Il Riformista 9.9.03
pompati
di Monty Bragan
Casualmente a Venezia
in giuria c'era Accorsi
Non abbiamo nulla contro il vincitore della Mostra del Cinema di Venezia, «Il ritorno» di Zvjagintsev, ma vorremmo sapere perché in Italia sia proprio irremovibile il dogma critico secondo cui, per essere premiabile, un film debba essere per forza anche noioso. A far le spese del dogma, stavolta, «Buongiorno notte» di Marco Bellocchio. Che, giustamente dispiaciuto, ha commentato: «Gli italiani sono imbattibili a non difendere le loro cose». E sono pure imbattibili a mazzolare i cani sciolti come Bellocchio. «Buongiorno notte» ha il coraggio di raccontare la storia distanziandosi dalla storia, usando come spunto il diario della carceriera di Moro per arrivare alla trasfigurazione del presidente Dc, da statista (idealizzato) a ricordo del padre del regista. La tragedia pubblica diviene ferita privata, i piani narrativi si confondono, l'unica risposta è nell'onirismo della protagonista. Casualmente, tra i giurati c'era anche Accorsi; casualmente, Accorsi si era proposto per la parte del brigatista Moretti, poi interpretato da Lo Cascio; non casualmente, Bellocchio lo aveva bocciato
(...)
La Stampa 9 Settembre 2003
MORO, un ponte sull’abisso
di Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari
WASHINGTON «IL rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse sta costringendo i politici italiani a costruire un ponte sopra un abisso politico. Le molte questioni sollevate dal caso potrebbero condurre a cambiamenti fondamentali nella direzione del paese». Non nasconde la preoccupazione l'agente della Cia che il 27 aprile 1978 si siede al tavolo per scrivere queste parole. Ha il compito di inviare a Langley, la sede dell’agenzia americana, un memorandum, per valutare l'impatto sulla stabilità del paese dell'avvenimento più drammatico negli «anni di piombo». Titolo del documento, di cui siamo venuti in possesso: Il rapimento Moro e la politica italiana.
Il leader della Dc è ancora nelle mani dei terroristi, ma la spia di Washington parla quasi al passato, cercando di prevedere gli effetti dell’uscita di scena dello statista. «Uno degli ultimi governi guidati dal politico veterano democristiano Aldo Moro - si legge infatti nel memorandum che è venuto in possesso della Stampa - aveva occupato il periodo dalla rottura della vecchia coalizione di centro sinistra, nel 1974, fino alla impennata elettorale in favore dei comunisti nel 1975. La natura transitoria del suo esecutivo aveva spinto i politici italiani a soprannominarlo “il ponte verso l'ignoto”. Ora il rapimento sta costringendo quegli stessi personaggi a costruire un ponte sopra l'abisso politico». E' in pericolo la stabilità dell'Italia, prezioso alleato di frontiera negli anni della guerra fredda insanguinati dal terrorismo, e questa sembra la preoccupazione principale per l'analista della Central Intelligence Agency.
«Sei settimane dopo il rapimento - continua il rapporto - un'aria di incertezza e di sfiducia pervade la vita politica italiana. Questa sensazione risulta in parte dall'assenza di Moro, ma riflette anche la frustrazione molto diffusa per l'incapacità del governo di trovarlo». La spia di Washington punta il dito contro l'inefficienza del ministero degli Interni e delle forze dell'ordine, e poi cerca di inquadrare l'agguato di via Fani nella complicata situazione politica di Roma. «Moro è stato rapito quando i democristiani e i comunisti avevano appena completato due mesi di negoziati delicati su una nuova formula governativa. Nonostante i colloqui avessero prodotto un accordo, in base al quale il Pci sostiene in Parlamento l'esecutivo di minoranza guidato dal primo ministro Dc Andreotti, molti dettagli contenziosi riguardo le relazioni tra i due partiti non sono ancora stati sviscerati».
Da qui nascono alcuni dei timori della Cia per la stabilità dell'Italia: «Dal rapimento in poi, la preoccupazione per il crimine ha impedito a chiunque di affrontare questi altri problemi irrisolti in maniera sistematica. A volte - continua il documento ottenuto dalla Stampa - le relazioni tra la Dc e il Pci sono segnate da tensioni crescenti. I comunisti, ad esempio, hanno criticato pubblicamente il governo per la mancanza di progressi nelle indagini sul caso».
