e le trappole del keynesismo
Il capitalismo contemporaneo alla luce del pensiero di Paul Sweezy e della «Monthly Review» è il tema di una conferenza che si terrà questo lunedì a Londra, presso la storica sede della Marx Memorial Library. Ne anticipiamo un'ampia sintesi
JOSEPH HALEVI
Affrontare il pensiero di Sweezy nello spirito dello stesso Sweezy, e di Magdoff e Baran, significa affrontare i problemi del capitalismo odierno e cercare di individuarne gli aspetti di cambiamento. Paul Sweezy e tutto il gruppo della «Monthly Review» non caddero mai nella trappola del keynesismo politico-economico, in base al quale con misure di distribuzione del reddito più eque e con l'aiuto della spesa pubblica, è possibile pilotare il sistema capitalista verso la piena occupazione garantendone la stabilità nel tempo. Secondo tale ideologia keynesiana, sia la questione del lavoro sia quella dell'imperialismo esulano dal campo del funzionamento economico e appartengono invece a scelte politiche dettate puramente da teorie sbagliate, dette neoclassiche, piuttosto che dalla configurazione di classe del sistema. Sweezy e la «Monthly Review» ritennero invece di Keynes la parte più avanzata, che riguardava la scarsa disponibilità dei capitalisti a sostenere un ritmo adeguato di investimenti e il tentativo di trovare invece nelle opzioni finanziarie una strada più facile per accumulare ricchezza astratta. L'elemento centrale del pensiero di Sweezy e del gruppo della «Monthly Review» consiste nell'aver integrato su basi squisitamente marxiste tre aspetti cruciali del sistema capitalistico contemporaneo: il problema degli sbocchi o della domanda effettiva, il ruolo delle grandi corporations nell'unificare politica ed economia e nel definire i rapporti di potere su cui si articola appunto il problema della domanda effettiva, il ruolo endogeno al sistema dell'imperialismo che assume istituzionalmente la forma di interventi economici dettati dalle istituzioni, e quindi esterni ai calcoli e alle decisioni economiche delle singole imprese. Solo in questo contesto è possibile concepire un keynesismo compatibile con il capitalismo. Come oculatamente scrisse «Business Week» nel 1949: «Vi è una grande differenza sociale ed economica tra il pump priming (cioè gonfiare la spesa come si gonfia il copertone di un'auto) volto al welfare ed il pump priming militare...La spesa militare non altera in realtà la struttura dell'economia. Essa avviene attraverso i canali regolari. Per ciò che riguarda l'imprenditore un ordinativo di munizioni dal governo è uguale a un ordinativo effettuato da un cliente privato». Invece la spesa sociale, sosteneva il principale settimanale economico statunitense, «crea nuovi canali a sé stanti. Crea nuove istituzioni, ridistribuisce il reddito. Sposta la composizione della domanda da un'industria all'altra: cambia l'intera struttura economica». Questo è il vero nocciolo del keynesismo, non a caso reso possibile su scala mondiale dagli Usa fino al 1971. Dal 1971 la dinamica del capitalismo si pone in termini che circoscrivono il keynesismo militare solo agli Usa con effetti che sono sempre meno significativi per il resto del mondo industrializzato e molto differenziati anche all'interno degli Stati Uniti. In un lasso di tempo relativamente breve dopo il 1945 il ruolo imperialistico degli Stati Uniti è andato mutando al punto tale da dover imporre nel 1971 l'abbandono del sistema di Bretton Woods concepito come pilastro dell'egemonia Usa.
Lunedì 18 luglio Joseph Halevi terrà una conferenza in onore di Paul Sweezy - di cui qui anticipiamo un'ampia sintesi - alla Marx Memorial Library a Londra. Il tema dell'incontro, intitolato «Paul Sweezy and a Marxist response to contemporary capitalism», sarà appunto il capitalismo odierno alla luce del pensiero di Sweezy. La Marx Memorial Library è stata fondata nel 1933 ad opera di delegati del partito laburista, di quello comunista e di alcuni sindacati. L'istituzione ha sede nello storico palazzo di Clerkenwell Green che ospitò nel 1902, per oltre un anno, la redazione dell'Iskra e lo stesso Lenin, per poi diventare sede della casa editrice Ventesimo Secolo, della federazione socialdemocratica.
Ogni anno si tengono due lectures (solitamente in primavera e in autunno) che vedono da sempre protagonisti i più noti studiosi di area marxista o leader politici e sindacali, come Sweezy, Hobsbawm, Arthur Scargill, Tony Benn, David McLellan.
