martedì 9 settembre 2003

il manifesto

il manifesto 9.9.03
POLITICA O QUASI
16/3 e 11/9, ricordi incrociati
IDA DOMINIJANNI

Il ricordo del sequestro di Aldo Moro fu una delle prime cose che mi passarono per la testa il pomeriggio dell'11 settembre di due anni fa. Non si trattava di un'associazione razionale fra due episodi di terrorismo, o del lucido timore di vedere riprodotti all'ennesima potenza (com'è poi puntualmente avvenuto) certi automatismi tipici della «risposta antiterrorista» e della «fermezza» statale, a cominciare dalle lesioni allo stato di diritto, che nel `78 e seguenti avevamo sperimentato in piccolo in Italia. Si trattava di un'associazione emotiva, la percezione immediata di un'analogia nell'impatto dei due eventi sui dispositivi della memoria individuale e collettiva, analogia che mi veniva suggerita dall'identico ricorrere di bocca in bocca della stessa domanda di allora, «dov'eri quando è arrivata la notizia?». Fissare il ricordo del luogo e della compagnia in cui un evento ci raggiunge è notoriamente il modo più semplice di cui la nostra mente dispone per legare la grande Storia alla piccola quotidianità, e contenere l'impatto di traumi destabilizzanti. La psiche individuale sa fare questa operazione; è il discorso del potere che si occupa poi, generalmente, di disfarla, tornando a separare la storia e la vita, la ragion di stato e i sentimenti. Ho ripensato a quell'associazione istintiva in questi giorni, dopo aver visto Buongiorno, notte e mentre leggo i resoconti e i commenti che ci avvicinano al secondo anniversario dell'11 settembre. Sul film di Bellocchio c'è poco da aggiungere a quanto è già stato scritto da più parti: il cinema riesce dove la politica ha fallito, libera Moro dal sequestro della rimozione collettiva, ne restituisce all'immaginazione l'eredità e ciò che egli avrebbe potuto ancora essere se fosse uscito vivo da quell'appartamento; e rimettendo in scena la sua immagine paterna riapre finalmente lo spazio per l'elaborazione della sua mancanza, in una società che ha trovato più comodo spostare la fine della prima Repubblica dalla morte del padre nel maggio del `78, quando di fatto avvenne, al giustizialismo delle monetine nel febbraio del `92. E poiché un film, come ogni testo, è fatto da chi lo scrive e da chi lo guarda, basta osservare l'assorta accoglienza di Buongiorno, notte nelle sale per capire che il tempo era più che maturo per riaccostare il vissuto collettivo di quella tragedia al diario terrorista nudo e crudo del sequestro, tolte di mezzo tutte le dietrologie, le teorie del complotto, le fantasie di oscuri retroscena e di potenti mandanti che per venticinque anni hanno funzionato da protesi retorica di uno stato ferito a morte ma incapace di accettare la propria vulnerabilità.

Il cinema italiano ritrova un suo vitale radicamento nella storia nazionale, dice qualcuno a commento di questo e altri titoli della mostra veneziana (The Dreamers, Segreti di Stato). O piuttosto si americanizza il rapporto fra cinema e politica, sì che qui come oltreoceano tocca al grande schermo dire ciò che resta indicibile nel discorso istituzionale? Anche sull'11 settembre Spike Lee con La venticinquesima ora, e Sean Penn e gli altri registi di 9/11/2001 hanno saputo mostrare e tenere assieme ciò che la retorica a stelle e strisce occulta o divide: la Storia planetaria e le storie individuali, il vissuto newyorkese del crollo delle Torri e tutt'altri vissuti in tutt'altre latitudini geografiche e politiche, e il corso imprevedibile di un trauma che lavora «underground zero» imprevedibilmente, non parla il linguaggio della ritorsione e della vendetta e ne conosce la completa inutilità. Nell'ufficialità dell'anniversario, invece, la mela torna a spaccarsi in due: di qua la parola dolente del vissuto, testimoni e superstiti che si interrogano incerti, di là la parola roboante dello stato, Bush che reclama soldi e soldati e galvanizza le viscere patriottiche col «duro lavoro» della guerra; e in mezzo solo sondaggi, ad avvertire che questa spaccatura non paga più. Quando un grande potere non sa venire a patti con la sua vulnerabilità molte sono le protesi che può indossare, dalla fermezza alle bombe, ma prima o poi deve sapersene spogliare, o ne muore.