Quindi l'agente americano fa una valutazione, che potrebbe sorprendere chi per anni ha sospettato l'implicazione dei servizi segreti di Washington nel rapimento: «La tensione - spiega l'uomo della Cia ai suoi superiori - riflette l'assenza dell'influenza stabilizzante di Moro, tanto sul suo stesso partito, quanto sulle relazioni con i comunisti. La capacità di Moro di armonizzare i rapporti tra la Dc e il Pci era uno dei suoi maggiori contributi alla politica italiana».
L'analista della Company era preoccupato per la tenuta del partito che aveva ancorato il nostro paese al blocco atlantico dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Infatti chiudeva il suo rapporto interrogandosi sugli effetti che il rapimento avrebbe potuto avere, probabilmente, sulla coesione interna della Democrazia cristiana, e soprattutto «sulla sua capacità di restare la maggiore forza politica italiana».
Circa un anno dopo queste valutazioni, alla fine di maggio del 1979, la stazione della Cia in Italia poteva tracciare un primo bilancio del dramma, che nel frattempo si era concluso a via Caetani. L'analisi cominciava con lo studio dell'accordo programmatico del 1977 tra Dc e Pci, definito come «l'ultima occasione in cui i due partiti negoziarono seriamente su questioni concrete», prima delle crisi del gennaio 1978 e gennaio 1979, «così dominate da problemi politici che gli aspetti economici erano solo rifiniture di quell'intesa». La Cia dava un giudizio positivo degli accordi che erano stati raggiunti due anni prima per il sostegno comunista al governo Andreotti: «Il Pci e la Dc erano stati capaci di un inizio promettente in alcune aree, ma avevano dovuto evitare le questioni piu' scottanti su altre. L'intesa era piena di dettagli sulla politica economica. Dava ad Andreotti il mandato per continuare l'austerità, e appoggiava specificamente le linee guida del Fondo Monetario Internazionale per l'Italia, come la riduzione del deficit di bilancio, la riallocazione delle risorse dal consumo agli investimenti, e la riduzione del costo del lavoro.
Nonostante l'accordo si fermasse prima di raccomandare cambiamenti fondamentali nella riforma del meccanismo della scala mobile, sottolineava la necessità di un aumento della produttività e includeva provvedimenti per una maggiore mobilità del lavoro. Per mettere in pratica altri aspetti economici dell'intesa, i partiti proponevano un tetto alla spesa pubblica da parte delle autorità nazionali e locali, il ristabilimento di una limitata autoritè' fiscale per i governi locali, la riduzione dei costi della sicurezza sociale attaverso vari mezzi, e un temporaneo congelamento delle assunzioni nel settore pubblico, tanto a livello nazionale quanto locale. Una varietà di misure fiscali era dunque prevista per scoraggiare ulteriormente i consumi interni, stimolare gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro. L'accordo era anche piuttosto specifico sulle misure di ordine pubblico, ma diventava molto meno chiaro quando affrontava questioni politiche più scabrose, come la riforma della scuola, i cambiamenti nel controllo dei media, e le procedure per le nomine nel settore pubblico. La Cia, insomma, sembrava incoraggiata dai risultati politici del dialogo tra democristiani e comunisti.
Infatti in un successivo paragrafo si analizzava Cosa è andato storto: «La maggior parte delle proposte dell'accordo programmatico non sono mai uscite dalla carta. Le ragioni sono complesse, ma coinvolgono soprattutto la resistenza cresciuta all'interno di entrambi i partiti verso la cooperazione tra i loro leader. Primo, i sostenitori del Pci nel mondo del lavoro ritenevano che il partito stesse ricevendo troppo poco in cambio del suo appoggio per le misure dell'austerity. Questa pressione fu uno dei fattori chiave nella decisione presa da Berlinguer alla fine del 1977 di far cadere il governo Andreotti e spingere per un ruolo piu' diretto del Pci. Dopo due mesi di tortuosi negoziati con il leader democristiano Aldo Moro, Berlinguer aveva ottenuto quello che voleva: la membership formale nella maggioranza governativa, uno status che aveva a lungo visto come l'ultima stazione prima dell'ingresso del Pci nell'esecutivo».
