martedì 9 settembre 2003

il manifesto

il manifesto 9.9.03
VENEZIA
Rai, speriamo che non sia solo un bluff
La minaccia Rai di non andare più a Venezia è un escamotage tattico-promozionale o il segnale di un conflitto nella maggioranza?
ROBERTO SILVESTRI

«Non posso considerarmi membro di un club che tra i suoi iscritti annoveri un tipo come me». Lo diceva il grande comico Groucho Marx, involontariamente impersonato da Giancarlo Leone, amministratore delegato di RaiCinema, mentre annunciava solennemente - attraverso una lettera ufficiale al presidente-manager della Biennale Franco Bernabé - l'embargo dei prodotto Rai dalle prossime Mostre del cinema di Venezia. E ha aggiunto: da ora in poi andremo a Toronto, a Berlino o a Montreal, perché «dobbiamo tutelare gli autori e i produttori indipendenti che lavorano con noi». Ma perché questo coraggioso e bellicoso proclama (anche se troppo concede alle esternazioni, da talk show sciovinista, di Marina Cicogna e Pasquale Squitieri) è arrivato solo dopo il verdetto del Lido, che ha umiliato la sua tricolore opera «ammiraglia». Difetto di tatto? Di eleganza? Di umorismo? O semplicemente una genuflessione ai metodi fotocopiati dal nostro premier per far astuta politica coi media? Da qui l'ilarità generale suscitata, sulle prime.

Invece Giancarlo Leone ha ragione. Come ha scritto, in un delizioso corsivo contro il festival, anche Roberto Nepoti su La repubblica, Bellocchio non è stato battuto, secondo il verdetto di una giuria competente e autorevole almeno quanto guascona (ammesso che l'agonismo sia utile a aiutare film meritevoli: a Toronto non si gareggia affatto) da Alila di Amos Gitai, o dal Dragon Inn di King Hu-Tsai Ming-Liang, o da The agronomist di Jonathan Demme, lasciato «fuori gara» dagli ottocenteschi schemi mentali di un direttore sedicente star. O dagli altri film portatori di valori universali dentro un (uni)forme-cinema battagliera e antagonista (questa è l'arte, chi fa cinema lo sa fin troppo bene), ma da un conformista, molto «local» e involontariamente comico Infanzia di Ivan 6, soporifera psycho-soap-opera d'esordio di Zvyagintsev, ottima forse per lanciare con lo slogan «ecco il nuovo Tarkovski», un canale tematico di Sky; o per soddisfare parzialmente quel che per de Hadeln è il rovello interiore dell'uomo contemporaneo: «tutti si preoccupano dei figli». Infatti, allora, perché non ha stravinto il coreano hard di Im Sangsoo, De Oliveira o proprio Bellocchio, che ci parla di come e perché si elimino «i padre della patria» considerati più «rompicoglioni»?

Certo uno si chiede: ma come, la Rai, che quando era servizio davvero pubblico, mise sotto tutela, o sotto sponsor o sotto ipnosi che dir si voglia, il Lido (finanziato principalmente dallo stato) e trasformò, specialmente durante il regno di Craxi, l'appuntamento veneziano da mostra del cinema di qualità (anche commerciale) in un mega show sputa spot di due settimane da prima serata tv già di livello Marzullo-Chiambretti, dove «niente documentari please, e chissò sti Maori ?» (detto di Tamahori da un geniale cine-manager di Eta Beta) si lamenta adesso, solo per non aver vinto questo Leone d'oro, di essere capitata in un carrozzone inutile e ignorante, quasi in un covo esiziale mal pensato, mal organizzato, mal accessibile, dove anche alcuni bei film (scelti da chi?) sono stati messi nella sezione sbagliata, ostacolati o celati o nascosti (Sarah Moon Howe e il suo magnifico Non dire nulla alla mamma è stata addirittura cancellata dal catalogo Electa). E attacca il direttore de Hadeln perché non dà alcuna garanzia «né sui criteri di selezione dei film, né sulla composizione delle giurie né sull'attenzione verso l'industria italiana».

Ma se avesse vinto Bellocchio, Venezia 60 sarebbe stata invece il paradiso dell'Arte e del commercio cinematografico equo e solidale? Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, premiato per la sceneggiatura (da sempre la critica considera il cineasta piacentino anche un grande scrittore di copioni, ma in questo caso sembra proprio la virtù minore), non lo ha solo prodotto Raicinema (e in particolare il suo direttore generale Carlo Macchitella, che è anche presidente di «01», la società di distribuzione di RaiCinema). Ma lo ha proprio ideato a tavolino, come ai vecchi tempi dei produttori grintosi e invasati, come film-prototipo da far dirigere a Bellocchio, da mandare a Venezia, da far premiare, perché adatto al nuovo meccanismo di sfruttamento dei film in sala. Si dura poco tempo nei multiplex, due-tre settimane, bisogna massimizzare l'interesse e le copie. Bisogna far parlare del film a tutti i costi, con ogni mezzo necessario, finte polemiche, finte minacce comprese. Allora sì che si finirà anche su Sky1.

Insomma purtroppo crediamo che la provocazione di Leone rientrerà, e che de Hadeln resterà al suo posto e a Venezia 2004 copiosi film Rai presto si annunceranno. Anche perché ieri il festival e le sue orrende gerarchie congegnate da de Hadeln e sancite da un Monicelli che alla sua età può dire cosa vuole e dormire quando crede, sono stato sostenuto plebiscitariamente - destra e sinistra - dalla stampa francese (sempre unita se si tratta di mettere in difficoltà Venezia, la pericolosa avversaria di Cannes). E poi da Giancarlo Galan, presidente della regione Veneto e consigliere d'amministrazione della Biennale, che vuole più Brasile e Argentina perché c'è più presenza veneta...
(...)