Come nota lo storico Howard Zinn fu nel 1898, con la guerra alla Spagna, che Washington menzionò esplicitamente il ruolo dei mercati esteri per assorbire il surplus di merci prodotte dall'economia nazionale. Lo State Department fu lapidario nell'affermare tale connessione in un documento in cui si sosteneva che senza l'apertura di mercati esteri il mantenimento dell'occupazione sarebbe diventato molto difficile. Questo accadeva alla fine dell'Ottocento. Nell'arco di tempo che dal 1898 va al 1942-45 gli Usa cercarono di mettere in campo tale politica di apertura di nuovi spazi di sbocco, spazi che hanno un nome preciso: la Cina. Non a caso la rotta di collisione con il Giappone si concretizzò negli anni Trenta quando sull'onda della crisi il Giappone volle fare della Cina la zona di sbocco per le sue merci nonché una fonte di proventi dell'export (cinese) con il resto del mondo per finanziare il deficit nipponico verso le aree della sterlina e del dollaro. Dopo il 1945 la storia cambia, e assai rapidamente. Se è vero che gli Usa usarono il sistema di Bretton Woods per scalzare la Gran Bretagna, trasferendo la tradizionale dipendenza dei Dominions dal Regno Unito agli Usa, e installare in maniera esclusiva le multinazionali petrolifere americane in aree controllate da Londra come l'Arabia Saudita (1945, accordo verbale tra Roosevelt di ritorno da Yalta e il re saudita) e l'Iran (dopo il 1953), gli Usa dovettero occuparsi del problema della bilancia dei pagamenti. Inoltre le zone sotto maggiore controllo americano, come il Giappone, la Corea meridionale e Taiwan, attraversarono un processo di crescita accelerata chiudendosi, con l'approvazione ed il sostegno di Washington, rispetto agli investimenti diretti statunitensi. Nella sostanza, la stessa egemonia Usa poneva dei limiti all'individuazione di zone in cui esportare i capitali, mentre la bilancia dei pagamenti Usa sviluppava deficit persistenti. Già alla fine degli anni Sessanta, quindi, si può dire che il problema principale degli Usa non fosse più quello dell'imperialismo classico di Lenin, motivato dall'esportazione di capitali. Il nodo allora consisteva nel rompere il meccanismo in base al quale gran parte del mondo capitalista beneficiava del keynesismo militare Usa più di quanto ne beneficiassero le corporations americane negli Usa. La risposta fu su due fronti: svalutazione del dollaro e aumento dei prezzi del petrolio. Dalle memorie di Henry Kissinger pubblicate nel 1982 e da articoli apparsi su «Foreign Policy» nel 1976 emerge in maniera convincente come lo shock petrolifero del 1974 fu sostenuto e pilotato politicamente. Con la svalutazione del dollaro, il Giappone divenne la variabile di aggiustamento della politica monetaria Usa (un fenomeno, questo, che non funziona con la Cina che sta rimpiazzando il Giappone come maggiore esportatrice verso gli Usa), mentre la creazione dei petrodollari diede un'enorme forza internazionale al sistema finanziario degli Stati Uniti, dato che l'Arabia Saudita è una componente del sistema americano. I vincitori furono le società finanziarie, ma la svalutazione del dollaro non fece uscire la bilancia dei pagamenti Usa dal deficit. La svolta avvenne nel 1978-79 con la perdita dell'Iran. L'Iran con Israele era il maggior acquirente di mezzi militari Usa. Buona parte degli acquisti militari iraniani erano finanziati da un'apposita agenzia pubblica Usa preposta proprio al finanziamento dell'export militare. Con il 1979 questo sbocco si chiuse e le società petrolifere Usa, che avevano in precedenza accettato la nazionalizzazione dell'estrazione del greggio da parte dell'Arabia Saudita, si accorsero di aver perso il controllo diretto del greggio in Medioriente. Pertanto, il secondo shock petrolifero fu reale e non interno alle logiche dei gruppi dirigenti Usa. Ancora fino alla fine degli anni Settanta il deficit estero Usa veniva visto come un problema da affrontare aumentando in qualche modo la competitività del sistema economico nazionale. Dopo il 1979 queste considerazioni vengono abbandonate e la questione del deficit è trattata come un problema per chi detiene i surplus. Ma tale scelta non fu effettuata in relazione alla posizione contabile internazionale degli Usa bensì in relazione alla composizione degli interessi capitalistici negli Usa. Essi si concentravano nei settori che vennero colpiti durante la crisi iraniana e nell'accresciuto potere, grazie ai petrodollari, del settore finanziario. Così il periodo di Reagan fu veramente un nuovo capitolo nella storia statunitense perché ebbe proprio come obiettivo la deindustrializzazione dell'apparato produttivo civile del paese e il rilancio della componente militare-industriale. È da allora che gli Stati Uniti diventano importatori globali di merci, servizi e di capitali, questi ultimi ottenuti con le buone nelle fasi di crescita speculativa e con le cattive nelle fasi di stanca. Intanto, i «macjobs», i mestieri di servizio a basso valore aggiunto, si moltiplicano. In questo schema non vi è spazio per idiozie keynesiane e riformiste del tipo «siate carini e ascoltateci che andranno meglio salari e profitti». La spesa pubblica funziona direttamente per il complesso militare-industriale keynesiano e le società petrolifere, il resto si arrangi. E il mondo, Africa inclusa, deve volente o nolente rifinanziare il deficit Usa. Questa è la natura dell'imperialismo oggi.