A quel punto, continua l'agente della Cia, «l'accordo programmatico sembrava di nuovo sui binari, ma allora Moro fu rapito dalle Brigate Rosse, proprio nel giorno in cui il nuovo governo doveva entrare in carica. In questo periodo caotico, seguito dall'omicidio di Moro da parte delle Br due mesi dopo, i problemi di ordine pubblico avevano soppiantato tutto il resto, e la politica economica era stata semplicemente riposta nello scaffale. Moro, la principale figura politica italiana, aveva concluso che la collaborazione tra Dc e Pci era l'unica via d'uscita al dilemma del paese. Ma quando lui non c'era più a difendere questa visione, i suoi oppositori nella Democrazia cristiana avevano puntato i piedi. Questo, in ritorno, aveva confermato la convinzione dei quadri comunisti che cooperare con la Dc era un proposito perdente». L'uomo della Cia scaricava sul rapimento Moro e sulle resistenze dei suoi compagni di partito il fallimento di un esperimento che gli era parso promettente.
L’agenzia americana mostrava di ricavare due lezioni dalle vicende avvenute in Italia nel 1977-79: «Nonostante i leader del Pci abbiano a cuore l'idea di una “trasformazione socialista” nel paese, sono disposti a correre i rischi politici necessari per affrontare pragmaticamente i problemi immediati dell'Italia, ma solo se convinti che tale operazione porti un quid pro quo. I democristiani sono disposti a concludere compromessi col Pci e fare concessioni politiche, ma solo se convinti che non ci siano alternative».
Dunque concludeva l'analisi così, quasi con rammarico: «Queste due condizioni di cui abbiamo appena parlato, necessarie alla riuscita della collaborazione, sono state in effetto per non più di tre o quattro mesi nel periodo successivo al luglio del 1997, quando l'accordo programmatico era stato concluso. Percio' sarebbe prematuro dichiarare l'esperimento Moro-Andreotti un fallimento».
La Stampa 9 Settembre 2003
Bodrato: il golpe del terrorismo
«E la Dc sbagliava a identificare gli Usa con il Pentagono»
Paolo Passarini
ROMA «LA cosa che più mi ha sorpreso, siccome noi tendiamo ad attribuire alla Cia un ruolo di estremizzazione delle posizioni del governo americano, è che qui troviamo invece una lettura attenta, moderata, che tende a ridurre piuttosto che ad allargare i punti della polemica». L’ex ministro dc Guido Bodrato ricorda molto bene l'ultima occasione in cui poté vedere Aldo Moro: fu quando l'allora presidente della Dc pronunciò il suo famoso ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari del partito, alla vigilia del suo tragico rapimento.
Il rapporto della Cia definisce la strategia di Moro condensata in quel discorso «un ponte sopra l'abisso politico». Condivide questa definizione?
«Per chi lo ascoltò fu esattamente così. Lo si può sintetizzare in pochi punti. Innanzi tutto, il discorso venne pronunciato a conclusione di una serie molto fitta di incontri di Moro con i critici della sua politica, in cui lui, come al solito, ascoltò molto. Per quello che riguarda la trama del discorso, i punti sono tre: stiamo vivendo un passaggio storico, la Dc deve innanzitutto affrontarlo unita, dobbiamo favorire l'evolversi di posizioni di dialogo nella sinistra. Dobbiamo farlo - sottolineò Moro - anche se non sappiamo quale sarà l'approdo. E' un passaggio da vivere mantenendo unità e iniziativa politica. Moro convinse molti, ma l'opposizione rimaneva forte, tanto è vero che la raccolta delle firme sulla mozione contraria continuò per tutta la notte».
Ma al mattino venne ritirata. Poi ci fu il sequestro.
«Riflettiamo un attimo sulla situazione. In quel momento la politica di solidarietà nazionale era in crisi. I colloqui tra Dc e Pci si erano conclusi con una tregua armata. C'era un contrasto molto forte sulla composizione del nuovo governo Andreotti. I comunisti, come più tardi ha raccontato Gerardo Chiaromonte nelle sue memorie, avrebbero anche potuto votare contro. Quindi si può dire che il sequestro Moro, se da una parte indebolì la sua strategia politica, dall'altra ne accelerò la realizzazione. Fu la vittoria dell'idea del "passaggio obbligato". Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se il Pci avesse votato contro. Una rottura in Parlamento avrebbe provocato elezioni anticipate e queste avrebbero ancora di più radicalizzato una situazione piena delle emergenze che tutti ricordiamo, quando invece l'obiettivo era quello di tenere aperto il dialogo democratico nel paese».
Il rapporto sembra tener conto di questo aspetto...
«Sì, infatti, e questo mi fa ricordare quanto forte fosse allora la preoccupazione della Dc di spiegare agli americani il senso della solidarietà nazionale. Prima Galloni, che era vicesegretario, approfittò di un ciclo di conferenze nelle università americane. Poi fu il segretario Zaccagnini, assieme a Pisanu, a recarsi negli Usa per cercare di spiegare che l'obiettivo della nostra politica era avvicinare il Pci al Patto Atlantico».
E che reazioni ottennero?
«Miste. Incontrarono posizioni molto diverse. Ma allora prevaleva in noi l'impressione che la posizione ufficiale americana, quella vera, fosse improntata alla diffidenza, a quella che si potrebbe definire la "dottrina Kissinger"».
Secondo il rapporto, con la scomparsa di Moro, nella Dc prevalgono le opposizioni e il partito va fuori controllo. Condivide questa analisi?
«Con un'osservazione aggiuntiva: che a far formalmente saltare la politica della solidarietà nazionale fu l'opposizione comunista allo Sme. L'europeismo era ancora lontano. Questo favorì il prevalere nella Dc del cosiddetto "preambolo", che significava semplicemente "con i comunisti non si può". Ma nel frattempo anche il Pci, che considerava Moro l'unico interlocutore, si era già spostato».
Quindi è corretto concludere che la scomparsa di Moro cambiò il corso della politica italiana?
«Il corso è stato cambiato perchè venne indebolito uno degli interlocutori politici, la Dc e la strategia morotea. Ma non è che poi è iniziata un'altra storia. Le coordinate di fondo erano state già delineate. Ricordo quando Scalfari pubblicò su Repubblica un suo dialogo postumo con Moro, da cui emergeva che la strategia morotea prevedeva la realizzazione di una "grande coalizione" con il pieno coinvolgimento del Pci nel governo. Io resto all'ultimo discorso di Moro: l'esito è ignoto. Del resto, la strategia di Moro teneva conto degli imprevisti, ma era diversa da quella di Berlinguer, che puntava alla "grande coalizione" e voleva introdurre in Italia "elementi di socialismo". Moro pensava che questo fosse un grave errore. Chi può dire che queste due posizioni, senza la violenza del terrorismo, si sarebbero progressivamente riavvicinate? Semplicemente non lo sappiamo».
Lei ha detto di essere rimasto sorpreso dalla lettura del documento. Vuole spiegare meglio?
«Evidentemente qui emerge un'interpretazione da parte americana molto diversa da quella che in qualche modo è stata trasmessa attraverso gli anni. C'è un atteggiamento di attenzione positiva per quanto accadeva in quegli anni in Italia. Insomma: la solidarietà nazionale non mette, per così dire, a rischio i confini. Come dicevo, si riteneva che la preoccupazione di Kissinger per le frontiere fosse dominante. Questa è una lettura diversa. E questo vale anche per la valutazione del ruolo della Dc in quegli anni. Qui non emerge il quadro di una Dc che sta rinunciando alla sua identità storica, all'anticomunismo cioè. Emerge invece attenzione verso la strategia morotea, correttamente individuata come una politica imposta da una serie di necessità».
Una conclusione?
«Mi si è rafforzata un'idea alla quale penso da qualche tempo. Secondo me, il grande errore della Dc, intesa come partito della "terza via" in Europa, è stato proprio quello di far politica a partire dal presupposto che, come dire?, l'America fosse il Pentagono. Che, cioè, la visione americana delle cose coincidesse con quella del suo governo o di una parte di esso. Questo errore ci ha portato a trascurare tanti altri filoni di analisi esistenti e disponibili. Penso che questo errore di circoscrivere tutto ai governi e alle istituzioni abbia influito negativamente sulla storia dei rapporti tra le grandi democrazie».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»